Reato di vilipendio della Repubblica

Corte di Cassazione, sezione prima penale, Sentenza 13 agosto 2019, n. 35988.

Massima estrapolata:

Commette il reato di vilipendio della Repubblica, aggravato ai sensi degli artt. 81 e 47, primo comma, n. 2, cod.pen.mil.pace, il militare che, sulla pagina del proprio profilo Facebook, scrive, in relazione ad un articolo sui rapporti commerciali tra l’Italia e l’India, la frase offensiva “Stato di merda”, riferita non alla Nazione, ossia alla comunità di individui, ma allo Stato, cioè al soggetto inquadrabile e riconoscibile proprio in quegli organi indicati dalla lettera dell’art. 81 cod.pen.mil.pace, quali il Governo e le Assemblee legislative.

Sentenza 13 agosto 2019, n. 35988

Data udienza 15 gennaio 2019

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI TOMASSI Maria Stefani – Presidente

Dott. SIANI Vincenzo – Consigliere

Dott. SANDRINI Enrico Giusep – Consigliere

Dott. BIANCHI Michele – Consigliere

Dott. MANCUSO Luigi F. – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 08/05/2018 della CORTE MILITARE APPELLO di ROMA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. LUIGI FABRIZIO MANCUSO;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Militare Dr. (Ndr: testo originale non comprensibile) che ha concluso in parziale accoglimento del ricorso disporsi il parziale annullamento senza rinvio della sentenza limitatamente alla qualificazione giuridica del fatto ritenendo integrato il reato di vilipendio alla nazione italiana di cui all’articolo 82 c.p.m.p. e rigetto nel resto;
udito il difensore, l’avvocato (OMISSIS) che conclude chiedendo l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza in data 8.5.2018, la Corte militare di appello di Roma confermava la sentenza del 25.10.2017, con la quale il Tribunale militare di Napoli aveva dichiarato (OMISSIS) colpevole del reato di vilipendio della Repubblica, aggravato ai sensi dell’articolo 81 c.p. e articolo 47 c.p.m.p., comma 1, n. 2, e lo aveva condannato alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione militare. Secondo i giudici del merito, il (OMISSIS), tenente di vascello pilota della Marina Militare Italiana, il 27.12.2015, dopo aver pubblicato, sul proprio profilo Facebook, una fotografia di una nave da guerra e la scritta “Fincantieri: collaborazione con l’India per sette fregate (OMISSIS)”, aveva commesso il reato scrivendo sulla pagina del suddetto profilo una frase che le sentenze avevano ritenuto di significato offensivo in danno dell’Italia, perche’ quest’ultima era stata indicata nel testo incriminato come uno “Stato di merda”.
2. I difensori dell’imputato hanno proposto ricorso per cassazione, con atto affidato a tre motivi.
2.1. Con il primo motivo di ricorso si deduce, richiamando l’articolo 606 c.p.p., comma 1 lettera b), c), e), violazione e falsa applicazione della legge penale, inosservanza di norme stabilite a pena di inutilizzabilita’, contraddittorieta’ e manifesta illogicita’ della motivazione con riguardo alla ritenuta sussistenza del delitto. Mancano sia l’elemento materiale, sia di quello psicologico del reato, previsto dall’articolo 81 c.p.m.p.. Quanto al primo elemento, nel ricorso si rileva: errata interpretazione dell’articolo 530 c.p.p., non essendo stata raggiunta la prova della paternita’ della frase incriminata; errata qualificazione del fatto quale vilipendio; sussistenza, nel comportamento, del requisito della continenza e mancanza del requisito della pubblicita’ del commento incriminato, data la mancanza di certezza circa la visione della frase da parte di terzi. Il giudice di primo grado ha utilizzato l’espressione “pressoche’ certo” nella motivazione della propria decisione, cioe’ termini che indicano un giudizio di non piena certezza sulla responsabilita’ dell’imputato. Inoltre, vi e’ stata errata applicazione della legge penale, perche’, attraverso la frase incriminata, non e’ stato vilipeso alcuno degli organi indicati dall’articolo 81 c.p.m.p., e cio’ determina la configurabilita’, eventualmente, dell’articolo 82 c.p.m.p., che riferisce il vilipendio, piu’ in generale, alla Nazione italiana. Quanto al secondo aspetto, nel ricorso si rileva la carenza dell’elemento psicologico del reato contestato, che richiederif la precisa volonta’ di vilipendio alla Repubblica. La frase incriminata soddisfa il requisito della continenza, in quanto vi e’ un chiaro riferimento alla vicenda dei maro’ italiani e alla connessione di essa con i rapporti economici tra l’India e un’azienda italiana.
2.2. Con il secondo motivo di ricorso si deduce, richiamando l’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b), violazione, inosservanza, erronea applicazione della legge penale con particolare riguardo agli articoli 181 e 191 c.p.p. e all’articolo 54 c.p. Non e’ condivisibile l’affermazione della Corte di merito, secondo la quale l’imputato avrebbe vilipeso la Repubblica. L’asserto del giudice di appello dipende dalla mancanza di un accertamento tecnico/strumentale volto proprio all’accertamento della paternita’ della frase.
