Non può essere processato per bancarotta chi è già stato assolto, per i medesimi fatti, dall’accusa di appropriazione indebita

Corte di Cassazione, sezione quinta penale, Sentenza 6 giugno 2018, n. 25651.

La massima estrapolata:

Non può essere processato per bancarotta chi è già stato assolto, per i medesimi fatti, dall’accusa di appropriazione indebita. Si tratta infatti di una violazione del principio del ne bis in idem.

Sentenza 6 giugno 2018, n. 25651

Data udienza 15 febbraio 2018

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FUMO Maurizio – Presidente

Dott. SCARLINI Enrico V. S. – Consigliere

Dott. SETTEMBRE Antonio – rel. Consigliere

Dott. GUARDIANO Alfredo – Consigliere

Dott. CALASELICE Barbara – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato il (OMISSIS);
avverso la sentenza del 11/10/2016 della CORTE APPELLO di TRIESTE;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. ANTONIO SETTEMBRE;
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dr. DI LEO GIOVANNI, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Udito, per il ricorrente, l’avvocato (OMISSIS) del foro di PORDENONE, che chiede accogliersi il ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte d’appello di Trieste ha, con la sentenza impugnata, confermato quella emessa dal giudice di prima cura, che aveva condannato (OMISSIS) per bancarotta fraudolenta patrimoniale commessa quale amministratore di fatto della (OMISSIS) srl, dichiarata fallita il (OMISSIS).
Secondo la ricostruzione del giudicante l’imputato, operando nella qualita’ sopradetta, distrasse somme per 35.000 Euro, corrisposte, mediante assegni, da debitori della societa’ e destinati a scopi diversi da quelli sociali (gli assegni erano stati incassati da terze persone, a cui (OMISSIS) li aveva fatti pervenire).
2. Contro la sentenza suddetta ha proposto ricorso per Cassazione il difensore dell’imputato con quattro motivi.
Col primo lamenta l’erronea applicazione della L. Fall., articolo 216, articoli 42 e 43 c.p., derivante dal fatto che e’ stato ravvisato il dolo di bancarotta in condotte appropriative poste in essere allorche’ gli esercizi economici della societa’ risultavano positivi.
Sottolineato che le appropriazioni risalgono a (OMISSIS) e a (OMISSIS), mentre il fallimento e’ dell’ottobre 2009, deduce che gli esercizi 2005, 2006 e 2007 si erano conclusi positivamente (l’esercizio 2005 aveva avuto un utile di Euro 89; quello del 2006 una perdita di Euro 2.795; quello del 2007 un utile di Euro 21.000. Tanto in una situazione caratterizzata dall’aumento del fatturato). Questo fatto, indebitamente svalutato dalla Corte d’appello, dimostra che (OMISSIS) non aveva la consapevolezza di ledere la garanzia dei creditori, sicche’ mancherebbe la prova del dolo richiesto dalla fattispecie. Di tanto e’ prova la circostanza che i giudici hanno assolto il coimputato (OMISSIS) (amministratore di diritto) dall’accusa di avere astenendosi dal richiedere il fallimento in proprio – aggravato il dissesto societario proprio perche’ la consapevolezza dell’insolvenza societaria era stata collocata – in capo a (OMISSIS) – a ridosso della dichiarazione di fallimento, mentre (OMISSIS) e’ stato assolto dalla medesima imputazione perche’ allontanato dalla societa’ nel 2007.
Col secondo motivo lamenta la violazione dell’articolo 649 c.p.p., giacche’ per il medesimo fatto (l’appropriazione della somma di Euro 35.000) (OMISSIS) e’ gia’ stato giudicato e assolto dal Tribunale di Pordenone con sentenze passate in giudicato il 24/7/2012 (il reato contestato era quello di cui all’articolo 646 c.p.).
