Corte di Cassazione, sezione quarta penale, sentenza 19 gennaio 2018, n.2354. Nelle ipotesi di trattamenti sanitari affidati ad una pluralità di medici

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Si tratta di argomenti qui non censurabili, anche a fronte di un ricorso generico, perché neppure sono dettagliate nello specifico le ragioni a supporto del preteso coinvolgimento eziologico del M. : la doglianza sul punto è meramente pretensiva.
L’iter motivazionale è invece coerente con il principio, correttamente richiamato dal giudice di merito secondo il quale nella ipotesi, come quella in esame, in cui il trattamento sanitario affidato ad una pluralità di medici, sia pure in forma diacronica attraverso atti medici successivi, sfoci in un esito infausto, ciò che rileva, ai fini della individuazione della penale responsabilità di ciascuno di essi, è la verifica della incidenza della condotta di ciascuno sull’evento lesivo, sconfinando altrimenti la valutazione nel campo della responsabilità oggettiva.
In tale situazione vige il principio di affidamento, che trova applicazione in ogni situazione in cui una pluralità di soggetti si trovi ad operare a tutela di un medesimo bene giuridico sulla base di precisi doveri suddivisi tra loro. In questa situazione è opportuno che ogni compartecipe abbia la possibilità di concentrarsi sui compiti affidatigli, confidando sulla professionalità degli altri, della cui condotta colposa, poi, non può essere chiamato di norma a rispondere. Così configurato il principio di affidamento funge da limite all’obbligo di diligenza gravante su ogni titolare della posizione di garanzia.
Si tratta di un tema molto delicato perché tale principio va contemperato con l’obbligo di garanzia verso il paziente che è a carico del sanitario (di tutti i sanitari che partecipano contestualmente o successivamente all’intervento terapeutico).
È evidente infatti che la mera applicazione del principio di affidamento consentirebbe ad ogni operatore di disinteressarsi completamente dell’operato altrui, con i conseguenti rischi legati a possibili difetti di coordinamento tra i vari operatori.
Il riconoscimento della responsabilità per l’errore altrui non è, conseguentemente, illimitato e, per quanto qui rileva, richiede la verifica del ruolo svolto da ciascun medico dell’equipe, non essendo consentito ritenere una responsabilità di gruppo in base a un ragionamento aprioristico.
Tale verifica, per quanto sopra esposto in fatto, è stata compiuta dalla Corte di appello e la sentenza non merita censura.
Anche la doglianza con la quale si contesta la possibilità per il giudice di appello che abbia constatato una causa di estinzione del reato, di emettere una sentenza di assoluzione nel merito, è infondata.
Secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità vale il principio secondo il quale, all’esito del giudizio di merito, il proscioglimento nel merito, in caso di contraddittorietà o insufficienza della prova, non prevale rispetto alla dichiarazione immediata di una causa di non punibilità, salvo che, in sede di appello, sopravvenuta una causa estintiva del reato, il giudice sia chiamato a valutare, per la presenza della parte civile, il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili (v. Sez. U, n. 35490 del 15/09/2009, Tettamanti).
Infondato è anche il motivo con il quale si censura la sentenza nella parte in cui non avrebbe affrontato la questione relativa alla individuabilità del cd. ‘sanguinamento sentinella’ come causa di potenziale degenerazione delle condizioni del paziente.
La questione è stata compiutamente trattata dal giudice di appello, ma per escludere l’addebito di H. con riferimento al secondo ricovero in (omissis) del V. . Sul punto, la Corte di merito, dando atto anche della contestazione dei consulenti di parte, ha recepito il contenuto della perizia di ufficio ed ha spiegato le ragioni per le quali ha aderito ad essa sottolineandone la conformità agli insegnamenti ed alla prassi scientifica della comunità internazionale. È stato così rimarcato che la natura del sanguinamento è emersa soltanto in occasione del secondo intervento- quello tardivamente effettuato da H. nella tarda serata del 9 maggio – mentre non potevano essere assunti alla stregua di errori professionali, la mancata effettuazione della TAC con mezzo di contrasto, rispettosa della volontà del paziente e della scelta di dimetterlo,considerato il quadro di stabilizzazione delle condizioni generali.
Tale profilo di colpa non risulta, invece, essere stato contestato al M. , per il quale comunque varrebbero le stesse considerazioni.
Al rigetto dei ricorsi delle parti civili segue la condanna delle stesse al pagamento delle spese processuali.
Quanto al ricorso proposto nell’interesse dell’imputato H. , vale ricordare in premessa che il giudice di appello, nel prendere atto di una causa estintiva del reato verificatasi nelle more del giudizio di secondo grado, è tenuto a pronunciarsi, in forza dell’articolo 578 cod.proc.pen., sull’azione civile, dovendo quindi necessariamente compiere una valutazione approfondita dell’acquisito compendio probatorio, senza essere legato ai canoni di economia processuale che impongono la declaratoria della causa di estinzione del reato quando la prova dell’innocenza non risulti ictu oculi (cfr. la già citata Sez.U, Tettamanti).
Va allora considerato che la Corte di secondo grado non si è sottratta a tale compito, allorquando è passata ad esaminare, anche con il conforto degli elaborati tecnici, i diversi profili di censura nei confronti della condotta professionale dell’imputato.
Compito che il giudicante ha effettuato con argomentazioni non illogiche, tra l’altro attente ad escludere il rilievo di alcuni dei comportamenti invece in origine posti a fondamento della contestazione.
Decisivo rilievo, qui in termini incensurabili, è attribuito alla violazione del proprium cautelare del chirurgo, chiamato a vigilare sulle condizioni del paziente per tutti gli eventi correlabili alle conseguenze dell’intervento effettuato, tra l’altro considerato effettuato in assenza di consenso validamente prestato.
Il giudicante si è così soffermato, in particolare, sul carente monitoraggio delle fasi critiche dovute a patologie direttamente riconducibili alla scelta di operare (insorgere del diabete) e sulla non giustificata scelta di ritardare il secondo intervento pur in presenza di un paziente in fin di vita che doveva essere trattato con urgenza.
Sono argomenti qui non censurabili, anche perché si è in presenza di declaratoria di prescrizione.
Non colgono nel segno le critiche della difesa sulla asserita rilevanza attribuita dal giudice di merito alla mancanza di un consenso valido, pur dovendosi meglio chiarire e puntualizzare le considerazioni sviluppate in sentenza, non sempre chiare.
In realtà, il punto di partenza, correttamente inteso dalla Corte di secondo grado, è la sentenza della Corte di cassazione, Sezioni unite, n. 2437 del 18/12/2008, dep.2009, Giulini, Rv. 241752, anche se intervenuta sulla questione della possibile rilevanza penale della condotta del sanitario che, in assenza di consenso informato del paziente, sottoponga il paziente stesso ad un determinato trattamento chirurgico nel rispetto delle regole dell’arte e con esito fausto.

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