Corte di Cassazione, sezione V penale, sentenza 18 ottobre 2016, n. 44107

Apostrofare come “padrino” un soggetto in un articolo di giornale apre alla diffamazione a mezzo stampa

 

Suprema Corte di Cassazione

sezione V penale

sentenza 18 ottobre 2016, n. 44107

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SAVANI Piero – Presidente
Dott. GORJAN Sergio – rel. Consigliere
Dott. PEZZULLO Rosa – Consigliere
Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere
Dott. LIGNOLA Ferdinando – Consigliere
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS), nato il (OMISSIS) a (OMISSIS);

avverso la sentenza del 20/02/2015 della CORTE APPELLO di LECCE;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA del 20/09/2016, la relazione svolta dal Consigliere Dott. GORJAN SERGIO;

Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. ORSI LUIGI;

Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. ORSI Luigi che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Udito il difensore dell’imputato avv. (OMISSIS) del foro di Lecce che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

La Corte d’Appello di Lecce con la sentenza impugnata, resa il 20.2 – 26.5.2015, ha rigettato l’appello esposto da (OMISSIS) avverso la decisione di condanna a suo carico emessa dal Tribunale di Lecce-Galatina in relazione al delitto di diffamazione a mezzo della stampa.

La Corte salentina aveva rigettato l’appello osservando come l’utilizzo del termine “padrino”, con il quale l’imputato nel suo articolo di stampa aveva appellato l’avv. (OMISSIS), avesse comunque connotato diffamatorio evocando persona potente che agisce in modo parallelo al potere statuale anche a voler dimenticare la connotazione propriamente mafiosa del termine.

Avverso la sentenza resa dalla Corte distrettuale ha proposto ricorso per cassazione il difensore fiduciario del (OMISSIS), rilevando come concorrevano e vizio di violazione di legge e di motivazione in quanto la Corte aveva malamente ritenuto diffamatoria l’espressione “padrino”, la quale invece nel contesto dell’articolo appariva utilizzato solamente per indicare persona destinataria d’eredita’ forse non meritata.

All’odierna udienza pubblica compariva il difensore dell’imputato, che sollecitava l’accoglimento del ricorso, mentre il P.G. concludeva per il rigetto.

RITENUTO IN DIRITTO

Il ricorso de quo s’appalesa privo di fondamento giuridico e va rigettato.

In buona sostanza l’impugnante articola un ragionamento critico fondato su una diversa valutazione circa il significato del termine, indicato in capo d’imputazione, se apprezzato nel contesto dell’articolo.

Tuttavia l’alternativa ricostruzione offerta dall’impugnante, secondo la quale il termine “padrino” era coerente con il significato di aver ereditato posizione professionale e sociale di rilievo senza merito conseguente alle qualita’ personali, non supera la motivazione della Corte distrettuale poiche’ non ne evidenzia aporia semplicemente si configura siccome alternativa.

Difatti la Corte salentina, non gia’, ha escluso il riferimento all’ambiente di “tipo mafioso” con il termine “padrino”, bensi’ piu’ semplicemente ha esposto ulteriore motivazione per illustrane la valenza diffamatoria, anche a voler escludere il primo significato ritenuto dal Tribunale.

Puntualmente la Corte di Lecce ha illustrato come, comunque, il termine utilizzato lumeggiava come la parte offesa avesse ottenuto vantaggi sociali e professionali, superiori alle sue effettive capacita’ personali, per l’intervento di un “protettore” che agiva in modo “trasversale” nell’ambito delle istituzioni statuali, ossia in modo comunque non commendevole e trasparente.

Quindi non concorrono i vizi di legittimita’ denunziati poiche’ la Corte salentina non ha attribuito arbitrariamente alla frase d’imputazione significato secondo ricostruzione meramente soggettiva, bensi’, stante l’inequivoca allusione agli incarichi lucrosi ricevuti, ha colto il significato oggettivo del termine teso proprio a lumeggiare la circostanza che l’avv. (OMISSIS) ebbe a godere di favoritismi poco trasparenti da parte di soggetto potente.

Al rigetto del ricorso, ex articolo 616 c.p.p., consegue la condanna del (OMISSIS) alla rifusione delle spese processuali in favore dell’Erario.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento

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