Col terzo motivo deduce un vizio di motivazione concernente il dolo di bancarotta. Sottolineato che la stessa sentenza ha confermato l’assoluzione di (OMISSIS) e (OMISSIS) – pronunciata dal primo giudice – per il reato di bancarotta semplice (l’aver aggravato il dissesto ritardando la dichiarazione di fallimento) ritenendoli inconsapevoli “circa una eventuale situazione di sofferenza dell’impresa”, e’ contraddittorio affermare, poi, che fosse prevedibile, all’epoca delle appropriazioni, una situazione di insolvenza appalesatasi nell’ottobre 2009: vale a dire, dopo l’allontanamento di (OMISSIS) dalla societa’ e a quasi quattro anni di distanza dalla appropriazioni.
Col quarto motivo si duole della motivazione concernente il fatto materiale dell’appropriazione, perche’ in radicale contrasto con le risultanze dei procedimenti che si sono conclusi in senso favorevole all’imputato; il che farebbe venir meno la gravita’ degli indizi sulla cui base e’ stata affermata la responsabilita’ per la bancarotta.
CONSIDERATO IN DIRITTO
E’ fondato il secondo motivo di ricorso, che riveste carattere pregiudiziale rispetto a tutti gli altri e va, pertanto, esaminato prioritariamente.
1. La questione posta dal ricorrente, rappresentata dal rapporto tra appropriazione indebita e “distrazione” (una volta dichiarato il fallimento) degli stessi beni, ha trovato, com’e’ noto, differenti soluzioni nella giurisprudenza di questa Corte, giacche’ si e’ fatto riferimento, per risolvere le problematiche scaturenti dal divieto di un secondo giudizio, posto dall’articolo 649 c.p.p., alternativamente alle figure del concorso formale e del reato complesso, per affermare, nell’uno e nell’altro caso, che un giudizio, celebrato e comunque concluso, per il reato di cui all’articolo 646 c.p. non e’ di ostacolo – una volta intervenuto il fallimento – alla celebrazione di altro giudizio per bancarotta (invero, come si dira’, e’ stata ritenuta praticabile anche la soluzione inversa).
1.1. La prima soluzione, fatta propria da una risalente pronuncia di questa Corte (sez. 2, n. 10472 del 4/3/1997, rv 209022), e’ imperniata sulla considerazione che all’unicita’ di un determinato fatto storico puo’ far riscontro una pluralita’ di eventi giuridici (come si verifica, appunto, nell’ipotesi del concorso formale di reati), sicche’ il giudicato formatosi con riguardo ad uno di tali eventi non impedisce l’esercizio dell’azione penale in relazione ad un altro evento (inteso sempre in senso giuridico), pur scaturito da un’unica condotta, quale che sia stato il reato giudicato per primo (in applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto che l’imputato, agente di cambio, gia’ condannato per il reato di bancarotta fraudolenta – consistita, fra l’altro, nella sottrazione di titoli e denaro della clientela – potesse essere sottoposto a nuovo procedimento penale per il reato di appropriazione indebita in danno di un cliente). Questa impostazione non esclude del tutto, pero’, l’operativita’ dell’articolo 649 c.p.p. e del principio del ne bis in idem, in esso trasfuso: cio’ avviene quando nel primo giudizio sia stata dichiarata l’insussistenza del fatto o la mancata commissione di esso da parte dell’imputato, per ovvie ragioni di incompatibilita’ logica e per evitare il conflitto di giudicati (Cass., n. 11918 del 20/1/2016, rv 266382, riferita al rapporto tra truffa e sostituzione di persona).
1.2. La seconda soluzione, propugnata da una giurisprudenza piu’ recente e piu’ cospicua, afferma, invece, che l’appropriazione indebita e la bancarotta fraudolenta per distrazione sono in rapporto di contenuto a contenitore, dacche’ la bancarotta fraudolenta integra una ipotesi di reato complesso, ai sensi dell’articolo 84 c.p., sicche’ solo l’avvio del procedimento per bancarotta esclude la possibilita’ di un secondo giudizio per l’appropriazione, e non viceversa. Tale impostazione fa leva sul fatto che gli elementi normativi descrittivi della bancarotta sono diversi e piu’ ampi rispetto a quelli descrittivi dell’appropriazione, giacche’ nella bancarotta assume rilevanza la pronuncia di fallimento, che manca all’altra figura di reato (si vedano, sul punto, Cass., n. 37298 del 9/7/2010, rv 248640; sez. 5, n. 4404 del 18/11/2008, rv 241887; sez. 5, n. 