Corte di Cassazione, sezione prima penale, sentenza 1 febbraio 2018, n. 5011. Nel giudizio prognostico concernente la concessione della misura dell’affidamento in prova al servizio sociale

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Di questi parametri il Tribunale di Sorveglianza ha fatto un uso corretto: e’ stato valutato tanto il pregresso comportamento del ricorrente (in termini di condotta di vita e di reiterata commissione di reati) quanto la circostanza dell’avere prospettato una attivita’ lavorativa che il giudice – sulla base di elementi risultanti dalla istruttoria – aveva ritenuto non essere effettiva.

In aggiunta a cio’, e’ stato soprattutto evidenziato come il condannato – il quale pure afferma che il domicilio, presso cui sono stati lasciati gli inviti a presentarsi presso gli uffici di polizia per fornire informazioni, era la sua effettiva dimora – non ha mai inteso ottemperare agli inviti stessi.

Questo elemento e’ stato correttamente ritenuto come configurante un quadro di mancata lealta’ processuale, che pure si deve richiedere in colui che invoca un beneficio di legge.

Infatti, una volta presentata la richiesta di affidamento in prova al servizio sociale, il condannato ha l’obbligo di collaborare con gli operatori delegati a raccogliere utili informazioni sul suo conto, anche al fine di predisporre un programma di intervento con previsione delle prescrizioni piu’ idonee; pertanto, il comportamento del condannato che, nel richiedere la citata misura alternativa, indichi attivita’ lavorative non effettive oppure non cooperi in alcun modo con i detti operatori dimostra la mancanza di volonta’ collaborativa con gli operatori che hanno lo specifico compito di formulare proposte sulla base delle informazioni raccolte e ne consegue che una siffatta condotta ben puo’ essere valutata negativamente dal Tribunale di Sorveglianza, poiche’ essa si pone in contrasto con le finalita’ proprie dell’istituto in esame (Sez. 1, 12.03.1996 n. 811).

A causa di cio’, va anche detto che il giudice ha tratto la conclusione per cui il ricorrente non appariva avere maturato una concreta spinta verso un reale mutamento della sua condotta di vita in senso positivo.

In definitiva, l’ordinanza impugnata ha tenuto conto dei principi consolidati espressi da questa Corte in tema di concessione della piu’ ampia delle misure alternative.

Questa Corte ha, infatti, ripetutamente chiarito che nel giudizio prognostico concernente la concessione della misura dell’affidamento in prova al servizio sociale, deve pervenirsi ad una valutazione di fronteggiabilita’ della pericolosita’ sociale residua con gli strumenti dell’istituto indicato (Sez. 1, 13.02.1982 n. 1999); in altri termini, elementi quali – esemplificativamente – la condotta anteatta e quella recente dell’interessato, la sussistenza di nuove denunzie, la pendenza di procedimenti penali, la frequentazione di soggetti pregiudicati e di ambiti malavitosi, ben possono valutarsi ai fini della formulazione di una prognosi sul comportamento futuro del condannato e sul ragionevole esito del beneficio.

Del resto, poiche’ non esiste una sorta di presunzione generale di affidabilita’ di ciascuno al servizio sociale, ma al contrario devono sussistere elementi positivi sulla base dei quali il Giudice possa ragionevolmente “ritenere” che l’affidamento si riveli proficuo, appare evidente che – in relazione agli obbiettivi di rieducazione e di prevenzione propri dell’istituto – la reiezione dell’istanza di affidamento puo’ considerarsi validamente motivata anche sulla sola base delle informazioni fornite dagli organi di polizia o dai servizi sociali, quando esse, lungi dal dimostrare elementi certi del genere anzidetto, pongano in luce, al contrario, la negativa personalita’ dell’istante.

Quanto alla istanza di detenzione domiciliare, va precisato che, sebbene l’espressione utilizzata dal Tribunale di Sorveglianza non sia stata felice, essa comunque conserva la sua validita’, nel senso che intendeva affermare che il domicilio non mancava, ma esso non era utile ai fini dell’istruttoria, e cio’ a causa della condotta indifferente del condannato.

Si tratta di una conclusione corretta: atteso il testuale tenore dell’articolo 47 ter Ord. Pen., secondo cui – alle condizioni previste – le pene “possono” essere espiate in regime di detenzione domiciliare, e’ da escludere che l’applicazione di detta misura alternativa possa mai costituire oggetto di un diritto, essendo essa al contrario sempre subordinata ad una valutazione discrezionale del giudice di merito, investito del potere-dovere di valutare non soltanto la ricorrenza delle condizioni di legge, ma anche la compatibilita’ del beneficio con le esigenze di effettiva espiazione della pena inflitta, tenendo conto delle molteplici finalita’ di quest’ultima che sono, al contempo, afflittive, preventive e recuperatorie; in ogni caso poi la detenzione domiciliare non puo’ divenire di fatto una facile occasione per sfuggire in assoluto alla sanzione o per proseguire nell’attuazione di comportamenti illeciti (cfr Cass. pen., sez. 1, 02.12.1992 n. 4520). Il potere discrezionale del giudice di sorveglianza in tema di detenzione domiciliare e’ eccezionalmente ampio e, in assenza di parametri legislativi predeterminati, deve ancorarsi a qualsiasi ragione che abbia una certa pregnanza sul piano delle caratteristiche del reo e delle sue condizioni personali (eta’, condizioni di salute, garanzie di affidabilita’) o sul piano della gravita’ della pena da espiare; ed ancora, il giudice deve ritenere che il beneficio sia idoneo ad evitare la ricaduta nel reato da parte del condannato o la fuga del medesimo: e gli elementi di giudizio possono riguardare sia l’efficacia delle prescrizioni imposte sia le caratteristiche di personalita’ del soggetto sia gli esiti delle indagini sul comportamento in ambiente libero (Sez 1, 17.07.1999 n. 4590; Sez. 1, 28.12.1999 n 6712).

Di conseguenza, il ricorso deve essere rigettato. Al rigetto consegue, ex articolo 616 cod. proc. pen., la condanna al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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