In tema di abbandono di persone minori o incapaci, l’amministratore di sostegno non risponde del reato di cui all’art. 591 c.p. in quanto, salvo che sia diversamente stabilito nel decreto di nomina, lo stesso non è investito di una posizione di garanzia rispetto ai beni della vita e dell’incolumità individuale del soggetto incapace ma solo di un compito di assistenza nella gestione dei suoi interessi patrimoniali. Infatti, pur avendo un dovere di relazionare periodicamente (secondo la cadenza temporale stabilita dal giudice) sull’attività svolta e sulle condizioni di vita personale e sociale del beneficiario, il compito dell’amministratore di sostegno resta fondamentalmente quello di assistere la persona nella gestione dei propri interessi patrimoniali e non anche la “cura della persona”, poiché l’art. 357 c.c., che indica tale funzione a proposito dei tutore, non rientra tra le disposizioni richiamate dall’art. 411 tra le “norme applicabili all’amministrazione di sostegno”.
Suprema Corte di Cassazione
sezione V
sentenza 26 febbraio 2016, n. 7974
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 12 novembre 2013, all’esito di rito abbreviato, il GUP presso il Tribunale di Gorizia ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di B.G., perché il fatto non costituisce reato, per il delitto di cui all’art. 591 cod. pen., perché, quale amministratore di sostegno di C. N., abbandonava la persona incapace omettendo di accudirla per un fine settimana, finché non veniva soccorsa dai vigili del fuoco e dal personale del 118; la donna era trovata in pessime condizioni igieniche, senza cibo e bevande, totalmente disidratata e disorientata nello spazio e nel tempo.
1.1. II GUP di Gorizia ha ritenuto che l’imputato non avesse assicurato all’amministrata un’adeguata assistenza, come richiesto dall’articolo 410 cod. civ., per non essersi reso conto dell’incapacità del figlio dell’anziana e dell’insufficienza a garantire la cura necessaria di una badante a orario parziale e per non aver segnalato agli organi di riferimento la necessità di un immediato ricovero in una struttura protetta; pur tuttavia ha escluso la sussistenza del dolo richiesto dalla norma incriminatrice, essendo la condotta riconducibile esclusivamente ad un difetto di diligenza e prudenza.
2. Contro la sentenza ha proposto appello l’imputato, con atto del difensore avv. A.R., deducendo l’insussistenza dell’elemento oggettivo dei reato, poiché nessun pericolo per l’incolumità individuale della anziana si è in realtà mai avuto. Si richiama un passaggio della sentenza nel quale è riportato il giudizio del dott. M., dirigente del pronto soccorso dell’ospedale di Gorizia, secondo il quale l’anziana non aveva alcuna patologia in atto, ma era “un caso sociale che non costituisce in sé motivo di ricovero” e l’affermazione della donna, secondo la quale presto sarebbe arrivato il figlio ad accudirla.
Il ricorrente ricorda che a norma dell’articolo 410 cod. civ., l’amministratore di sostegno, nello svolgimento dei suoi compiti, deve tener conto delle richieste del beneficiario e delle manifestazioni di volontà delle persone più vicine all’amministrato; nel caso di specie la donna chiedeva di poter continuare a vivere a casa propria, con l’ausilio della badante e del figlio, sia pure non convivente, come concordato anche con l’Unità di Valutazione Distrettuale.
L’amministratore di sostegno ha svolto correttamente i propri compiti, come prescritti dall’Unità di Valutazione Distrettuale e non ha mai abbandonato l’anziana a se stessa, potendo contare sul supporto di una badante e del figlio, dott. G.F.; la donna non era stata e non doveva essere ricoverata in una struttura protetta innanzitutto perché l’Unità di Valutazione Distrettuale ne aveva escluso la necessità; in secondo luogo perché a ciò si opponevano l’interessata ed il figlio; in terzo luogo perché i costi di ricovero non erano sostenibili con le risorse dell’anziana e del figlio.
3. La Corte d’appello di Trieste, rilevato che contro la sentenza di proscioglimento è ammesso solo ricorso per cassazione, con ordinanza dei 28 gennaio 2015 ha disposto la trasmissione degli atti a questa Corte per competenza.
