Le massime estrapolate

L’estensione del diritto di ciascun comunista trova il limite nella necessità di non sacrificare, ma di consentire, il potenziale pari uso della cosa da parte degli altri partecipanti.

Di conseguenza, qualora – attraverso la valutazione delle esigenze e dei diritti degli altri partecipanti alla comunione – il giudice verifichi che l’uso della cosa comune sia avvenuto nell’esercizio dei poteri e nel rispetto dei limiti stabiliti dall’art. 1102 cod. civ. a tutela degli altri comproprietari, deve ritenersi legittima l’opera seppure realizzata senza il rispetto delle norme dettate per regolare i rapporti fra proprietà contigue e che trovano applicazione nel condominio, sempre che la relativa osservanza sia compatibile con la struttura dell’edificio condominiale, in cui le singole proprietà coesistono in unico edificio.

In considerazione del rapporto strumentale di cui si è detto fra l’uso del bene comune e la proprietà esclusiva, inoltre, che caratterizza il condominio, non sembra ragionevole individuare a carico del diritto del singolo condomino – che si riserva delle parti comuni in funzione del migliore e più razionale godimento del bene di proprietà individuale – limiti o condizioni estranei alla regolamentazione e al contemperamento degli interessi dei partecipanti alla comunione secondo i parametri stabiliti dalla specifica disciplina al riguardo dettata dall’art. 1102 cod. civ.

Il testo integrale


SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE II CIVILE
Sentenza 25 ottobre 2011, n. 22092
Svolgimento del processo

1. Con ricorso per manutenzione del possesso C.F. e C.S., proprietari dell’appartamento al primo piano del fabbricato sito in (omissis), denunciavano che G.N. e C.P., proprietari del sottostante appartamento a piano terra, avevano realizzato tre pensiline di materiale plastico con intelaiatura in ferro lamentando la lesione dell’estetica della facciata e la violazione del diritto di veduta in appiombo dai medesimi esercitato.