2.3. Con il terzo motivo di ricorso si deduce, richiamando l’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b), violazione di legge in relazione all’articolo 51 c.p.. L’imputato non ha potuto esercitare il proprio diritto di difesa, perche’ non e’ stata svolta alcuna verifica per accertare la paternita’ della frase incriminata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il primo motivo di ricorso e’ manifestamente infondato.
1.1. Il reato di vilipendio della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e delle forze armate consiste nel disprezzare, tenere a vile, ricusare qualsiasi valore etico, sociale o politico alle istituzioni predette, considerate nella loro entita’ astratta ovvero concreta, ossia nella loro essenza ideale oppure quali enti concretamente operanti (Sez. 1, n. 1427 del 17/10/1977 – dep. 07/02/1978, Tatarella, Rv. 137859). L’elemento soggettivo del delitto di vilipendio della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e delle forze armate consiste nel dolo generico, con conseguente irrilevanza dei motivi particolari che possano aver indotto l’autore a commettere consapevolmente il fatto vilipendioso addebitato (Sez. 1, n. 6144 del 07/03/1979 – dep. 06/07/1979, Gatti, Rv. 142461). E’ stato chiarito, inoltre, che il diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero (articolo 21 Cost.) e, correlativamente, quello di associarsi liberamente in partiti politici (articolo 49 Cost.) per manifestare determinate ideologie, al fine di concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale, trovano un limite non superabile nella esigenza di tutela del decoro e del prestigio delle istituzioni, per cui l’uso di espressioni di offesa, disprezzo, contumelia costituisce vilipendio punibile ex articolo 290 c.p. (Sez. 1, n. 14226 del 29/06/1977 – dep. 11/11/1977, Venza, Rv. 137274). Il diritto di critica e libera manifestazione del pensiero supera il suo limite giuridico costituito dal rispetto del prestigio delle istituzioni repubblicane e decampa, quindi, nell’abuso del diritto, cioe’ nel fatto reato costituente il delitto di vilipendio, allorche’ la critica trascenda nel gratuito oltraggio, fine a se stesso (Sez. 1, n. 5864 del 01/02/1978 – dep. 19/05/1978, Salviucci, Rv. 139007). In riferimento al requisito di pubblicita’ del messaggio, la giurisprudenza della Corte di legittimita’ e’ ormai costante nel ritenere che la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca Facebook integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’articolo 595 c.p., comma 3, poiche’ trattasi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone (Sez. 1, n. 24431 del 24/04/2015 – dep. 08/06/2015, Rv. 264007).
1.2. I giudici del merito hanno tenuto conto dei principi di diritto sopra richiamati, qualificando correttamente il fatto giudicato e ravvisando il dolo. La Corte militare di appello ha spiegato che nelle espressioni rese dal (OMISSIS) con riguardo a una vicenda politica non si ravvisa il carattere di continenza. Il giudice di appello, alla luce del grado di tenente di vascello rivestito dal (OMISSIS), ha fatto riferimento, correttamente, al Codice dell’ordinamento militare, sottolineando che gli appartenenti alle forze armate possono commentare vicende politiche e di attualita’, ma senza travalicare i limiti della continenza. E’ priva di pregio la doglianza sollevata dalla difesa del (OMISSIS), secondo la quale l’utilizzo, nell’espressione incriminata, della parola Stato, avrebbe dovuto determinare una diversa qualificazione giuridica del fatto, riferibile al vilipendio alla Nazione italiana ai sensi dell’articolo 82 c.p.m.p.. In realta’, il commento del (OMISSIS) riguarda un articolo sui rapporti commerciali tra l’Italia e l’India, quindi non puo’ essere riferito alla Nazione, ossia alla comunita’ di individui, ma allo Stato, cioe’ al soggetto inquadrabile e riconoscibile proprio in quegli organi indicati dalla lettera dell’articolo 81 c.p.m.p., quali, ad esempio, il Governo e le Assemblee legislative. Il giudice di appello, inoltre, nel rispetto del principio sopra richiamato circa la pubblicita’ dei messaggi, e senza incorrere in vizi logici, ha correttamente evidenziato che non rileva il numero di visualizzazioni o interazioni che il post pubblicato dal (OMISSIS) su Facebook ha effettivamente avuto, in quanto e’ sufficiente la mera diffusione del messaggio sul social network affinche’ si possa ritenere sussistente il requisito della pubblicita’.
2. Il secondo motivo di ricorso e’ manifestamente infondato.
