Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|3 febbraio 2025| n. 2562.
Consenso informato non esclude responsabilità medica
Massima: La sottoscrizione, da parte del paziente, del modulo di consenso informato all’atto chirurgico non è sufficiente ad escludere di per sé la responsabilità dei sanitari curanti, non potendo essa sopperire a responsabilità ed errori medici derivanti da una scelta terapeutica errata. Allo stesso modo, è corretto affermare che sono irrilevanti le cognizioni che il paziente può avere per propria scienza privata – nella specie il paziente svolgeva la professione di veterinario – perché qui si trattava di decidere quale fosse la scelta terapeutica da compiere, con illustrazione dei relativi rischi e vantaggi, e il consenso all’atto chirurgico non prova affatto che detta attività di informazione sia stata svolta.
Ordinanza|3 febbraio 2025| n. 2562. Consenso informato non esclude responsabilità medica
Integrale
Tag/parola chiave: Responsabilità sanitaria – Negligenza – Esecuzione di intervento chirurgico – Causa di diffusione e moltiplicatore del tumore – Assenza del consenso del paziente – Censure inammissibili
REPUBBLICA ITALIANA
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 16690/2022 R.G. proposto da:
ASL 2 AZIENDA SOCIOSANITARIA LIGURE, rappresentata e difesa dall’avvocato PE.PI. (Omissis), elettivamente domiciliata presso l’indirizzo PEC indicato dal difensore
-ricorrente-
contro
No.Ma., rappresentata e difesa dall’avvocato AN.PA. (Omissis), elettivamente domiciliata presso l’indirizzo PEC indicato dal difensore
-controricorrente-
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di GENOVA n. 285/2022 depositata il 17/03/2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 28/11/2024 dal Consigliere FRANCESCO MARIA CIRILLO.
Consenso informato non esclude responsabilità medica
FATTI DI CAUSA
1. No.Ma. convenne in giudizio la ASL 2 Savonese, davanti al Tribunale di Savona, chiedendo che fosse condannata al risarcimento dei danni conseguenti alla morte del proprio coniuge, Ca.Sa., per asserita negligenza professionale dei sanitari curanti.
A sostegno della domanda espose, tra l’altro, che il marito, all’epoca dei fatti di anni cinquantuno, aveva accusato, nell’agosto 2012, astenia, febbricola e tosse persistente e che, sottopostosi ad accertamenti, era risultato affetto da un adenocarcinoma polmonare con metastasi linfonodali. Ricoverato presso l’ospedale di Pietra Ligure, egli era stato operato dal dott. Ratto in data 16 ottobre 2012 e poi dimesso il successivo 26 ottobre. Era stato poi nuovamente ricoverato a causa dell’estensione delle metastasi al fegato ai reni e alle ossa ed era venuto a mancare il 20 dicembre 2012.
La No.Ma. ipotizzò, a carico della ASL convenuta, una responsabilità professionale fondata su tre ragioni: aver sottoposto il Ca.Sa. ad un intervento chirurgico non adeguato in considerazione delle sue condizioni; non averlo correttamente informato dei relativi rischi e aver praticato un’assistenza post-operatoria non idonea.
Si costituì in giudizio l’Azienda convenuta, la quale chiese il rigetto della domanda.
Espletata prova per testi e disposta una c.t.u. medico-legale, il Tribunale rigettò le domande e compensò le spese di lite.
2. La decisione è stata impugnata dall’attrice soccombente e la Corte d’Appello di Genova, con sentenza del 17 marzo 2022, ha accolto il gravame e, riconosciuta la responsabilità dell’appellata, l’ha condannata al risarcimento dei danni in favore dell’appellante, liquidati nella somma di Euro 73.798 a titolo di danno iure hereditatis e nella somma di Euro 161.810,50 a titolo di danno da perdita del rapporto parentale, nonché al pagamento delle spese dei due gradi di giudizio.
2.1. La Corte territoriale ha osservato – per quanto di residuo interesse in questa sede – che il Ca.Sa., dopo aver ricevuto la diagnosi sfavorevole, si era rivolto al dott. Ratto e ad altri specialisti, i quali gli avevano indicato due possibili approcci terapeutici: o quello di sottoporsi a chemioterapia e radioterapia, valutando in seguito, se del caso, un intervento chirurgico, oppure intervenire subito per asportare la massa tumorale. Scelta la seconda strada, nonostante in corso di intervento la mediastinoscopia avesse dato esito favorevole, era stato tuttavia necessario asportare integralmente il polmone malato. I successivi sviluppi erano stati negativi, perché la malattia era rapidamente peggiorata “a causa di una disseminazione metastatica determinata dall’atto chirurgico”.