Chiedevano la rimozione del manufatto, facendo presente che, attraverso la pensilina era possibile accedere dal muro di cinta al loro appartamento.
Si costituivano i convenuti, chiedendo il rigetto della domanda.
Respinta la tutela interdittale, il Tribunale di Massa con sentenza dep. il 21 luglio 2001 rigettava la domanda.
Con sentenza dep. il 25 novembre 2004 la Corte di appello di Genova rigettava l’impugnazione principale proposta dagli attori.
Dopo avere precisato i limiti entro i quali le norme sulle distanze legali si applicano al condominio in considerazione dell’esigenza di contemperare i diversi interessi dei proprietari che il giudice deve valutare, la Corte riteneva che, da un canto, le pensiline realizzate con materiale elegante e in armonia con le caratteristiche strutturali e le linee estetiche del fabbricato, svolgevano una funzione di obiettiva utilità per il condomino al piano terra e, d’altro lato, che il pericolo alla sicurezza del primo piano era da escludere, attesa la fragilità della lastra in policarbonato che sola avrebbe potuto fornire una base di appoggio per accedere all’appartamento degli attori mentre il materiale trasparente delle pensiline non impediva l’esercizio della veduta in appiombo.
2. Avverso tale decisione propongono ricorso per cassazione il C. e la S. sulla base di due motivi illustrati da memoria.
Resistono con controricorso gli intimati.
Motivi della decisione
1.1. Con il primo motivo i ricorrenti, lamentando violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto nonché omessa, insufficiente contraddittoria motivazione sul punto “sicurezza” dei ricorrenti, censurano la decisione gravata che, nella valutazione della gerarchia dei valori condominiali, aveva ritenuto secondario il problema della sicurezza evidenziato da essi ricorrenti rispetto alla funzione di protezione e riparo della porta finestra del piano terra, che era stato invece considerato primario mentre tale sarebbe stato il problema della sicurezza e la tutela dell’integrità fisica e patrimoniale degli attori. Ugualmente assurdo doveva considerarsi il ragionamento della Corte laddove aveva ritenuto che nelle lastre in policarbonato doveva individuarsi il piano di appoggio per accedere all’appartamento degli attori quando in realtà la base di appoggio era la struttura metallica in acciaio infissa nel muro e su cui poggiava il policarbonato.
1.2. Con il secondo motivo il ricorrenti, lamentando violazione dell’art. 907 cod. civ. ed errata interpretazione dell’art. 1102 cod. civ. nonché irrazionale omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, censurano la sentenza gravata che con motivazione innovativa e inaccettabile aveva ritenuto che nell’ambito condominiale le norme che regolano i rapporti di vicinato trovano applicazione solo in quanto compatibili. Erroneamente era stato ritenuto che il valore primario della protezione dagli agenti atmosferici dovesse sacrificare nell’ambito condominiale il diritto di veduta goduto dagli attori, i quali avevano diritto all’osservanza delle prescrizioni dettate dall’art. 907 cod. civ. anche con riferimento a una pensilina che non deve impedire il diritto di veduta dei condomini, secondo quanto statuito dalla Suprema Corte. Tenuto conto che la pensilina, nella parte in cui. è costituita con materiale trasparente, è destinata a opacizzarsi rapidamente, non si comprendeva come la stessa potesse considerarsi non ostativa all’esercizio della veduta. 2. I motivi – che, per la stretta connessione, possono essere esaminati congiuntamente – sono infondati.
La sentenza impugnata è innanzitutto conforme alla consolidata giurisprudenza di legittimità, secondo cui le norme sulle distanze legali, rivolte fondamentalmente a regolare rapporti fra proprietà contigue e separate, sono applicabili anche nei rapporti tra i condomini di un edificio condominiale quando sia compatibili con l’applicazione delle norme particolari relative alle cose comuni (art. 1102 c.c.),cioè quando l’applicazione di queste ultime non sia in contrasto con le prime; nell’ipotesi di contrasto prevalgono le norme sulle cose comuni con la conseguente inapplicabilità di quelle relative alle distanze legali che nel condominio degli edifici e nei rapporti fra singolo condomino e condominio sono in rapporto di subordinazione rispetto alle prime (Cass. 6546/2010; 7044/2004; 8978/2003; 15394/2000; 9995/1998; 10704/1994).
Al riguardo occorre ricordare i principi che in modo particolare sono stati chiariti e precisati da Cass. 14 aprile 2004 n. 7044 (di recente integralmente ripresi e riportati da Cass. 6546/2010).
Secondo Cass. 7044/ 2004 n. 7044, in considerazione della peculiarità del condominio degli edifici, caratterizzato dalla coesistenza di una comunione forzosa e di proprietà esclusive, il godimento dei beni, degli impianti e dei servizi comuni è in funzione del diritto individuale sui singoli piani in cui è diviso il fabbricato: dovendo i rapporti fra condomini ispirarsi a ragioni di solidarietà si richiede un costante equilibrio tra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione, dovendo verificarsi necessariamente alla stregua delle norme che disciplinano la comunione – che l’uso del bene comune da parte di ciascuno sia compatibile con i diritti degli altri (Cass. 8808/2003).