37567 del 4/4/2003, rv 228297. Una applicazione di tale principio si e’ avuta anche con la sentenza n. 2295 del 3/7/2015, che ha ritenuta legittima un’ipotesi di modifica dell’imputazione ex articolo 516 c.p.p., operata in dibattimento dal pubblico ministero una volta intervenuta la sentenza di fallimento). Si tratta, all’evidenza, di una impostazione che valorizza, per la comparazione delle fattispecie (e, quindi, per valutare l’identita’ del fatto, preclusiva, per l’articolo 649 c.p.p., del secondo giudizio), non solo la dimensione naturalistica, ma anche la configurazione giuridica delle fattispecie, per affermare la loro diversita’ strutturale e, quindi, la irriconducibilita’ all’idem factum.
2. La questione deve oggi essere risolta, ad avviso di questo Collegio, alla luce dei principi affermati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 200 del 31/5/2016.
2.1. Come e’ noto, questa pronuncia ha escluso che l’articolo 4 del protocollo n. 7 CEDU – secondo cui “nessuno puo’ essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale e’ gia’ stato assolto o condannato” – abbia un contenuto piu’ ampio di quello dell’articolo 649 c.p., per il quale “l’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non puo’ essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto”. La giurisprudenza stabilizzata della Corte EDU porta solo ad affermare, ha precisato la Corte Costituzionale, che – per i giudici di Strasburgo – la medesimezza del fatto va apprezzata alla luce delle circostanze fattuali concrete, indissolubilmente legate nel tempo e nello spazio, col ripudio di ogni riferimento alla qualificazione giuridica della fattispecie. Non v’e’ nessuna ragione logica, ha pero’ precisato la Corte Costituzionale, per concludere che il fatto, pur assunto nella sola dimensione empirica, si restringa, secondo il giudizio della Corte EDU, “all’azione o all’omissione, e non comprenda, invece, anche l’oggetto fisico su cui cade il gesto, se non anche, al limite estremo della nozione, l’evento naturalistico che ne e’ conseguito, ovvero la modificazione della realta’ indotta dal comportamento dell’agente”.
2.2. Parimenti, ha proseguito la Corte Costituzionale, nemmeno il contesto normativo in cui si colloca l’articolo 4 del Protocollo CEDU depone per una lettura restrittiva dell’idem factum, da condurre attraverso l’esame della sola condotta. Anzi, ha aggiunto la Corte Costituzionale, la lettura delle varie norme della Convenzione (tra cui proprio l’articolo 4 del Protocollo 7, che permette la riapertura del processo penale se fatti sopravvenuti o nuove rivelazioni sono in grado di mettere in discussione una sentenza – favorevole all’imputato – gia’ passata in giudicato) rende palese che, allo stato, il testo convenzionale impone agli Stati membri di applicare il divieto di bis in idem in base ad una concezione naturalistica del fatto, ma non di restringere quest’ultimo nella sfera della sola azione od omissione dell’agente.
2.3. Al contrario, ha concluso la Corte Costituzionale, sono costituzionalmente corretti gli approdi della giurisprudenza di legittimita’, per la quale l’identita’ del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (Cass., SU, n. 34655 del 28/6/2005, rv 231799).
Tanto, precisa la Corte costituzionale, a condizione che, nell’applicazione pratica, tutti gli elementi del reato siano assunti nella loro dimensione empirica, sicche’ anche l’evento non potra’ avere rilevanza in termini giuridici, ma assumera’ significato soltanto quale modificazione della realta’ materiale conseguente all’azione o all’omissione dell’agente. In questo modo e’ assicurato il massimo dispiegarsi della funzione di garanzia sottesa all’articolo 649 c.p.p. – senza compromissione di altri principi di rilievo costituzionale – e si evita che la valutazione comparativa – cui e’ chiamato il giudice investito del secondo giudizio – sia influenzata dalle sempre opinabili considerazioni sulla natura dell’interesse tutelato dalle norme incriminatrici, sui beni giuridici offesi, sulla natura giuridica dell’evento, sul ruolo che ha un medesimo elemento all’interno delle fattispecie, sulle implicazioni penalistiche del fatto e su quant’altro concerne i singoli reati.
