cassazione 8

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE I

SENTENZA 15 aprile 2016, n.15774

Ritenuto in fatto e considerato in diritto

Nel corso della mattinata del 6 luglio 2010 all’interno del bagagliaio di una BMW distrutta dalle fiamme veniva rinvenuto il cadavere carbonizzato di una donna identificata in seguito in D.D.R. . Le indagini consentivano di acquisire indizi a carico di M.N. , soggetto pregiudicato e noto alle forze dell’ordine, il quale veniva sottoposto a misura cautelare della custodia in carcere, misura annullata dal Tribunale del riesame e dallo stesso tribunale confetniata, in data 15.3.2011, in seguito all’annullamento della prima ordinanza da parte della Corte di Cassazione. L’imputato, dopo iniziali proteste di innocenza, in data 28 maggio 2011 rendeva dichiarazioni confessorie, riferendo di essersi recato con l’autovettura della D.D. in un bosco dove aveva detto alla vittima di aver occultato il denaro che la stessa aveva prestato a Ma.Lu. , sindaco di (OMISSIS) , di avere, una volta qui giunti, litigato con la D.D. perché in realtà non in possesso della somma che si era impegnato a recuperare, che il litigio era degenerato e che per questo aveva aggredito la donna con un coltello colpendola 4 o 5 volte, che aveva poi trascinato la vittima per caricarla nel bagagliaio, di essersi quindi recato a casa sua, là vicino, per prendere un bidone di benzina con la quale dare fuoco all’automezzo, di aver dato corso al suo intendimento dopo aver spogliato la vittima dei gioielli indossati e dell’orologio. Il prevenuto, ripetutamente interrogato dal P.M. sulla circostanza se la vittima fosse morta quando era andato a prendere il combustibile, rispondeva di non essere in grado di dirlo. Nel corso dell’interrogatorio l’imputato accusava altresì il Ma. di averlo indotto ad eliminare la D.D. per non pagare il suo debito con la stessa e dividersi il denaro e l’oro della vittima.

Sulla base dei fatti in tal guisa ricostruiti, a carico dell’imputato venivano contestati i reati di omicidio aggravato ai sensi dell’art. 577 n. 4 c.p. (capo A), di occultamento di cadavere ai sensi dell’art. 412 c.p. (capo B), di furto dei gioielli sottratti alla vittima ai sensi dell’art. 624 c.p. (capo C), di detenzione illegale di una carabina rinvenuta nel corso della perquisizione della sua abitazione (artt. 2 e 7 l. 895/1967, capo D), di calunnia in danno di Ma.Lu. (art. 368 c.p., capo E) ed all’esito del giudizio di primo grado, svoltosi nelle forme del giudizio abbreviato, il GIP del Tribunale di Biella lo condannava alla pena di trent’anni di reclusione oltre alle sanzioni accessorie previste dalla legge ed alle statuizioni in favore delle pp.cc. costituite.

Il giudice di prime cure, sulla base delle dichiarazioni confessorie dell’imputato, degli accertamenti di P.G. sui luoghi in cui si consumarono i fatti di causa e delle risultanze dell’esame autoptico, giudicate tra loro compatibili, riteneva accertato che la vittima fu colpita violentemente al capo ed al torace con pugni ovvero con un corpo contundente, che al momento in cui venne caricata nel bagagliaio della sua autovettura era ancora viva e che la morte fu cagionata dall’aspirazione del monossido di carbonio provocata dall’incendio dell’autovettura.

Secondo il GUP, pertanto, l’imputato era consapevole, al momento di appiccare il fuoco, che la vittima era ancora viva dappoiché non credibile che il suo corpo non avesse dato segni di vitalità, quali rantoli e difficoltà respiratorie indotte dal copioso sanguinamento rilevato in loco. Rilevanti in tal senso sono state poi valutate dal giudice di prima istanza le dichiarazioni rese dal prevenuto il 28.5.2011, quando ha confessato: ‘non posso dire in coscienza se R. fosse morta, non ho controllato. Non si muoveva più’.

Riteneva infine il GUP provati i reati contestati unitamente all’omicidio, di giustizia la pena come innanzi inflitta, con pena base individuata nell’ergastolo e pene complessive a titolo di continuazione comunque inferiori ad anni cinque di reclusione.