Esaminando la motivazione della sentenza del Tribunale, la Corte genovese ha premesso che le dichiarazioni dei testimoni non potevano essere sopravvalutate, dal momento che provenivano “da specialisti coinvolti in un atto terapeutico che non aveva avuto esito positivo”. I sanitari curanti, infatti, avevano scelto l’immediata opzione chirurgica in buona fede, ma questo non permetteva di affermare che la decisione fosse quella giusta. Alla luce della relazione del c.t.u., invece – le cui conclusioni erano sostenute da motivate argomentazioni scientifiche non contestate in modo efficace dai c.t. di parte – il tipo di tumore dal quale era affetto il paziente e la sua stadiazione (IIIA) sconsigliavano assolutamente l’approccio chirurgico, mentre era indicato il solo trattamento chemioterapico. In tal senso erano le linee guida dell’epoca, che avrebbero potuto essere superate solo in condizioni particolari, come un “tentativo estremo e disperato”. Ma, proprio per tale ragione, trattandosi di un’eccezione rispetto alla regola, doveva essere la ASL convenuta a dimostrare che ricorrevano tali straordinarie condizioni, cosa che, nella specie, non era avvenuta.
La Corte d’Appello, inoltre, ha affermato che tale intervento chirurgico non era stato né richiesto né concordato col paziente, posto che dagli atti emergeva che il Ca.Sa.si era sottoposto all’operazione sicuramente in modo volontario, ma senza essere prima “reso edotto di tutti i rischi e delle possibili conseguenze derivanti da tale scelta”. Pur in presenza, infatti, di un intervento tanto rischioso, la ASL non era stata in grado “di produrre alcun modulo attestante le informazioni ricevute dal Ca.Sa.”, per cui l’unico modo di compiere quell’accertamento erano le deposizioni dei testi, dalle quali emergeva, appunto, che era mancata al paziente un’indicazione essenziale per potersi autodeterminare in modo consapevole. I testimoni escussi, infatti, avevano in sostanza confermato che “le opzioni erano state indicate come entrambe praticabili, quando, invece, il Ca.Sa. era candidabile solo per la misura meno invasiva, secondo quanto indicato dal c.t.u. e dalle linee guida”. Né poteva assumere rilievo, ai fini di una diversa decisione, il fatto che il Ca.Sa. fosse un veterinario, cioè una persona non priva di conoscenze specifiche, perché le conoscenze tecniche che il paziente possiede per proprio conto non possono giustificare alcuna attenuazione dell’onere di informazione. D’altra parte, la sussistenza della responsabilità del medico non poteva dirsi superata dalla semplice sottoscrizione del modello del consenso informato, perché questo “non è idoneo a sopperire specifiche responsabilità o errori medici commessi a causa di un’errata scelta della modalità di intervento”. Era anzi da ipotizzare, proprio in virtù delle conoscenze tecniche possedute dal paziente, che egli, se correttamente informato dei rischi, “si sarebbe affidato alla scienza, rifiutando l’intervento”.
Consenso informato non esclude responsabilità medica
2.2. Così riconosciuta l’esistenza dell’an della responsabilità, la Corte d’Appello ha provveduto alla liquidazione dei danni.
In proposito, la sentenza ha riconosciuto alla moglie il danno iure hereditatis conseguente alla sicura lucida consapevolezza che il marito aveva avuto dell’inevitabilità della propria morte durante il periodo di 64 giorni intercorsi tra l’intervento e il decesso (danno catastrofale), nonché il danno da perdita del rapporto parentale, liquidandolo col sistema c.d. a punto indicato come l’unico valido dalla giurisprudenza di questa Corte.
3. Contro la sentenza della Corte d’Appello di Genova propone ricorso la ASL 2 Sociosanitaria Ligure con atto affidato a cinque motivi.
Resiste No.Ma. con controricorso.
Le parti hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3) e n. 5), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., nullità della sentenza ai sensi dell’art. 132, n. 4), cod. proc. civ. e omesso esame di un fatto decisivo, per avere la Corte d’Appello erroneamente ritenuto inadeguate le informazioni fornite al paziente in previsione dell’intervento chirurgico.
