Corte di Cassazione, sezione quarta penale, sentenza 19 gennaio 2018, n.2354. Nelle ipotesi di trattamenti sanitari affidati ad una pluralità di medici

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La Corte ha escluso rilevanza penale: nel caso in cui il medico sottoponga il paziente ad un trattamento chirurgico diverso da quello in relazione al quale era stato prestato il consenso informato e tale intervento, eseguito correttamente, si sia concluso con esito fausto, nel senso che ne è derivato un apprezzabile miglioramento delle condizioni di salute, in riferimento anche alle eventuali alternative ipotizzabili e senza che vi fossero indicazioni contrarie da parte del paziente medesimo, tale condotta è priva di rilevanza penale, tanto sotto il profilo del reato di lesioni volontarie (articolo 582 cod.pen.), che sotto quello del reato di violenza privata (articolo 610 cod.pen.).
Le Sezioni unite, in definitiva, hanno definitivamente chiarito che la mancanza o l’invalidità del consenso non ha alcuna rilevanza penale.
Si tratta piuttosto di apprezzare gli effetti penali che dall’eventuale mancato o invalido consenso possono derivare per il medico in caso (ovviamente) di esito infausto o comunque dannoso del proprio intervento. È il tema di fondamentale rilievo della valutazione del contenuto della ‘colpa’.
È da ritenere (v. in tal senso anche Sez. 4, n. 37077 del 24/06/2008 parte civile Ruocco ed altro in proc. Marazziti, Rv. 240963) che la valutazione del comportamento del medico, sotto il profilo penale, quando si sia in ipotesi sostanziato in una condotta (vuoi omissiva, vuoi commissiva) dannosa per il paziente, non ammette un diverso apprezzamento a seconda che l’attività sia stata prestata con o in assenza di consenso.
Cosicché, per intenderci, il giudizio sulla sussistenza della colpa non presenta differenze di sorta a seconda che vi sia stato o no il consenso informato del paziente. Con la importante precisazione che non è di regola possibile fondare la colpa sulla mancanza di consenso, perché l’obbligo di acquisire il consenso informato non integra una regola cautelare la cui inosservanza influisce sulla colpevolezza: infatti, l’acquisizione del consenso non è preordinata (in linea generale) ad evitare fatti dannosi prevedibili (ed evitabili), ma a tutelare il diritto alla salute e, soprattutto, il diritto alla scelta consapevole in relazione agli eventuali danni che possano derivare dalla scelta terapeutica in attuazione di una norma costituzionale (art. 32, comma 2).
In realtà, come esattamente precisato dalla citata sentenza resa nel procedimento imp. M. , in un unico caso la mancata acquisizione del consenso potrebbe avere rilevanza come elemento della colpa: allorquando, la mancata sollecitazione di un consenso informato abbia finito con il determinare, mediatamente, l’impossibilità per il medico di conoscere le reali condizioni del paziente e di acquisire un’anamnesi completa (ciò che potrebbe verificarsi, esemplificando, in caso di mancata conoscenza di un’allergia ad un determinato trattamento farmacologico o in quello di mancata conoscenza di altre specifiche situazioni del paziente che la sollecitazione al consenso avrebbe portato alla attenzione del medico). In questa evenienza, il mancato consenso rileva non direttamente, ma come riflesso del superficiale approccio del medico all’acquisizione delle informazioni necessarie per il corretto approccio terapeutico (v., per utili riferimenti, Sez. 4, n. 10795 del 14/11/2007, dep. 2008, Pozzi, dove si afferma che il medico ha l’obbligo di assumere – dal paziente o, se ciò non è possibile, da altre fonti informative affidabili – tutte le informazioni necessarie al fine di garantire la correttezza del trattamento medico chirurgico praticato al paziente).
È in questa prospettiva, che regge e va condivisa la decisione gravata, allorquando evidenzia il tema della affermata mancanza di un consenso valido e pieno come nello specifico dimostrativo di un atteggiamento colposo del sanitario, rilevante ai fini del verificatosi evento lesivo, giacché la mancata prospettazione dell’alternativa possibile (che doveva essere posta in sede di consenso informato) all’intervento (nello specifico, il follow up terapeutico) ha posto le condizioni per un approccio interventistico approssimativo e inutilmente rischioso, con gli effetti dettagliati in contestazione.
E peraltro la decisione presenta un vizio che ne impone l’annullamento con specifico riguardo ai profili civilistici: il giudice di appello, infatti, pur avendo derubricato l’originaria contestazione, e in tale prospettiva comunque limitato l’ambito dei profili di colpa addebitati infine all’imputato, si è limitata a confermare le statuizioni civilistiche adottate in primo grado nei confronti dell’imputato.
È evidente l’erroneità di tale determinazione, non solo non supportata da adeguata spiegazione, ma comunque concettualmente incompatibile con l’evidenziata derubricazione.
Si impone l’annullamento della decisione, nei confronti dell’ H. , limitatamente alle statuizioni civili, con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello; il ricorso dell’H. stesso va nel resto rigettato: il giudice del rinvio provvederà alla regolamentazione delle spese tra le parti anche per il presente grado di giudizio.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata nei confronti di H.C. limitatamente alle statuizioni civili e rinvia sul punto al giudice civile competente per valore in grado di appello cui rimette il regolamento delle spese tra le parti anche per questo giudizio di legittimità; rigetta nel resto il ricorso dell’H. .
Rigetta i ricorsi delle parti civili V.L. , V.A. e V.G. e condanna gli stessi al pagamento delle spese processuali

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