2.1. In ordine al rilievo con il quale il ricorrente ha lamentato la mancanza di un accertamento della paternita’ della frase incriminata, e’ opportuno precisare che, in tema di valutazione della prova indiziaria, il giudice di merito non puo’ limitarsi ad una valutazione atomistica e parcellizzata degli indizi, ne’ procedere ad una mera sommatoria di questi ultimi, ma deve, preliminarmente, valutare i singoli elementi indiziari per verificarne la certezza (nel senso che deve trattarsi di fatti realmente esistenti e non solo verosimili o supposti) nonche’ l’intrinseca valenza dimostrativa (di norma solo possibilistica); successivamente, deve procedere a un esame globale degli elementi certi, per verificare se la relativa ambiguita’ di ciascuno di essi, isolatamente considerato, possa in una visione unitaria risolversi, consentendo di attribuire il reato all’imputato al di la’ di ogni ragionevole dubbio, cioe’ con un alto grado di credibilita’ razionale, sussistente anche qualora le ipotesi alternative, pur astrattamente formulabili, siano prive di qualsiasi concreto riscontro nelle risultanze processuali ed estranee all’ordine naturale delle cose e della normale razionalita’ umana (Sez. 1, n. 1790 del 30/11/2017 – dep. 16/01/2018, Mangafic, Rv. 272056; Sez. 1, n. 20461 del 12/04/2016 – dep. 17/05/2016, P.C. in proc. Graziadei, Rv. 266941).
2.2. Cio’ posto, e’ agevole notare che il giudice di appello non e’ incorso in alcuna violazione di legge nel confermare la declaratoria di responsabilita’ penale del (OMISSIS). La motivazione resa segue un iter semplice, ma esaustivo, che ha condotto il giudice di merito a riconoscere l’imputato quale autore della frase incriminata. La Corte militare di appello non ricava il giudizio di responsabilita’ dell’imputato dalla dichiarazione del teste maresciallo Ascoli, bensi’ da una valutazione complessiva degli altri elementi, quali il fatto che il profilo Facebook ove era stata pubblicata la frase riportava nome e cognome dell’imputato, con l’aggiunta della parola “(OMISSIS)”, e la sua foto. L’elemento decisivo, per i giudici di merito, e’ stata, plausibilmente, la dichiarazione del teste maresciallo Dante, il quale, in passato, avendo notato una foto che lo ritraeva in compagnia del (OMISSIS) – pubblicata sullo stesso profilo Facebook ove fu pubblicata la frase incriminata – chiese al (OMISSIS) di rimuoverla; in tale occasione, rileva la sentenza di appello, il (OMISSIS) si scuso’ con il (OMISSIS), assicurandogli che avrebbe rimosso quella foto dal profilo del social network. E’ stato questo l’elemento determinante che ha indotto la Corte militare di appello ad affermare che il profilo ” (OMISSIS)” e’ riconducibile con certezza a (OMISSIS). Infatti, il giudice di merito evidenzia che, laddove il profilo Facebook ove era apparsa la foto che ritraeva il (OMISSIS) non fosse stata riferibile al (OMISSIS), quest’ultimo avrebbe certamente palesato, in quanto egli non titolare di quel profilo, l’impossibilita’ di eliminare la foto dal social network.
Questa Corte rileva la logicita’ e l’assenza di vizi nel percorso seguito dal giudice di merito per giungere alla decisione. Nel pieno rispetto della giurisprudenza sopra riportata, la Corte militare di appello ha valutato i vari elementi indiziari, prima separatamente, e poi attraverso una visione d’insieme che l’ha condotta all’accertamento della paternita’ della frase incriminata in capo al (OMISSIS) e alla conseguente affermazione della sua responsabilita’. Importante, nell’iter argomentativo seguito dalla Corte di merito, il rilievo che, qualora fosse stata vera la possibilita’ paventata dalla difesa di un accesso abusivo alla pagina Facebook dell’imputato, tale eventualita’ sarebbe stata sostenuta, con fermezza, non solo innanzi ai giudici di merito di entrambi i gradi di giudizio, ma, da subito, anche al cospetto dei propri sovraordinati. Cio’ dimostra come la Corte militare di appello abbia effettivamente preso in considerazione le ipotesi alternative – come la possibilita’ di un’intrusione abusiva nel profilo del (OMISSIS) – ritenendole, si’, astrattamente formulabili come richiesto dalla giurisprudenza di legittimita’, ma, comunque, prive di qualsiasi concreto riscontro nelle emergenze processuali.
3. E’ manifestamente infondato anche il terzo motivo di ricorso, volto a censurare la decisione del giudice di merito per presunta violazione del diritto di difesa che sarebbe derivata dal mancato accertamento della paternita’ della frase incriminata. Come sopra notato, il giudice del merito ha operato correttamente nell’accertare gli elementi di fatto rilevanti per la decisione e, soprattutto, nell’applicare i principi sulla valutazione degli elementi indiziari a disposizione. Per quanto attiene alla tematica del preteso esercizio di un diritto, rilevante ai sensi dell’articolo 51 c.p. quale causa di giustificazione, e’ sufficiente rimandare a quanto gia’ evidenziato con riguardo al requisito della continenza: le valutazioni del giudice di merito circa il travalicamento, nell’espressione usata dal (OMISSIS), dei confini tipici della critica politica a cui sono sottoposti tanto i comuni cittadini, quanto, in maniera piu’ accentuata, gli appartenenti alle forze armate come il (OMISSIS), si pone ampiamente nel solco della giurisprudenza di legittimita’.
4. In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Ai sensi dell’articolo 616 c.p.p., il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila alla Cassa delle ammende, non essendo dato escludere – alla stregua del principio di diritto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000 – la sussistenza dell’ipotesi della colpa nella proposizione dell’impugnazione.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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