Trova perciò applicazione la disciplina, che regolando in modo particolare e specifico, il godimento e l’utilizzazione dei beni comuni, ha natura speciale rispetto alla normativa che, nell’ambito dei rapporti di vicinato, stabilisce le limitazioni legali fra proprietà confinanti, che sono imposte con carattere di reciprocità indipendentemente dalla verifica di un pregiudizio derivante dalla loro inosservanza.
Al riguardo occorre fare riferimento quindi all’art. 1102 cod. civ. – applicabile, ai sensi dell’art. 1139 cod. civ., al condominio – che, nello stabilire i poteri e i limiti di ciascun partecipante nell’uso dei beni comuni, fissa al tempo stesso le condizioni di liceità della condotta del comunista.
Con riferimento al condominio la norma consente, infatti, la più intensa utilizzazione dei beni comuni in funzione del godimento della proprietà esclusiva, purché il condomino non alteri la destinazione del bene e non ne impedisca l’altrui pari uso.
In definitiva l’estensione del diritto di ciascun comunista trova il limite nella necessità di non sacrificare ma di consentire il potenziale pari uso della cosa da parte degli altri partecipanti (Cass. 10453/2001).
Pertanto,qualora – attraverso la valutazione delle esigenze e dei diritti degli altri partecipanti alla comunione – il giudice verifichi che l’uso della cosa comune sia avvenuto nell’esercizio dei poteri e nel rispetto dei limiti stabiliti dall’art.1102 cod. civ. a tutela degli altri comproprietari, deve ritenersi legittima l’opera seppure realizzata senza il rispetto delle norme dettate per regolare i rapporti fra proprietà contigue e che trovano applicazione nel condominio, sempreché la relativa osservanza sia compatibile con la struttura dell’edificio condominiale, in cui le singole proprietà coesistono in unico edificio.
Infatti la prevalenza della norma speciale, dettata in materia di condominio, determina l’inapplicabilità di quella generale, quando i diritti o le facoltà da questa previsti siano compressi o limitati per effetto dei poteri legittimamente esercitati dal partecipante alla comunione sulla base dell’art. 1102 e. e: in considerazione del rapporto strumentale di cui si è detto fra l’uso del bene comune e la proprietà esclusiva, che caratterizza il condominio, non sembra ragionevole individuare a carico del diritto del singolo condomino – che si serva delle parti comuni in funzione del migliore e più razionale godimento del bene di proprietà individuale – limiti o condizioni estranei alla regolamentazione e al contemperamento degli interessi dei partecipanti alla comunione secondo i parametri stabiliti dalla specifica disciplina al riguardo dettata dall’art. 1102 cod. civ..
Nella specie, la sentenza ha compiuto, con motivazione immune da vizi logici, la verifica della compatibilità dell’uso più intenso della cosa comune con i limiti sanciti dall’art. 1102 cod. civ. Ed invero, i Giudici non hanno affatto considerato prevalente la funzione di protezione delle pensiline rispetto al problema della sicurezza posto dagli attori avendo escluso che i manufatti realizzati dai convenuti potessero essere utilizzati da malintenzionati per accedere all’appartamento degli attori: hanno ritenuto che soltanto la lastra in policarbonato in astratto fosse utilizzabile come base di appoggio ma che in concreto per la sua fragilità non potesse costituire un piano idoneo per accedere all’appartamento degli attori. D’altra parte, è stata anche esclusa la lesione del diritto di veduta, stante il materiale trasparente di cui erano costituite le pensiline, che le stesse fossero state mantenute in condizioni di pulizia dai predetti convenuti in adempimento degli obblighi loro imposti a garanzia di una civile convivenza e di un corretto svolgimento dei rapporti di vicinato.
Orbene, le doglianze sollevate dai ricorrenti si sostanziano nella censura degli apprezzamenti compiuti dalla sentenza impugnata in ordine agli accertamenti di fatto – che sono riservati al giudice di merito – circa l’idoneità dei manufatti a creare una condizione di insicurezza o a ledere il diritto di veduta. Al riguardo, va sottolineato che il vizio deducibile ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. deve consistere in un errore intrinseco al ragionamento del giudice che deve essere verificato in base al solo esame del contenuto del provvedimento impugnato e non può risolversi nella denuncia della difformità della valutazione delle risultanze processuali compiuta dal giudice di merito rispetto a quella a cui, secondo il ricorrente, si sarebbe dovuti pervenire: in sostanza, ai sensi dell’art. 360 n. 5 citato, la (dedotta) erroneità della decisione non può basarsi su una ricostruzione soggettiva del fatto che il ricorrente formuli procedendo a una diversa lettura del materiale probatorio, atteso che tale indagine rientra nell’ambito degli accertamenti riservati al giudice di merito ed è sottratta al controllo di legittimità della Cassazione che non può esaminare e valutare gli atti processuali ai quali non ha accesso, ad eccezione che per gli errores in procedendo (solo in tal caso la Corte è anche giudice del fatto).
Il ricorso va rigettato.
Le spese della presente fase vanno poste in solido a carico dei ricorrenti, risultati soccombenti


P.Q.M.


Rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti in solido al pagamento in favore del resistente delle spese relative alla presente fase che liquida in Euro 2.000,00 di cui Euro 200,00 per esborsi ed Euro 1.800,00 per onorari di avvocato oltre spese generali ed accessori di legge.

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *