Ai fini dell’usucapione e’ necessaria la manifestazione del dominio esclusivo

Corte di Cassazione, sezione seconda civile, Ordinanza 7 marzo 2019, n. 6688.

La massima estrapolata:

Chi agisce in giudizio per ottenere di essere dichiarato proprietario di un bene, affermando di averlo usucapito, deve dare la prova di tutti gli elementi costitutivi della dedotta fattispecie acquisitiva e quindi, tra l’altro, non solo del corpus, ma anche dell’animus; il secondo, peraltro, puo’ eventualmente essere desunto in via presuntiva dal primo, se lo svolgimento di attivita’ corrispondente all’esercizio del diritto dominicale sia gia’ di per se’ indicativo dell’intento, in colui che la compie, di avere la cosa come propria. Infatti, solo la sussistenza di un corpus, accompagnata dall’animus possidendi, corrispondente all’esercizio del diritto di proprieta’, che si protrae per il tempo previsto per il maturarsi dell’usucapione, raffigura il fatto cui la legge riconduce l’acquisto del diritto di proprieta’

Ai fini dell’usucapione e’ necessaria, dunque, la manifestazione del dominio esclusivo sulla cosa da parte dell’interessato attraverso un’attivita’ contrastante e incompatibile con il possesso altrui, gravando l’onere della prova su colui che invochi l’avvenuta usucapione, non essendo sufficienti atti soltanto di gestione consentiti o tollerati dal proprietario, perche’ comportanti solo l’erogazione di spese per il miglior godimento della cosa.

Ordinanza 7 marzo 2019, n. 6688

Data udienza 18 dicembre 2018

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CORRENTI Vincenzo – Presidente

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere

Dott. ABETE Luigi – Consigliere

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA
sul ricorso 27843-2015 proposto da:
(OMISSIS), rappresentato e difeso dall’Avvocato (OMISSIS) ed elettivamente domiciliato presso il suo studio in (OMISSIS);
– ricorrente –
contro
(OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) (tutti in proprio e nella qualita’ di eredi di (OMISSIS)) e (OMISSIS), rappresentati e difesi dagli Avvocati (OMISSIS) e (OMISSIS), ed ettivamente domiciliato presso lo studio del secondo in (OMISSIS);
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 1252/2015 della CORTE di APPELLO di TORINO, pubblicata il 29/06/2015;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 18/12/2018 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

FATTI DI CAUSA

Con atto di citazione notificato in data 2.7.2007, (OMISSIS) conveniva in giudizio avanti il Tribunale di Ivrea (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) per sentir dichiarare l’esclusiva proprieta’, in capo a se’ medesimo, per intervenuta usucapione, degli immobili siti in (OMISSIS) e distinti in Catasto Terreni al F. (OMISSIS), particelle nn. (OMISSIS), rispettivamente in comproprieta’ – le prime cinque – dei fratelli (OMISSIS) e le ultime due a (OMISSIS). L’attore deduceva di essere stato nel possesso pacifico, continuato, esclusivo e pubblico di tali beni per oltre 30 anni e di avere curato l’esecuzione di alcuni lavori di manutenzione.
Si costituivano in giudizio i convenuti, i quali eccepivano l’infondatezza degli assunti attorei e rilevavano che – in forza di successione ereditaria di (OMISSIS), deceduto in data (OMISSIS) – i fratelli (OMISSIS) e (OMISSIS) in (OMISSIS), nonche’ la figlia di quest’ultima, (OMISSIS), fossero divenuti comproprietari degli immobili per cui e’ causa, all’epoca distinti al F. (OMISSIS), particoli (OMISSIS). Aggiungevano che con atto del notaio (OMISSIS) in data 11.11.1969, (OMISSIS) aveva donato con riserva di usufrutto ai quattro figli, in parti uguali, la quota di comproprieta’ a lui spettante; che si era proceduto al frazionamento ed alla divisione degli immobili caduti in successione, per cui alla (OMISSIS) furono assegnate le particelle nn. (OMISSIS), mentre ai fratelli (OMISSIS) le restanti particelle, ovverosia gli stessi beni che il dante causa ( (OMISSIS)) aveva concesso in uso a (OMISSIS).
Deducevano che, nel novembre 1989, in seguito al decesso del padre, (OMISSIS), anche in rappresentanza dei fratelli, si fosse recata insieme allo zio, (OMISSIS), nell’abitazione fruita in uso dal (OMISSIS) e dalla sua famiglia e come, in quel frangente, il (OMISSIS) avesse esibito loro quietanze di ratei di locazione pagati e una successiva scrittura privata, con cui il de cuius, (OMISSIS), lo autorizzava a restare nell’immobile fino al 1999, con l’onere di provvedere alla relativa manutenzione ordinaria e straordinaria, in luogo del pagamento dell’affitto. Il medesimo si era mostrato disponibile a rilasciare copia della scrittura, pur rilevando come la stessa fosse in possesso anche di (OMISSIS), sicche’ l’offerta veniva declinata in quanto ritenuta superflua; ma non avendo rinvenuto la suddetta scrittura tra i documenti paterni, la (OMISSIS) ne aveva chiesta copia al (OMISSIS), il quale ne aveva rifiutato la consegna. Nel 1992, a fronte dell’inadempimento dell’usuario all’obbligazione assunta, i (OMISSIS) inviavano diffida a versare il canone di locazione e ne sollecitavano il pagamento anche nell’anno 1993, richiedendo invano la consegna di copia del contratto d’affitto. Evidenziavano come il (OMISSIS), senza pagare nulla, confermasse che la permanenza nell’immobile di proprieta’ (OMISSIS) fosse giustificata dalla scrittura privata conclusa con (OMISSIS) e sosteneva di non avere mai utilizzato la porzione di proprieta’ (OMISSIS), circostanza riscontrata dalla stessa (OMISSIS). nel corso di una visita effettuata nel 1991 assieme al proprio tecnico di fiducia. Inoltre, la porzione utilizzata dal (OMISSIS) era rimasta invariata nel corso del tempo e il medesimo si era limitato a mutare la destinazione di taluni locali gia’ esistenti, intervenendo sulle trabeazioni e tinteggiando l’esterno di colore bianco. (OMISSIS), anche in nome e per conto dei fratelli, evidenziava di avere comunicato, con racc. in data 17.10.2003, al (OMISSIS) la volonta’ dei comproprietari di rientrare nella disponibilita’ del bene.
I convenuti concludevano per il rigetto delle domande attoree e spiegavano domanda riconvenzionale con cui chiedevano la condanna del (OMISSIS) al rilascio del fabbricato in questione; in subordine, chiedevano, in caso di parziale accoglimento della domanda dell’attore, di dichiarare comuni le parti dell’edificio che, per legge, ex articolo 1117 c.c., ovvero per titolo, o destinazione fossero da ritenere oggetto di comunione.
La causa era istruita mediante l’assunzione di prove per testi e l’espletamento di CTU.
Con sentenza n. 682/2012, depositata in data 10.12.2012, il Tribunale di Ivrea rigettava la domanda attorea e condannava il (OMISSIS), in accoglimento della riconvenzionale, al rilascio immediato e, comunque, nel termine di 30 gg. dal passaggio in giudicato della sentenza, dell’immobile di proprieta’ dei convenuti ed alla rifusione delle spese di lite.