3. Alla luce di tali criteri deve censurarsi la sentenza impugnata, la quale ha escluso che il giudicato formatosi sull’appropriazione indebita sia ostativo alla celebrazione di un secondo giudizio (per la bancarotta patrimoniale), perche’, e’ detto in sentenza, “alla apparente unicita’ della condotta non corrisponde l’unicita’ del fatto”. Invero, prosegue la sentenza, “anche se la condotta e’ unica, come si potrebbe ritenere nel caso in esame, gli eventi possono essere plurimi e possono dare ontologicamente luogo a fatti che possono essere separatamente perseguiti” (pagg. 26-27). La spiegazione, evidentemente tautologica, si appoggia, in realta’, alla giurisprudenza richiamata al punto 1.2., per la quale la declaratoria di fallimento, pur non integrando – per pacifica giurisprudenza – un evento del reato, qualifica la fattispecie di cui all’articolo 216 L.F. nella sua specificita’ offensiva, per il fatto che attualizza l’offesa al bene giuridico protetto, rappresentata dalla garanzia che il patrimonio dell’imprenditore costituisce per i creditori.
Vero e’, poi, che la Corte d’appello di Trieste ha inteso rafforzare la conclusione cui e’ pervenuta attraverso la valorizzazione di un dato che e’ proprio del fallimento: in ogni caso, aggiunge infatti la sentenza, dopo la formazione del precedente giudicato e’ sopraggiunto un fatto nuovo, da intendere come evento in senso naturalistico, costituito dal dissesto/insolvenza della societa’.
4. Ritiene il Collegio che ne’ l’impostazione della Corte d’appello di Trieste, ne’ quelle che l’hanno preceduta possano essere condivise.
4.1. Anche se si dovesse ritenere che l’appropriazione indebita e la bancarotta integrino una ipotesi di concorso formale di reati (cosa decisamente dubbia, per le ragioni limpidamente esposte nella sentenza n. 37298/2010, sopra richiamata), la possibilita’ di procedere per la bancarotta dopo la formazione del giudicato sull’appropriazione e’, ora – dopo la sentenza n. 200/2016 della Corte Costituzionale, sopra richiamata, la quale ha dichiarato l’illegittimita’ costituzionale dell’articolo 649 c.p.p., nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato gia’ giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui e’ iniziato il nuovo procedimento penale – condizionata alla possibilita’ di leggere, nella bancarotta, un fatto diverso rispetto all’appropriazione, sulla base degli elementi identitari del reato, tradizionalmente compendiati nella triade condotta, nesso causale, evento. Dopo questa pronuncia, infatti, la problematica posta dall’impatto del ne bis in idem sul concorso reale di norme va risolta alla stregua dei criteri enunciati in precedenza, secondo cui un nuovo giudizio e’ consentito solo se il fatto che si vuole punire sia, naturalisticamente inteso, diverso, e non gia’ perche’ con la medesima condotta sono state violate piu’ norme penali e offeso piu’ interessi giuridici. Il che impedisce di far riferimento all’istituto del concorso reale di norme per dirimere la problematica posta dal sopravvenire del fallimento alla pronuncia di appropriazione.