Con l’appello l’imputato chiedeva di qualificare il reato sub a) come violazione degli artt. 83 e 586 c.p. con esclusione della circostanza aggravante della crudeltà, assumeva che l’imputato era certo di aver ucciso la donna con le coltellate quando la ripose nel bagagliaio, sosteneva che comunque non risultava provato il contrario e che l’imputato aveva sempre sostenuto che non intendeva uccidere ma cagionare lesioni, rilevava che la rappresentazione dei fatti deponeva per uno stato della vittima tale da giustificare l’errore dell’imputato sulla intervenuta sua uccisione all’esito dell’aggressione. Di qui le conclusioni difensive secondo cui la condotta antecedente all’incendio dell’autovettura andrebbe inquadrata nello schema del tentato omicidio, in caso contrario non compatibile comunque con la contestazione di cui al capo B). Eccepiva quindi la difesa appellante la improcedibilità dell’azione penale per il reato di furto, in assenza di querela, e si doleva del mancato riconoscimento delle attenuanti generiche.

La Corte di assise di appello di Torino, con sentenza del 12 giugno 2014, in parziale riforma di quella impugnata, dichiarava l’improcedibilità dell’azione penale in relazione al reato di furto (capo C) della rubrica) per difetto di querela e confermava nel resto la decisione di prime cure ulteriormente statuendo sulle spese processuali in favore delle pp.cc..

La corte territoriale richiamava dapprima gli esiti dell’esame autoptico, secondo i quali la vittima, colpita con pugni e con un corpo contundente, era ancora viva al momento in cui venne data alle fiamme l’autovettura nel cui bagagliaio era stata riposta, per poi annotare che tali conclusioni erano in contrasto con la confessione dell’imputato, il quale ha sempre dichiarato di aver colpito la vittima con coltellate plurime, dichiarazioni da ritenersi per i giudici di secondo grado non veritiere perché non trovato il coltello e smentite le stesse dall’esame autoptico che non ha rinvenuto segni di accoltellamento. Di qui ha poi tratto la corte di merito la deduzione che la natura delle lesioni cagionate rende incompatibile l’ipotesi che il M. , a cagione di esse, abbia creduto morta la vittima, circostanza questa comunque posta in dubbio dallo stesso prevenuto, il quale ha sempre affermato di non poter dire che di essa era certo al momento in cui appiccava il fuoco, di guisa che la conclusione da trarre è che l’imputato agì nella seconda fase, quella dell’incendio, per rendere più arduo il ritrovamento del corpo della vittima, l’accertamento dei fatti e di provocarne la morte se non ancora intervenuta nella prima fase. Valorizza poi la corte territoriale il proprio convincimento valorizzando le circostanze che l’imputato fu a lungo a contatto con il corpo della D.D. , trasportata dal posto guida al bagagliaio e qui caricata, e si adoperò per privarla di numerosi monili (vari anelli, collana, orecchini, braccialetto ed orologio), condotte queste che, per il tempo e la natura delle lesioni cagionate, non poterono non rendere palese la vitalità della vittima in quei momenti.

Su tali premesse concludeva la corte ribadendo la correttezza della qualificazione giuridica data alla condotta dell’imputato con la contestazione in atti, ribadendo nel contempo la immeritevolezza delle attenuanti generiche chieste dalla difesa.

Impugna per cassazione la sentenza di secondo grado l’imputato, assistito dal difensore di fiducia, il quale nel suo interesse sviluppa due motivi di ricorso.