Avverso detta sentenza proponeva appello il (OMISSIS), per violazione e/o falsa applicazione degli articoli 2721 e 2697, 1158 e 1164 c.c., articoli 91 c.p.c. e segg., nonche’ per errata valutazione delle risultanze istruttorie.
Si costituivano i (OMISSIS) e la (OMISSIS), chiedendo il rigetto dell’appello e la conferma della sentenza di primo grado.
Con sentenza n. 1252/2015, depositata in data 29.6.2015, la Corte d’Appello di Torino rigettava l’appello proposto dal (OMISSIS) contro gli appellati (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), tutti in proprio e anche nella qualita’ di eredi di (OMISSIS) e (OMISSIS), confermando la sentenza impugnata e condannando l’appellante alle spese di lite del grado d’appello.
Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione (OMISSIS), sulla base di un unoco articolato motivo; resistono (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), tutti in proprio e anche nella qualita’ di eredi di (OMISSIS) e (OMISSIS) con controricorso, depositando memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Il ricorrente formula un unico motivo, suddiviso in plurimi profili di censura. Deduce infatti la “Violazione e/o falsa applicazione degli articoli 2721 e 2724 c.c. – Violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 2697 c.c., con riguardo all’onere probatorio in capo a parte convenuta non assolto – errata valutazione delle risultanze istruttorie – Violazione e/o falsa applicazione degli articoli 1158 e 1164 c.c. – Violazione e/o falsa applicazione degli articoli 91 c.p.c. e segg., – Illogicita’ manifesta”.
1.1. – Quanto al primo profilo (di violazione e/o falsa applicazione degli articoli 2721 e 2724 c.c.), il ricorrente lamenta che la Corte di merito abbia confermato la decisione del Giudice di primo grado di ammettere la prova per testi articolata dagli odierni resistenti; che non avrebbe dovuto essere ammessa in quanto diretta a provare la sussistenza di un contratto, in violazione dell’articolo 2721 c.c., avendone viceversa il Giudice d’Appello giustificato l’ammissione in quanto le parti appellate avevano riferito di aver perduto senza colpa la copia del contratto, mentre siffatta prova non era stata mai fornita in primo grado. Rileva il ricorrente che e’ ben vero che la facolta’ ex articolo 2721 c.c., comma 2, di consentire la prova oltre i limiti del comma 1, costituisce potere discrezionale del Giudice, tuttavia, lo stesso, ove esercitato, deve essere debitamente motivato.
1.2. – Il motivo non e’ fondato.
1.3. – L’articolo 2721 c.c., prevede che l’autorita’ giudiziaria possa consentire la prova oltre il limite di valore di Euro 2,58, tenuto conto della qualita’ delle parti, della natura del contratto e di ogni altra circostanza.
L’ammissione della prova testimoniale oltre i limiti di valore stabiliti dall’articolo 2721 c.c., costituisce un potere discrezionale del giudice di merito il cui esercizio non postula la considerazione di tutte le circostanze elencate a titolo esemplificativo nella norma citata, bensi’ puo’ fondarsi sull’attribuzione ad una di esse di una efficacia prevalente ed assorbente rispetto alle altre con una valutazione insindacabile in sede di legittimita’ (Cass. n. 1257 del 1988), ove correttamente motivata (Cass. n. 11889 del 2007; Cass. n. 11389 del 2005; Cass. n. 13621 del 2004).
Nella fattispecie, la Corte di merito – a conferma della correttezza della ammissione della prova per testi da parte del giudice di primo grado – ha osservato che, trattandosi nella specie di un contratto di comodato (che peraltro non richiederebbe, ai fini della validita’, la forma scritta ad substantiam) il fatto che i proprietari avessero lasciato l’appellante nel godimento del bene, significava aver stipulato, quantomeno per fatti concludenti tale contratto. Ed ha rilevato che, il fatto che le parti appellate avevano riferito di avere perduto (ovvero non reperito, senza colpa) la copia del contratto, l’ammissione della prova per testi disposta dal primo giudice ai fini della sussistenza dell’accordo doveva ritenersi certamente corretta, ex articolo 2721 c.c., comma 2 e articolo 2724 c.c., n. 3.