4.2. Nemmeno l’impostazione piu’ recente della giurisprudenza di legittimita’ puo’ essere seguita. Essa fa leva sul fatto che appropriazione indebita e bancarotta per distrazione sono strutturalmente diverse, perche’ la bancarotta ha, in piu’, l’elemento specializzante della dichiarazione di fallimento, che “attualizza” l’offesa insita nell’appropriazione. Occorre considerare, pero’, che il diritto penale punisce i fatti dipendenti dall’azione o dall’omissione dell’agente; percio’, anche se nel “fatto” vanno ricompresi – secondo l’insegnamento della Corte Costituzionale e delle Sezioni Unite – le conseguenze della condotta (l’evento) e il nesso che le lega alla condotta, deve trattarsi pur sempre di elementi dipendenti dall’agire del soggetto, perche’ possano essergli addebitati. La dichiarazione di fallimento e’, invece, per generale opinione, indipendente dalla volonta’ dell’agente, perche’ consegue all’iniziativa dei creditori o del Pubblico Ministero ed e’ legata alle valutazione del Tribunale fallimentare, sicche’ non puo’ essere annoverata tra gli elementi che concorrono alla identificazione del “fatto”, nella accezione assunta dal giudice delle leggi e che qui rileva. D’altra parte, la recente giurisprudenza di questa sezione (cfr. Sez, 5, n. 13910 del 9/2/2017, rv 269388 e 269389, nonche’, sez. 5, n. 4400 del 6/10/2017, Cragnotti, n.m.), sviluppando consequenzialmente le premesse poste da S.U., n. 22474 del 27/9/2016, Passarelli, ha ritenuto che la dichiarazione di fallimento costituisca, nei confronti del delitto di bancarotta distrattiva pre-fallimentare, condizione obbiettiva di punibilita’ (contra, pero’, sez. 5, n. 17819 del 24/3/2017, rv 269562). Vale a dire che, in tale figura criminosa, la condotta si perfeziona con la distrazione, ma la punibilita’ e’ subordinata – secondo lo schema dell’articolo 44 c.p. – alla dichiarazione di fallimento. E dunque, se l’agente e’ gia’ stato giudicato con carattere di definitivita’ per il delitto di cui all’articolo 646 c.p., nel caso di condanna egli sara’ assoggettato alla sanzione penale stabilita’ dal giudice; nel caso di assoluzione, non si vede come la medesima condotta potrebbe essere contraddittoriamente valutata penalmente rilevante.
Depurata, dunque, di questo elemento (id est, la dichiarazione di fallimento), la bancarotta per distrazione non si differenzia in nulla dall’appropriazione indebita (quando, beninteso, abbiano lo stesso oggetto), sicche’ non presenta la diversita’ necessaria a superare il divieto del bis in idem. La profonda diversita’ della bancarotta per distrazione, rispetto all’appropriazione indebita, sta, in realta’, nell’offesa che essa reca all’interesse dei creditori, per la diminuzione della garanzia patrimoniale che e’ ad essa collegata; ma si tratta di’ una diversita’ che, stando al dictum della Corte Costituzionale, non rileva ai fini della identificazione del “fatto”, perche’ attiene – insieme all’oggetto giuridico, alla natura dell’evento, ecc. – ad elementi della fattispecie che, per la loro opinabilita’, non devono concorrere a segnare l’ambito della garanzia costituzionale e convenzionale del ne bis in idem.
4.3. Evidentemente, proprio perche’ avvertita della fragilita’ della costruzione prima richiamata, la Corte d’appello di Trieste ha inteso far leva sulle conseguenze dell’appropriazione, individuate, questa volta, nel dissesto/insolvenza della societa’. In pratica, il fallimento della societa’ – intesa, questa volta, non come formale dichiarazione di fallimento, ma come sostanziale dissesto – costituirebbe, nella specie, l’evento del reato, perche’ collegato causalmente con la distrazione della somma di Euro 35.000 da parte dell’amministratore. Pur riconoscendosi, in via teorica, che la distrazione di somme (evidentemente, di importo rilevante) possa determinare, nella pratica, il fallimento dell’impresa e rappresentare, quindi, un evento ulteriore, da prendere in considerazione per valutare l’identita’ del fatto, si deve osservare che, nella specie, non si tratta dell’accusa mossa a (OMISSIS) (al quale non e’ contestata la bancarotta impropria ex articolo 223, comma 2, L. Fall., ma quella distrattiva ex articolo 216), ne’ che sono comunque rinvenibili, in sentenza, elementi de cui desumere che il fallimento della (OMISSIS) srl sia stato conseguenza della distrazione contestata all’imputato, sicche’ anche l’argomento speso, da ultimo, dal giudice d’appello si rivela inidoneo a superare le criticita’ insite nella conclusione cui e’ pervenuto.