4. Con memoria trasmessa via fax il 2 ottobre 2015 e successivamente depositata in cancelleria in data 13 ottobre 2015 il difensore dell’imputato deduce erronea e falsa applicazione degli artt. 428 e 568 cod. proc. pen., norme richiamate dalla Corte territoriale, poiché a seguito della richiesta di rito abbreviato da una parte il GUP avrebbe dovuto pronunciare assoluzione ex art. 442 cod. proc. pen. e non sentenza di non luogo a procedere, esito tipico dell’udienza preliminare, e dall’altra la Corte d’appello di Trieste non avrebbe dovuto declinare la propria incompetenza, poiché la decisione era da ritenere appellabile. Di conseguenza si chiede la correzione dell’ordinanza datata 28 gennaio 2015 della Corte d’appello di Trieste e per l’effetto di disporre la celebrazione del processo d’appello innanzi alla Corte medesima.
Considerato in diritto
1. In via preliminare va rigettata la richiesta proposta con la memoria difensiva depositata il 13 ottobre 2015. Pur essendo fondata la doglianza riguardante la formula di proscioglimento adottata dal GUP all’esito dei rito abbreviato, avendo il giudice pronunciato sentenza di non luogo a procedere perché il fatto non costituisce reato, in luogo di una assoluzione, va comunque dato atto che anche nei confronti delle sentenze di assoluzione pronunciate all’esito di rito abbreviato, ai sensi dell’articolo 443, comma 1, cod. proc. pen., non è possibile proporre appello.
2. Passando all’esame delle doglianze proposte in via principale, il ricorso va accolto.
2.1 II delitto di abbandono di persone minori o incapaci, previsto dall’articolo 591 cod. pen., è pacificamente considerato dalla dottrina un reato proprio, che può essere commesso solamente da parte di un soggetto che riveste una posizione di garanzia nei confronti dei soggetto passivo, sia esso un minore o un incapace. Ciò perché la condotta consiste nell’abbandono della vittima, cioè nella volontaria sottrazione anche solo parziale o temporanea dai propri obblighi di custodia o di cura, nella consapevolezza della esposizione a pericolo della vita o dell’incolumità individuale del soggetto incapace di attendervi da solo.
2.2 In punto di diritto è rigoroso l’orientamento interpretativo, espresso da questa Corte, secondo il quale la fattispecie penale tutela, non già il rispetto dell’obbligo legale di assistenza in sè considerato, quanto il valore etico-sociale della sicurezza della persona fisica contro determinate situazioni di pericolo che non deve necessariamente essersi realizzato e la condotta di “abbandono” resta integrata da qualunque azione od omissione, contrastante con il dovere giuridico di cura o di custodia, che grava sul soggetto agente e da cui derivi uno stato di pericolo, anche meramente potenziale, per la vita o per l’incolumità del soggetto passivo (Sez. 5, n. 10126 del 21/09/1995, Granzotto, Rv. 203004; Sez. 5, n. 15245 del 23/02/2005, Nalesso, Rv. 232158; Sez. 1, n. 5945 del 15/01/2009, Foti, Rv. 243372). Risponde, pertanto, dei delitto in questione il soggetto che, pur non allontanandosi dal soggetto passivo, ometta di far intervenire persone idonee ad evitare il pericolo stesso (Sez. 2, n. 10994 dei 06/12/2012 – dep. 08/03/2013, T., Rv. 255172)
3. Se non è contestato che tale evento di pericolo si sia in concreto verificato, occorre però domandarsi se in capo all’imputato, amministratore di sostegno della vittima, fosse configurabile una posizione di garanzia correlata al dato formale della qualifica e, solo in caso affermativo, se la condotta fosse ascrivibile a dolo, fermo restando che il dolo richiesto dalla norma incriminatrice è generico e consiste nella coscienza di abbandonare a se stesso il soggetto passivo, che non abbia la capacità di provvedere alle proprie esigenze, in una situazione di pericolo per la sua integrità di cui si abbia l’esatta percezione (Sez. 5, n. 15147 dei 14/03/2007, Simone, Rv. 236157; Sez. 5, n. 19476 del 25/02/2010, Verdano, rv. 247305; Sez. 2, n. 10994 del 06/12/2012, T., Rv. 255173).