2. – Con ulteriore profilo di censura, il ricorrente deduce la “Violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 2697 c.c., con riguardo all’onere probatorio in capo a parte convenuta non assolto errata valutazione delle risultanze istruttorie – Violazione e/o falsa applicazione degli articoli 1158 e 1164 c.c. – illogicita’ manifesta”, poiche’ i Giudici di merito avrebbero illegittimamente negato l’usucapione in capo al ricorrente, ritenendo provata la circostanza eccepita dai resistenti della esistenza di un contratto tra il (OMISSIS) e (OMISSIS), che autorizzava il primo ad abitare l’immobile fino al 1999 in cambio della sua manutenzione ad opara dell’attore. Il ricorrente deduce che dalle risultanze probatorie (teste (OMISSIS)) non sarebbe emerso nulla di tutto cio’. Inoltre, il ricorrente deduce che ai fini dell’usucapione rileva l’animus possidendi e non il titolo, per cui e’ compatibile con la situazione di diritto una diversa situazione di fatto atta a consentire comunque l’esercizio di un possesso di un bene uti dominus da parte del fruitore. Situazione di fatto e interversio possessionis che le risultanze delle prove orali avrebbero viceversa dimostrato sussistere, con particolare riferimento a una serie di interventi edili di natura straordinaria eseguiti senza opposizione, che costituirebbero prova dell’animus possidendi che da oltre 30 anni il (OMISSIS) esercitava sugli immobili un potere equivalente a quello del proprietario (testi (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e altri). Infatti, secondo il ricorrente gli atti di diffida e messa in mora – a tutto concedere l’unica attivita’ posta in essere dai convenuti nei confronti del (OMISSIS) – cosi’ come la riferita divisione ereditaria (atto meramente dichiarativo) e la stima degli immobili (atto meramente stimativo) non sarebbero idonei ad interrompere il termine per usucapire, potendosi esercitare il possesso anche in aperto contrasto con la volonta’ del titolare del diritto reale (Cass. n. 15199 del 2011).
2.1. – Il motivo non e’ fondato.
2.2. – Con riferimento alla asserita violazione dell’articolo 2697 c.c., va richiamato l’univoco orientamento giurisprudenziale, seguito dal primo Giudice e confermato dal Giudice d’Appello, per il quale chi agisce in giudizio per ottenere di essere dichiarato proprietario di un bene, affermando di averlo usucapito, deve dare la prova di tutti gli elementi costitutivi della dedotta fattispecie acquisitiva e quindi, tra l’altro, non solo del corpus, ma anche dell’animus (Cass. n. 975 del 2000); il secondo, peraltro, puo’ eventualmente essere desunto in via presuntiva dal primo, se lo svolgimento di attivita’ corrispondente all’esercizio del diritto dominicale sia gia’ di per se’ indicativo dell’intento, in colui che la compie, di avere la cosa come propria. Infatti, solo la sussistenza di un corpus, accompagnata dall’animus possidendi, corrispondente all’esercizio del diritto di proprieta’, che si protrae per il tempo previsto per il maturarsi dell’usucapione, raffigura il fatto cui la legge riconduce l’acquisto del diritto di proprieta’ (Cass. n. 9325 del 2011).
Ai fini dell’usucapione e’ necessaria, dunque, la manifestazione del dominio esclusivo sulla cosa da parte dell’interessato attraverso un’attivita’ contrastante e incompatibile con il possesso altrui, gravando l’onere della prova su colui che invochi l’avvenuta usucapione (Cass. n. 1367 del 1999; Cass. n. 19478 del 2007; Cass. n. 4863 del 2010), non essendo sufficienti atti soltanto di gestione consentiti o tollerati dal proprietario, perche’ comportanti solo l’erogazione di spese per il miglior godimento della cosa (Cass. n. 16841 del 2005).
2.3. – Da questi principi non si discosta la sentenza impugnata. Nel valutare le risultanze processuali, infatti, la Corte di appello (richiamando il primo giudice), mediante apprezzamenti eminentemente di merito, sorretti da adeguata motivazione e quindi insindacabili in questa sede (Cass. n. 9325 del 2011, cit.), ha ritenuto che la prova fornita dal ricorrente avesse riguardato essenzialmente il corpus. Ne consegue la irrilevanza, ad usucapionem, delle circostanze addotte dal ricorrente medesimo, posto che il godimento del terreno in oggetto o i lavori eseguiti non comportano di per se’ una situazione oggettivamente incompatibile con la proprieta’ altrui. Infatti, sempre secondo la giurisprudenza di legittimita’ l’interversione del possesso deve estrinsecarsi in una manifestazione esteriore, da cui sia consentito desumere che il detentore abbia cessato di esercitare il potere di fatto sulla cosa in nome altrui e abbia iniziato ad esercitarlo esclusivamente in nome proprio (Cass. n. 7337 del 2002).