4.1 Col primo di essi denuncia la difesa ricorrente violazione di legge sulla qualificazione giuridica dei fatti di reato contestati ai capi A) e B) ed omessa applicazione degli artt. 83 e 586 c.p., in particolare argomentando: la fattispecie in esame coincide con due noti casi dei quali in, precedenza si è occupato il giudice di legittimità, quello giudicato con sentenza del 2 maggio 1988, sez. I, imp. Auriemma e quella di cui alla sentenza 16976 del 18.3.2003, sempre sez. I; nella prima delle citate pronunce la suprema corte ha affermato che se taluno, convinto di aver cagionato la morte di una persona con una precedente condotta dolosa, ne occulti il cadavere e la morte si verifichi come conseguenza dell’azione di occultamento, egli risponderà di tentato omicidio e di omicidio colposo in concorso reale tra di loro, mentre nella seconda, nella quale è stata elaborata la c.d. teoria del ‘dolo colpito a mezza via dall’errore’, la corte di legittimità è pervenuta alle medesime conclusioni sul presupposto, in fatto, di un evento presuntivamente verificatosi e successivamente realizzatosi su tale erroneo presupposto per ulteriori comportamenti ad esso collegati; in altra pronuncia, successiva, la n. 12466 del 2007, ha invece la corte suprema affermato il principio secondo cui, se l’agente è incerto sulla produzione dell’evento letale e le manovre di occultamento sono idonee a cagionare la morte, non ancora sopravvenuta, il decesso successivo va imputato a titolo di dolo alternativo di omicidio; deve pertanto ritenersi che la giurisprudenza di legittimità abbia aderito al principio secondo cui, quando la condotta dell’agente sia consapevolmente diretta ad uccidere, ma l’evento non si verifichi per tale condotta ma per altra, successiva, consumata dallo stesso agente nella convinzione che l’evento morte si sia invece già verificato, l’errore in itinere del dolo comporta che l’omicidio non può essere imputato a tale titolo ma di colpa e la condotta precedente, quella per la quale l’agente ebbe ad erroneamente ritenere di aver raggiunto lo scopo voluto della morte della vittima, a titolo di tentato omicidio in concorso reale con l’ipotesi colposa; la premessa per evidenziare che, in ipotesi siffatte, ai fini di una corretta qualificazione dei fatti di causa, è fondamentale ed imprescindibile valutare l’elemento psicologico del reato; il caso che ci occupa è del tutto analogo a quello giudicato dalla corte di legittimità nel 2003; l’imputato ha confessato di aver colpito la vittima, portata in luogo isolato in un bosco, con un coltello tipo ‘pattada’ e, pensando di averne cagionato la morte, di averne occultato il cadavere, per errore ritenuto tale, nel bagagliaio dell’autovettura dandovi fuoco; le risultanze dell’autopsia confermano la versione dell’imputato e non permettono di affermare con certezza che il M. non si sia accorto della vitalità della D.D. al momento in cui cercò di occultarne il corpo; il M. , rendendo la sua versione confessoria, ha dichiarato che sua intenzione era quella di cagionare lesioni e non già di uccidere, circostanza questa che conferma la mancanza della sua volontà omicida per combustione; il M. , dopo la prima azione violenta, ritenne che la vittima fosse ormai priva di vita, e questa, la vittima, non dava alcun segno evidente di vitalità; come riferito dall’imputato, essa perdeva sangue, non si muoveva più e non vi fu un suo controllo sulla eventuale vitalità della povera donna, che comunque appariva inanimata; a conferma della tesi difensiva concorre l’interrogatorio del 14.6.2011, nel corso del quale l’imputato ha parlato della sua intenzione di sbarazzarsi del cadavere, della sua intenzione di gettare la macchina nel lago e della decisione di appiccarvi invece il fuoco perché il bagagliaio non si chiudeva; da qui le conferme alla ricostruzione difensiva, l’uso della parola ‘cadavere’, il fuoco appiccato non già per uccidere ma per cancellare ogni traccia; la stessa contestazione, inoltre, conferma la tesi difensiva, giacché, se accusato di aver occultato il cadavere, ciò presuppone che l’imputato, per lo stesso P.M., avesse a che fare con un corpo senza vita e non già con una vittima ancora in vita finita con il fuoco appiccato; la versione del M. è coerente con gli accertamenti eseguiti e con lo svolgersi dell’azione delittuosa; il prevenuto lasciò la vittima esanime ed andò a procurarsi la tanica di benzina e questo nella certezza che fosse ormai priva di vita, per poi trasportare il corpo della donna in una zona più appartata del bosco e qui completare l’intento criminale; nella fattispecie concreta giudicata col precedente evocato nei giudizi di merito, Cass. Sez. 1, n. 631 del 7.12.2006, i fatti sono decisivamente diversi da quelli in esame e da quelli di cui alle evocate pronunce del 1988 e del 2003, perché in essa la vittima del pestaggio fu trasportata in braccio verso il luogo ove poi annegò, di guisa che il contatto prolungato col corpo vitale non poteva non comportare la consapevolezza della sua perdurante vitalità e su tale presupposto è stata poi adottata la decisione; la tesi difensiva ha trovato conferma anche in un ulteriore precedente della suprema corte, in sez. 1, 21.2.2007, n. 12466, nella quale si legge una nuova conferma della tesi del dolo colpito a mezza via dall’errore; per essa (tesi) occorre distinguere azioni plurime, frazionate nel tempo anche se immediatamente consecutive l’una all’altra, ma differenziate quanto all’offesa del bene giuridico protetto e quanto alla rispettiva efficacia causale; questo per distinguere il dolo di un delitto rimasto allo stadio del tentativo, per la prima fase della condotta giacché non verificatosi l’evento perseguito, e la colpa per l’evento in concreto poi realizzatosi con una successiva condotta che si pone come immediato e diretto fattore eziologico dell’evento cagionato.