L’ampia censura, complessa e articolata, dopo aver richiamato una serie di passaggi della motivazione resa dalla sentenza impugnata, rileva che la Corte d’Appello avrebbe “omesso qualunque esame o valutazione del costituto probatorio, in particolare delle prove orali assunte nel corso del giudizio”. La sentenza, “in poche righe di motivazione prive di una concreta ed effettiva ricostruzione dell’esito dell’istruttoria”, sarebbe giunta alle proprie conclusioni in modo apodittico e con un’errata valutazione delle prove testimoniali. Le deposizioni dei testimoni – trascritte in ampie parti nel corpo del motivo in esame – non provenivano integralmente da medici coinvolti nell’atto operatorio, ma da illustri medici, amici del paziente e non, i quali avevano evidenziato le ragioni per le quali l’approccio chirurgico seguito era da ritenere corretto. Dalle loro deposizioni emergerebbe come il Ca.Sa. fosse stato pienamente informato e avesse scelto la via chirurgica dopo aver consultato altri medici e in piena autonomia di giudizio, convinto che si trattasse della scelta migliore. La motivazione sarebbe, dunque, ampiamente omessa e comunque “apparente”.
2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3) e n. 5), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., per non avere la Corte d’Appello preso in considerazione e valutato l’esito della c.t.u. e del suo supplemento.
La ricorrente ricorda che il c.t.u. aveva anch’egli ammesso, già nella prima relazione, che il tentativo chirurgico poteva essere giustificato in alcuni particolari casi, a condizione che vi fosse una piena informazione e comunque tenendo presente che tale percorso comportava un rischio estremo. Chiamato il c.t.u. ad ulteriori chiarimenti, proprio allo scopo di valutare l’effettiva esistenza di un consenso informato, egli aveva dato atto del fatto che risultava che vi fosse stata “una partecipazione attiva del paziente nel processo decisionale, favorita dalla sua specifica cultura tecnica”. Era in atti, quindi, il riconoscimento che l’informazione c’era stata, mentre la Corte d’Appello non avrebbe in alcun modo considerato quel supplemento di relazione.
3. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5), cod. proc. civ., omesso esame di un fatto decisivo, per non avere la Corte d’Appello rilevato, nel richiamarsi alle conclusioni del c.t.u., che egli aveva fatto esplicito richiamo alle linee guida AIOM (Associazione italiana di oncologia medica) dell’anno 2015, mentre quelle vigenti all’epoca dell’intervento erano linee guida anteriori.
Consenso informato non esclude responsabilità medica
Secondo la ricorrente, tale elemento sarebbe rilevante perché, come confermato anche dal teste Wiener Yehuda, un tumore classificato come IIIA secondo le linee guida del 2012 doveva essere considerato come un tumore da operare.
4. Con il quarto motivo di ricorso si lamenta, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 2729 cod. civ., per avere la Corte d’Appello fatto un uso errato della prova per presunzioni.
Sostiene la ricorrente che la sentenza avrebbe erroneamente affermato, facendo applicazione della prova presuntiva, che il Ca.Sa., ove adeguatamente informato, non si sarebbe fatto operare, avendo cognizioni tecniche poiché era un veterinario. Tale presunzione sarebbe, secondo la ricorrente, assolutamente arbitraria, in quanto astratta e scollegata da qualsiasi obiettivo riscontro che il paziente avrebbe davvero compiuto quella scelta.
5. Con il quinto motivo di ricorso si lamenta, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ., per avere la Corte d’Appello operato la presunzione di cui al motivo precedente non considerando che doveva essere la parte attrice a dimostrare il fatto erroneamente presunto.
La censura è strettamente collegata a quella del quarto motivo e insiste nell’affermazione secondo cui vi sarebbe stata un’errata applicazione della prova per presunzioni, perché avrebbe dovuto essere la moglie del defunto paziente a dimostrare che, in caso di dettagliata informazione, il marito non si sarebbe sottoposto all’intervento chirurgico di cui si discute. Secondo la ASL, infatti, il dissenso non potrebbe, in un caso come quello odierno, essere presunto. Oltre a questo, la censura in esame ribadisce che l’intervento fu eseguito correttamente e che la violazione del diritto al consenso informato può assumere due diverse connotazioni, a seconda che venga lamentata la lesione del diritto all’autodeterminazione o del diritto alla salute. In quest’ultimo caso, infatti, il deficit di informazione assume rilievo in relazione alle possibili scelte alternative che il paziente avrebbe potuto compiere; ne consegue che l’allegazione di fatti dimostrativi di tale diversa volontà costituisce un onere che grava a carico del paziente danneggiato e che non potrebbe essere supplito con l’applicazione errata di una presunzione.