In conclusione, nessuna delle impostazioni passate in rassegna regge all’impatto coi principi enunciati dalla Corte Costituzionale nella sentenza piu’ volte richiamata, ne’ si profilano, nella specie, situazioni da cui dedurre che la bancarotta rappresenti un fatto diverso dal reato per cui vi e’ pronuncia passata in giudicato, sicche’ va escluso che (OMISSIS) potesse essere nuovamente sottoposto a procedimento penale.
5. Peraltro, alla medesima conclusione bisogna giungere per altra via. E’ generalmente riconosciuta l’esistenza, nell’ordinamento, del giudicato parziale, che puo’ riguardare uno dei fatti di cui un soggetto sia contemporaneamente accusato, ovvero un elemento del fatto a lui addebitato. Tale giudicato si forma a seguito dell’accertamento giudiziale contenuto in un provvedimento definitivo del giudice penale e poggia su una imprescindibile ragione di ordine logico, non potendosi ammettere che sulle medesime circostanze di fatto – che possono riguardare anche la sola condotta del soggetto – siano emesse pronunce contraddittorie, con frustrazione degli scopi della giurisdizione. Infatti, proprio per evitare un corto circuito logico, e’ ammessa la revisione della sentenza quando i fatti stabiliti a fondamento di una pronuncia di condanna non possono conciliarsi con quelli stabiliti in un’altra sentenza irrevocabile. E proprio in applicazione di tale principio e’ stato costantemente affermato che – se la preclusione di cui all’articolo 649 c.p.p. non puo’ essere invocata qualora il fatto, in relazione al quale sia gia’ intervenuta una pronuncia irrevocabile, configuri un’ipotesi di “concorso formale di reati” (impostazione ancora valida, col limite introdotto dalla richiamata sentenza della Corte costituzionale) – tanto non vale allorche’ il secondo giudizio si ponga in una situazione di incompatibilita’ logica con il primo: cio’ che potrebbe verificarsi allorche’ nel primo giudizio sia stata dichiarata l’insussistenza del fatto o la mancata commissione di esso da parte dell’imputato (Cass., n. 11918 del 20/1/2016, rv 266382; sez. 3, n. 50310 del 18/9/2014; sez. 3, n. 25141 del 15/4/2009).
Cio’ che vale per il concorso reale di norme incrimimnatrici vale, stante l’identita’ di ratio, per il reato complesso (a cui, si e’ visto, viene ricondotta, da parte di alcune pronunce, la sequenza appropriazione-bancarotta), che si caratterizza per la presenza di elementi riconducibili ad altre fattispecie delittuose, su cui potrebbe essere senz’altro intervenuto – prima dell’avvio dell’azione penale per il reato complesso – un accertamento giudiziale con efficacia di giudicato.
Ebbene, (OMISSIS) e’ stato assolto – con sentenze del Tribunale di Pordenone, passate in giudicato il 24/7/2012 – dall’accusa di essersi appropriato della somma di 35 mila Euro, che e’ anche alla base della contestazione di bancarotta. Pur ammettendo (in ipotesi) che, agli effetti dell’articolo 649 c.p.p., appropriazione indebita e bancarotta siano fatti diversi, per la presenza, nella bancarotta, di un elemento naturalisticamente diverso dall’appropriazione, deve riconoscersi che l’unica condotta che ha dato origine ad entrambi i procedimenti era stata, prima dell’avvio del procedimento per il reato fallimentare, oggetto di accertamento in sede penale, con esito liberatorio per l’imputato, sicche’ su di esso si era formato il giudicato. Anche per tale motivo, quindi, la seconda azione penale non avrebbe potuto essere promossa.
6. In conclusione, la sentenza impugnata non ha fatto corretta applicazione dei principi in materia di ne bis in idem, sicche’, ravvisandosi, nella specie, sulla base di quanto sopra esposto, una preclusione derivante da precedente giudicato, va annullata senza rinvio.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perche’ l’azione penale non poteva essere promossa per precedente giudicato.

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