La sentenza impugnata individua la condotta di abbandono nel non aver segnalato agli organi di riferimento la necessità di un immediato ricovero dell’amministrata in una struttura protetta, riconducendo poi tale condotta a colpa, dovuta a difetto di diligenza e prudenza, piuttosto che a dolo (e dunque prosciogliendo l’imputato); la decisione non si pone però il problema di individuare una posizione di garanzia dell’amministratore di sostegno rispetto al soggetto amministrato, dandola per scontata in base alla contestazione.
4. Questa Corte nell’esaminare la cosiddetta clausola di equivalenza di cui all’art. 40, cod. pen., comma 2, ha affermato che nell’accertamento degli obblighi impeditivi incombenti sul soggetto che versa in posizione di garanzia, l’interprete deve tenere presente la fonte da cui scaturisce l’obbligo giuridico protettivo, che può essere la legge, il contratto, la precedente attività svolta, o altra fonte obbligante; e, in tale ambito ricostruttivo, al fine di individuare lo specifico contenuto dell’obbligo – come scaturente dalla determinata fonte di cui si tratta – occorre valutare sia le finalità protettive fondanti la stessa posizione di garanzia, sia la natura dei beni dei quali è titolare il soggetto garantito, che costituiscono l’obiettivo della tutela rafforzata, alla cui effettività mira la clausola di equivalenza (Sez. 4, n. 9855 del 27/01/2015, Chiappa, Rv. 262440).
5. Con riferimento al delitto di cui all’art. 591 cod. pen., allo stesso modo, si è affermato che nessun limite si pone nella individuazione delle fonti da cui derivano gli obblighi di custodia e di assistenza che realizzano la protezione di quel bene: rilevano a tale scopo norme giuridiche di qualsivoglia natura, convenzioni di natura pubblica o privata, regolamenti o legittimi ordini di servizio, rivolti alla tutela della persona umana, in ogni condizione ed in ogni segmento del percorso che va dalla nascita alla morte. Ad ogni situazione che esige detta protezione fa riscontro uno stato di pericolo che esige un pieno attivarsi, sicché ogni abbandono diventa pericoloso e l’interesse risulta violato quando la derelizione sia anche solo relativa o parziale (Sez. 5, n. 290 del 30/11/1993 – dep. 14/01/1994, Balducci, Rv. 196779).
6. La Prima Sezione civile di questa Corte (Sez. 1, n. 13584 del 12/06/2006, Rv. 589525; Sez. 1, n. 9628 del 22/04/2009, Rv. 607599) ha da tempo chiarito la funzione e l’ambito dell’istituto dell’amministrazione di sostegno ed i rapporti con gli altri istituti a tutela dell’incapace (interdizione e inabilitazione).
6.1 La L. n. 6 del 2004, art. 1, attribuisce all’amministrazione di sostegno “la finalità di tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente”. L’art. 404 cod. civ., nel testo modificato da tale legge, precisa che “la persona che, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, può essere assistita da un amministratore di sostegno, nominato dal giudice tutelare”. Dal canto suo, l’art. 414 cod. civ., nel testo modificato dalla citata legge, dispone che il maggiore di età e il minore emancipato affetti da abituale infermità di mente, che li renda incapaci di provvedere ai propri interessi, sono interdetti “quando ciò è necessario per assicurare la loro adeguata protezione”; e l’art. 415 cod. civ., continua a prevedere l’inabilitazione per una serie di soggetti il cui stato non sia “talmente grave da far luogo all’interdizione”.
6.2 La Corte costituzionale, investita della tematica del discrimen fra i tre istituti, con la sentenza n. 440 del 2005, ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 404, 405 e 409 cod. civ., nel testo introdotto dalla L. n. 6 del 2004, sollevata sotto il profilo che essi non indicherebbero chiari criteri selettivi per distinguere il nuovo istituto dalle preesistenti figure dell’interdizione e dell’inabilitazione. La Consulta ha affermato che “la complessiva disciplina inserita dalla L. n. 6 del 2004, sulle preesistenti norme del codice civile affida al giudice il compito di individuare l’istituto che, da un lato, garantisca all’incapace la tutela più adeguata alla fattispecie e, dall’altro, limiti nella minore misura possibile la sua capacità; e consente, ove la scelta cada sull’amministrazione di sostegno, che l’ambito dei poteri dell’amministratore sia puntualmente correlato alle caratteristiche del caso concreto. Solo se non ravvisi interventi di sostegno idonei ad assicurare all’incapace siffatta protezione, il giudice può ricorrere alle ben più invasive misure dell’inabilitazione o dell’interdizione, che attribuiscono uno status di incapacità, estesa per l’inabilitato agli atti di straordinaria amministrazione e per l’interdetto anche a quelli di amministrazione ordinaria”.
6.3 Questa Corte ha poi osservato che l’amministrazione di sostegno – introdotta nell’ordinamento dalla L. 9 gennaio 2004, n. 6, art. 3 – ha la finalità di offrire a chi si trovi nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi uno strumento di assistenza che ne sacrifichi nella minor misura possibile la capacità di agire, distinguendosi, con tale specifica funzione, dagli altri istituti a tutela degli incapaci, quali l’interdizione e l’inabilitazione, non soppressi, ma solo modificati dalla stessa legge attraverso la novellazione degli artt. 414 e 427 cod. civ.. Rispetto ai predetti istituti, l’ambito di applicazione dell’amministrazione di sostegno va individuato con riguardo non già al diverso, e meno intenso, grado di infermità o di impossibilità di attendere ai propri interessi dei soggetto carente di autonomia, ma piuttosto alla maggiore idoneità di tale strumento ad adeguarsi alle esigenze di detto soggetto, in relazione alla sua flessibilità ed alla maggiore agilità della relativa procedura applicativa (Sez. 1, n. 17962 del 11/09/2015, Rv. 637102).
6.4 Nello svolgimento dei suoi compiti, l’amministratore di sostegno deve sempre tener conto dei bisogni e delle aspirazioni dei beneficiario (art. 410, comma 1, cod. civ.) e a questo dovere di ascolto, si accompagna quello di informare tempestivamente (e preventivamente) il beneficiario circa gli atti da compiere, nonché il giudice tutelare in caso di dissenso con il beneficiario stesso: in tale ultimo caso, spetterà al giudice superare il contrasto, indicando all’amministratore la via da seguire (art. 410, comma 2, cod. civ.).
6.5 Da queste brevi considerazioni emerge che, pur avendo un dovere di relazionare periodicamente (secondo la cadenza temporale stabilita dal giudice) sull’attività svolta e sulle condizioni di vita personale e sociale del beneficiario, il compito dell’amministratore di sostegno resta fondamentalmente quello di assistere la persona nella gestione dei propri interessi patrimoniali e non anche la “cura della persona”, poiché l’art. 357 cod. civ., che indica tale funzione a proposito dei tutore, non rientra tra le disposizioni richiamate dall’art. 411 tra le “norme applicabili all’amministrazione di sostegno”.
Ciò significa che, in mancanza di apposite previsioni nel decreto di nomina (che, nella prospettiva di particolare duttilità dell’istituto, definisce in concreto i poteri e dunque anche gli obblighi dell’amministratore, individuando, in relazione alla specificità della situazione e delle esigenze del soggetto amministrato, gli atti che l’amministratore ha il potere di compiere in nome e per conto di quest’ultimo e quelli che costui può compiere solo con l’assistenza dell’amministratore), l’amministratore di sostegno non assume una posizione di garanzia rispetto ai beni della vita e dell’incolumità individuale dei soggetto incapace.
7. In mancanza di qualsiasi richiamo al decreto del giudice tutelare (la contestazione fonda l’obbligo dell’imputato sul dato formale della nomina quale amministratore di sostegno) deve perciò escludersi la posizione di garanzia del B. rispetto alla signora C., la quale, d’altra parte, era materialmente assistita dal figlio e da una badante.
In conclusione, allora, la impugnata sentenza va annullata senza rinvio, perché il fatto non sussiste.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.
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