4.2 Col secondo motivo di impugnazione denuncia invece la difesa ricorrente violazione dell’art. 62-bis c.p. sul rilievo che le attenuanti generiche risultano negate per la brutalità della condotta, per i precedenti penali, per il comportamento processuale; in realtà l’imputato ha comunque confessato l’omicidio ed ha fornito agli inquirenti informazioni utili per il recupero dei gioielli sottratti alla vittima e per chiarire adeguatamente la vicenda; in realtà la confessione del 28.5.2011 deve essere vista nel contesto di un quadro per nulla chiarito ed ancora assai incerto, nel cui contesto l’imputato non intendeva accusare terze persone attesa la ricostruzione puntuale dell’accaduto; la gravità del delitto commesso non deve essere di ostacolo alla concessione delle invocate attenuanti e per esse ha il giudice ampia discrezionalità di utilizzare dati, fatti ed argomenti.

Il ricorso è infondato.

5.1 La difesa ricorrente fonda il primo e più importante motivo di doglianza sul rilievo che l’imputato, al momento di appiccare il fuoco all’autovettura di proprietà della vittima nel cui bagagliaio ne aveva caricato il corpo esanime, non era consapevole che la stessa fosse viva, perché convinto di averla uccisa con le pugnalate in precedenza inferte durante il litigio tra loro intervenuto. Su tali presupposti in fatto deduce poi la stessa difesa l’applicabilità alla fattispecie della c.d. tesi del ‘dolo colpito a mezza via dall’errore’, sviluppata da Cass., sez. I, 18.3.2003, n. 16976, rv. 224153, ma già in precedenza affermata da Cass., sez. I, 2.5.1988, n. 10535, rv. 179560, imp. Auriemma, in casi per la difesa analoghi a quello in esame. In essi i giudici di legittimità, come chiarito in ricorso, hanno distinto la fase della condotta finalizzata ad uccidere con l’evento non prodottosi e quella della condotta finalizzata alla soppressione del corpo creduto erroneamente senza vita, viceversa risultata poi causa diretta della morte. In tali casi, rammenta ancora la difesa, concorrerebbero, secondo il superiore insegnamento, il reato di tentato omicidio e quello di omicidio colposo.

La tesi difensiva, come di palese evidenza, assume in fatto presupposti la cui ricorrenza è stata motivatamente esclusa dai giudici di merito.