Nella specie, la Corte di merito in applicazione dei consolidati principi di legittimita’ – al di la’ della portata interruttiva o meno del possesso ad usucapionem di taluni comportamenti dei controricorrenti – ha ritenuto, a monte, la mancata prova della configurabilita’ della stessa interversione del possesso; del momento cioe’ in cui il ricorrente da detentore dei beni (sulla base del contratto di comodato), si sia trasformato in possessore, sussistendone il corpus e l’animus possidendi.
La qual cosa rende altresi’ superflua l’analisi degli atti interruttivi del possesso ad usucapionem, alla luce del rinvio fatto dagli articoli 1165 e 2943 c.c. (Cass. n. 16234 del 2011; Cass. n. 13625 del 2009).
3. – Per il resto (a prescindere da un del tutto immotivato riferimento alla violazione e/o falsa applicazione degli articoli 91 c.p.c. e segg.), il residuo profilo di censura si sostanzia nell’esame del corredo testimoniale riproposto, e della valenza delle singole deposizioni a sostegno della asserita fondatezza della domanda attorea e, quindi, della lamentata conseguente erroneita’ della decisione impugnata.
3.1. – Il profilo e’ inammissibile.
3.2. – Da un lato, e’ consolidato il principio secondo cui l’apprezzamento del giudice di merito, nel porre a fondamento della propria decisione una argomentazione, tratta dalla analisi di fonti di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (ex plurimis, Cass. n. 9275 del 2018; Cass. n. 5939 del 2018; Cass. n. 16056 del 2016; Cass. n. 15927 del 2016). Sono riservate al Giudice del merito l’interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, il controllo dell’attendibilita’ e della concludenza delle prove, la scelta tra le risultanze probatorie di quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, nonche’ la scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento, per cui e’ insindacabile, in sede di legittimita’, il “peso probatorio” di alcune testimonianze rispetto ad altre, in base al quale il Giudice di secondo grado sia pervenuto a un giudizio logicamente motivato, diverso da quello formulato dal primo Giudice (Cass. n. 1359 del 2014; Cass. n. 16716 del 2013; Cass. n. 1554 del 2004).
Ed e’ altresi’ pacifico che il difetto di motivazione censurabile in sede di legittimita’ e’ configurabile (cosa che nella specie non e’ dato ravvisare) solo quando dall’esame del ragionamento svolto dal Giudice di merito e quale risulta dalla stessa sentenza impugnata emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre a una diversa decisione ovvero quando e’ evincibile l’obiettiva deficienza del processo logico che ha indotto il Giudice al suo convincimento, ma non gia’ quando vi sia difformita’ rispetto alle attese del ricorrente (Cass. n. 13054 del 2014).
3.3. – D’altro lato, la censura si risolve, in sostanza, nella sollecitazione ad effettuare una nuova valutazione di risultanze di fatto come emerse nel corso del procedimento, cosi’ mostrando il ricorrente di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimita’ in un nuovo, non consentito, giudizio di merito, nel quale ridiscutere tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto ancora gli apprezzamenti espressi dalla Corte di merito non condivisi e per cio’ solo censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri piu’ consoni ai propri desiderata; quasi che nuove istanze di fungibilita’ nella ricostruzione dei fatti di causa possano ancora legittimamente porsi dinanzi al giudice di legittimita’ (Cass. n. 5939 del 2018).
Come questa Corte ha piu’ volte sottolineato, compito della Cassazione non e’ quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, ne’ quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dal giudice del merito (cfr. Cass. n. 3267 del 2008), dovendo invece il giudice di legittimita’ limitarsi a controllare se costui abbia dato conto delle ragioni della sua decisione e se il ragionamento probatorio, da esso reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto entro i limiti del ragionevole e del plausibile; cio’ che nel caso di specie e’ dato riscontrare (cfr. Cass. n. 9275 del 2018).
4. – Il ricorso va dunque rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Va emessa altresi’ la dichiarazione di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1-quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alla refusione delle spese di lite in favore dei controricorrenti che liquida in complessivi Euro 2.900,00 di cui Euro 200,00 per rimborso spese vive, oltre al rimborso forfettario spese generali, in misura del 15%, ed accessori di legge. Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1-quater, da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1-bis.

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