6. I cinque motivi di ricorso, benché tra loro differenti, possono essere trattati congiuntamente, con le dovute diversità che saranno di seguito specificate, in quanto legati da un filo conduttore che è il medesimo.
6.1. La premessa dalla quale questa Corte intende prendere avvio è che la Corte d’Appello ha deciso la causa con una motivazione organica, bene argomentata, giuridicamente corretta e priva di contraddizioni e di vizi logici. La sentenza impugnata, infatti, recependo e facendo proprie le conclusioni del c.t.u. nominato in primo grado, dalle quali il Tribunale si era invece discostato, ha riconosciuto l’esistenza di una responsabilità in capo alla ASL, ricostruendo le ragioni di carattere tecnico per le quali è pervenuta a tale conclusione, valutando le testimonianze e facendo uso della prova presuntiva. Appare quindi del tutto non rispondente alla realtà processuale l’affermazione per cui la sentenza sarebbe sostenuta da una motivazione “apparente”.
Ciò detto, questa Corte osserva che stabilire se un tumore polmonare al terzo stadio (anche piuttosto avanzato, per quanto è emerso in corso di causa, molto aggressivo e infiltrante) dovesse essere subito operato o, viceversa, trattato con chemioterapia e radioterapia, per poi valutare in un secondo momento se fosse opportuno o meno l’intervento chirurgico, investe un tipo di valutazione che nessun giudice, né di merito né di legittimità, sarebbe, nella gran parte dei casi, in grado di assumere senza avvalersi dell’ausilio di un consulente tecnico d’ufficio.
La Corte d’Appello, ben consapevole di tale difficoltà, si è uniformata alla valutazione resa dal c.t.u., partendo dalla corretta premessa secondo cui l’intima convinzione dei sanitari intervenuti – alcuni dei quali sentiti quali testimoni – di aver compiuto la scelta giusta non equivaleva a dimostrazione che quella fosse stata “la scelta migliore”. Il c.t.u., come si è visto, aveva stabilito – con argomenti che la sentenza ha ritenuto “non efficacemente contestati” dai c.t. di parte – che l’intervento chirurgico immediato aveva agito da diffusore e moltiplicatore del tumore, rendendolo dilagante in pochissimo tempo. Dalla motivazione della sentenza e dalla relazione del c.t.u., che il ricorso ha integralmente trascritto, si evince con assoluta chiarezza che la neoplasia polmonare che aveva colpito il Ca.Sa. costituisce una patologia “a prognosi spesso infausta” che, se trattata con chemioterapia adiuvante e radioterapia, offriva al paziente la prospettiva di una sopravvivenza media che si aggira tra i 12 e i 18 mesi. Il che viene a significare, pur con tutte le incertezze che derivano da un giudizio necessariamente statistico e ipotetico, che la morte del Ca.Sa. sopravvenne in un tempo drammaticamente più rapido rispetto a quella che avrebbe potuto essere l’evoluzione della malattia in caso di un trattamento meno invasivo.
Consenso informato non esclude responsabilità medica
La Corte d’Appello, d’altra parte, non ha affermato che la scelta per l’intervento chirurgico immediato fosse in assoluto e sempre da escludere, ma ha riconosciuto che, di regola, quello non era l’approccio corretto perché troppo rischioso, per cui sarebbe stato proponibile solo come una sorta di tentativo disperato di arginare la malattia.
6.2. Fin qui il giudizio tecnico.
La parte ricorrente ha insistito lungamente sulla non corretta valutazione delle prove testimoniali, sulla sussistenza di una piena informazione fornita al paziente – che avrebbe scelto cognita causa la via chirurgica – e sull’uso errato della prova presuntiva.
Si tratta tuttavia, ad avviso del Collegio, di considerazioni che non scalfiscono l’impianto della sentenza impugnata, la quale resiste alle censure proposte.
La valutazione delle testimonianze, com’è ovvio, è rimessa al giudice di merito che, nella specie, ha spiegato con convincenti argomenti il perché abbia ritenuto non particolarmente attendibili le deposizioni dei testi. Cade, quindi, la relativa censura, posta in prevalenza nel primo motivo di ricorso, riguardo alla quale non può ipotizzarsi l’omesso esame di un fatto decisivo, perché quelle prove sono state invece considerate.
Quanto al problema del consenso informato – sul quale si appuntano varie censure disseminate nei motivi primo e secondo del ricorso – la Corte deve rilevare, innanzitutto, che la sentenza impugnata si fonda su premesse giuridiche del tutto corrette. È esatto, infatti, affermare che la sottoscrizione, da parte del paziente, del modulo di consenso informato all’atto chirurgico non è sufficiente ad escludere di per sé la responsabilità dei sanitari curanti, non potendo essa sopperire a responsabilità ed errori medici derivanti da una scelta terapeutica errata. Allo stesso modo, è corretto affermare che sono irrilevanti le cognizioni che il paziente può avere per propria scienza privata – il Ca.Sa. svolgeva la professione di veterinario – perché qui si trattava di decidere quale fosse la scelta terapeutica da compiere, con illustrazione dei relativi rischi e vantaggi, e il consenso all’atto chirurgico non prova affatto che detta attività di informazione sia stata svolta.
L’odierna ricorrente insiste lungamente nel richiamare il contenuto della seconda relazione stesa dal c.t.u., dietro sollecitazione del giudice di primo grado, in particolare trascrivendo la frase, già ricordata, per cui “risulterebbe, dalle testimonianze in atti, che vi sia stata una partecipazione attiva del paziente nel processo decisionale, favorita dalla sua specifica cultura tecnica”.
Si deve rilevare, in proposito, che, a prescindere dal fatto che si tratta di un’affermazione resa in forma ipotetica, lo stesso c.t.u., dopo tale frase, ribadì integralmente le proprie precedenti conclusioni, specificando che la complessità della situazione avrebbe dovuto imporre l’esecuzione di un consulto tra vari specialisti, allo scopo di fornire al paziente quell’adeguata informazione della quale non vi era prova. Senza contare, ad abundantiam, che una simile completa informazione, se avvenuta, sarebbe stata certamente documentata.
Inammissibile appare, poi, la censura del terzo motivo di ricorso, cioè quella relativa alle linee guida applicabili nella fattispecie ratione temporis, sia perché la censura è costruita sulla deposizione di un testimone e sulla relazione di un c.t. di parte sia perché essa non fa emergere in modo chiaro quali sarebbero le sostanziali divergenze tra le linee guida del 2012 e quelle del 2015. E comunque, seguire le indicazioni delle linee guida non è indice, di per sé, di aver compiuto la migliore scelta in relazione all’unicità della situazione del singolo malato e della singola malattia.
Consenso informato non esclude responsabilità medica
Residuano, infine, le censure dei motivi quarto e quinto, relative all’uso della prova per presunzioni.
Il Collegio ritiene che la valutazione previsionale compiuta dalla Corte di merito sulla base della qualità personale del paziente sia, di per sé, ragionevole e non censurabile. Ma, comunque sia, i due motivi qui in esame dimostrano di non cogliere in modo adeguato la ratio decidendi della sentenza impugnata, dalla quale si evince facilmente che l’affermazione per cui il paziente, se bene informato, avrebbe rifiutato l’operazione, è solo un argomento in più, reso ad abundantiam, che va letto nel contesto armonioso dell’intera motivazione, rispetto alla quale costituisce una parte assai modesta.
7. Il ricorso, pertanto, è rigettato.
A tale esito segue la condanna della parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di cassazione, liquidate ai sensi del D.M. 13 agosto 2022, n. 147, sopravvenuto a regolare i compensi professionali.
Sussistono inoltre i presupposti processuali di cui all’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso, se dovuto.
Va disposto che, ai sensi dell’art. 52 del D.Lgs. n. 196 del 2003, in caso di diffusione del presente provvedimento, siano omesse la generalità e gli altri dati identificativi della parte ricorrente e del defunto coniuge.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi Euro 7.200, di cui Euro 200 per spese, oltre spese generali e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso, se dovuto.
Dispone l’oscuramento dei dati come in motivazione.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione Civile, il 28 novembre 2024.
Depositato in Cancelleria il 3 febbraio 2025.
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Le sentenze sono di pubblico dominio.
La diffusione dei provvedimenti giurisdizionali “costituisce fonte preziosa per lo studio e l’accrescimento della cultura giuridica e strumento indispensabile di controllo da parte dei cittadini dell’esercizio del potere giurisdizionale”.
Benchè le linee guida in materia di trattamento di dati personali nella riproduzione di provvedimenti giurisdizionali per finalità di informazione giuridica non richiedano espressamente l’anonimizzazione sistematica di tutti i provvedimenti, e solo quando espressamente le sentenze lo prevedono, si possono segnalare anomalie, richiedere oscuramenti e rimozioni, suggerire nuove funzionalità tramite l’indirizzo e-mail info@studiodisa.it, e, si provvederà immediatamente alla rimozione dei dati sensibili se per mero errore non sono stati automaticamente oscurati.
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