In primo luogo i giudici territoriali hanno ritenuto, sulla base delle conclusioni dell’esame medico-legale sul quale la difesa dell’imputato non ha svolto censure, che la vittima non fu accoltellata, ma venne colpita con pugni e con un corpo contundente. Per i giudici dell’appello, inoltre, l’imputato era consapevole che la vittima caricata nel bagaglio fosse ancora in vita, giacché, per un verso, la stessa non era stata affatto accoltellata ripetutamente come appena detto e giacché poi, per stessa ammissione del prevenuto, la donna era stata trasportata dal posto guida, dove si trovava, all’altezza del bagagliaio e qui caricata, non prima però di essere stata privata di una collana, di un orologio, di un bracciale e di vari anelli, circostanze queste per le quali, per i giudici di merito, che sul punto esprimono un giudizio in fatto logicamente formulato, non può ragionevolmente sostenersi che l’imputato non si avvide della vitalità del corpo che trasportava a mano e che meticolosamente spogliava di ogni avere. In ipotesi del tutto analoga Cass, sez. I, n. 631 del 07/12/2006 Rv. 236560, ha avuto modo di affermare che è configurabile il dolo omicidiario nella condotta dell’agente che, dopo avere ripetutamente colpito con calci, pugni e un corpo contundente parti vitali del corpo della vittima, la trasporti sino a una spiaggia, per ivi abbandonarla bocconi sulla battigia in condizione di mare mosso che ne determinano l’annegamento. (In motivazione la Corte ha osservato che lo stretto contatto con il corpo della vittima – dopo che questa aveva perso conoscenza in conseguenza delle gravi lesioni subite costituenti concausa dell’evento letale – nella fase del trasporto e del trascinamento sino alla riva del mare aveva consentito all’imputato di percepire estremi segni di perdurante vitalità della vittima, che decedeva per asfissia da annegamento, con la conseguenza che anche quest’ultimo atto doveva ritenersi sorretto da dolo omicidiario, quanto meno nella forma del dolo eventuale). E tornando al caso in esame giova sottolineare che la difesa ricorrente nulla ha obbiettato sull’argomentare in tali sensi della corte territoriale.

Eppertanto, se è accertato che l’imputato colpì la vittima non già con un pugnale ma a mani nude e con un corpo contundente, se l’imputato stesso si rese conto di non aver ucciso la donna ma di averla semplicemente costretta all’impotenza facendole perdere i sensi a cagione delle gravissime lesioni comunque provocatole, se ancora l’imputato appiccò il fuoco mentre la vittima era ancora in vita, non può dubitarsi, da un lato, della legittimità della decisione presa in relazione alla contestazione mossa con l’azione penale, quella di omicidio volontario sostenuto dal dolo diretto e, per altro verso, che non risultano accertate le circostanze di fatto necessarie per sorreggere il sillogismo logico della difesa.

Appare infine opportuno annotare che la evidenziata ricostruzione dei fatti accreditata dai giudici territoriali non ha ricevuto alcuna critica da parte della difesa ricorrente, se non attraverso la mera contrapposizione di una ricostruzione alternativa.

5.2 Rimane da dire circa il rilievo, questo viceversa fondato, della incompatibilità logica e giuridica di ritenere ricorrente il reato omicidiario nei termini appena detti in uno con quello di cui all’art. 412 c.p., che va di conseguenza annullato senza rinvio ferma restando il regolamento sanzionatorio indicato dalla sentenza impugnata, giacché ininfluente l’espunzione del reato detto. Per la continuazione, infatti, a fronte di una pena base fissata nell’ergastolo, i giudici territoriali hanno mantenuto la pena al di sotto del limiti di anni cinque di reclusione.

5.2 Manifestamente infondato è poi il secondo motivo di doglianza. Ai fini dell’applicabilità o del diniego delle circostanze attenuanti generiche infatti, assolve all’obbligo della motivazione della sentenza il riferimento alla gravità dei fatti giudicati ed ai precedenti penali dell’imputato, ritenuti di particolare rilievo come elementi concreti della di lui personalità, nonché al suo comportamento processuale, non essendo affatto necessario che il giudice di merito compia una specifica disamina di tutti gli elementi che possono consigliare o meno una particolare mitezza nell’irrogazione della pena (Cass., Sez. V, 06/09/2002, n.30284; Cass., Sez. II, 11/02/2010, n. 18158).

5.3 Gli esiti del giudizio di legittimità giustificano infine la condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali in favore della parte civile costituita, liquidate come da dispositivo.

P.T.M.

la Corte, annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui all’art. 412 c.p. perché assorbito nel capo A), ferma la pena inflitta. Rigetta nel resto il ricorso e condanna il ricorrente a rimborsare alla parte civile V.M. le spese sostenute per questo giudizio che liquida in euro 4.000,00 oltre accessori di legge

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *