Procedimentalizzazione del provvedimento datoriale di messa in mobilità

Corte di Cassazione, sezione lavoro, Sentenza 23 gennaio 2019, n. 1852.

La massima estrapolata:

La procedimentalizzazione del provvedimento datoriale di messa in mobilità, qualificata dalla devoluzione alle parti sociali di un controllo preventivo sulla ricorrenza delle ragioni sottese alla procedura di riduzione del personale, consente in ogni caso al giudice di accertare l’intento elusivo del datore di lavoro che ha fatto ricorso alla procedura di licenziamento collettivo, ammettendo la possibilità di espletare un accertamento di fatto dell’intera vicenda del licenziamento, dalla quale l’intento elusivo e/o la simulazione della cessazione di attività aziendale può essere desunta.

Sentenza 23 gennaio 2019, n. 1852

Data udienza 5 dicembre 2018

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente

Dott. CURCIO Laura – Consigliere

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere

Dott. LEONE Margherita Maria – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso 4942/2017 proposto da:
FALLIMENTO (OMISSIS) S.P.A., IN LIQUIDAZIONE in e.p., in persona dei Curatori pro tempore, elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentato e difeso dall’avvocato (OMISSIS);
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 8416/2016 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 16/12/2016 R.G.N. 2487/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/12/2018 dal Consigliere Dott. MATILDE LORITO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELESTE Alberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato (OMISSIS) per delega verbale Avvocato (OMISSIS);
udito l’Avvocato (OMISSIS) per delega Avvocato (OMISSIS).

FATTI DI CAUSA

La Corte d’Appello di Napoli, in riforma della pronuncia del Tribunale della stessa sede, accoglieva la domanda proposta da (OMISSIS) volta a conseguire la declaratoria di illegittimita’ del licenziamento intimato in data 29/10/2014 ai sensi della L. n. 223 del 1991, articoli 4 e 24, dalla s.p.a. (OMISSIS) in liquidazione, successivamente dichiarata fallita con sentenza – n. 326/2015 del 22/12/2015, dichiarando l’incompetenza per materia del giudice del lavoro sulle domande di condanna al pagamento delle somme rivendicate in conseguenza della illegittimita’ del recesso.
La Corte distrettuale perveniva a tali conclusioni, in estrema sintesi, muovendo dal rilievo che dal composito quadro istruttorio di natura testimoniale e documentale delineato, era emersa in guisa inequivoca una serie di indizi gravi, precisi e concordanti circa la volonta’ della societa’ di protrarre l’attivita’ anche successivamente alla chiusura della procedura di licenziamento collettivo.
Si era al cospetto di una riduzione, sia pur sensibile, della attivita’ produttiva, che era quindi, continuata, inducendo la societa’ a riassumere con contratti a termine alcuni lavoratori gia’ licenziati e ad assumerne altri, per rispettare entro le scadenze previste gli impegni produttivi assunti nel periodo settembre-ottobre 2014.
Le acquisizioni probatorie definivano, dunque, in termini simulatori la prospettata cessazione della attivita’ produttiva, con evidenti ricadute sul piano della regolarita’ della procedura di licenziamento e della sua legittimita’.
In mancanza di una effettiva dismissione della attivita’, si imponeva il rispetto della cadenza procedimentale di cui alla L. n. 223 del 1991, con individuazione dei criteri di scelta del personale da espungere dall’assetto organizzativo aziendale, secondo modalita’ rimaste, tuttavia, nella specie, inattuate.
Avverso tale decisione il Fallimento (OMISSIS) in liquidazione interpone ricorso per cassazione sostenuto da cinque motivi.
Resiste con controricorso la parte intimata. Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.Con il primo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, articoli 4, 5 e 24, L. n. 183 del 2010, articolo 30, e articolo 41 Cost., in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Ci si duole che i giudici del gravame, invece di limitare il proprio scrutinio al profilo procedurale dell’operazione di riduzione del personale attuata, entro i limiti tracciati dai consolidati dicta della giurisprudenza di legittimita’, abbiano esteso il controllo giudiziale al merito delle valutazioni tecniche, organizzative e produttive riservate esclusivamente al datore di lavoro.
Si stigmatizza la sentenza impugnata per aver travalicato i limiti della insindacabilita’ delle esigenze tecnico-organizzative poste a base dei licenziamenti collettivi, entrando nel merito della scelta della societa’ di cessare l’attivita’ produttiva e vagliandone l’effettivita’, sulla base dei comportamenti posti in essere dalla societa’ successivamente alla avvenuta cessazione di attivita’.
2. Il secondo motivo concerne la violazione o falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, articolo 8, comma 1 e 2, L. n. 264 del 1949, articolo 15, comma 6, in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Si prospetta l’erronea esegesi del comportamento datoriale successivo alla chiusura della procedura di mobilita’ e qualificato in termini di non coerenza con la asserita cessazione della attivita’, per non avere la Corte di merito considerato che le disposizioni di legge enunciate sancivano un vero e proprio diritto di precedenza dei lavoratori licenziati per riduzione di personale, nella riassunzione presso la medesima azienda, entro il termine di sei mesi, diritto che rinveniva sostanziale conferma anche in seguito alla entrata in vigore della L. n. 92 del 2012, che all’articolo 4, comma 12, alla cui stregua “gli incentivi non spettano se l’assunzione costituisce attuazione di un obbligo preesistente, stabilito da norme di legge o dalla contrattazione collettiva”.
3. Con la terza critica e’ denunciato omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Si lamenta che la Corte distrettuale abbia omesso di considerare che la limitata attivita’ di commercializzazione e di assistenza svolta dalla societa’ era inscritta nell’ambito dell’esercizio provvisorio L. Fall., ex articolo 104, in cui versava l’azienda, oltre che della presentazione dell’istanza per “concordato preventivo” ex articolo 186 bis, (prima ammesso e poi revocato), ed era coerente con le richiamate disposizioni oltre che con l’affermata cessazione della attivita’ posta a base dei licenziamenti.
Le limitate prospettive di continuita’ aziendale, circoscritte alla attivita’ di commercializzazione del prodotto finito, di cui alla proposta per il piano concordatario presentata al giudice per la tutela dei creditori, si ponevano in linea con i contenuti di cui alla informativa sindacale oggetto di comunicazione L. n. 223 del 1991, ex articolo 4, e con la effettiva cessazione della attivita’ produttiva preesistente alla procedura di licenziamento.
Anche la circostanza, rilevata dai giudici del gravame, concernente la avvenuta presentazione dell’istanza per l’ulteriore rinnovo della concessione per il periodo 1/1-31/12/2016, lungi dall’essere in contrasto con la cessata attivita’ aziendale, andava letta nell’ottica di una finalizzazione alla sola commercializzazione di quanto gia’ esistente in azienda.
4. Con il quarto motivo si denuncia violazione e/o falsa applicazione degli articoli 2727 e 2729 c.c. 1949 in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Si censura la statuizione con la quale i giudici del gravame, dopo aver esaminato la documentazione prodotta, hanno inferito l’evidenza di una effettiva prosecuzione dell’attivita’ produttiva non solo durante la procedura, ma anche successivamente alla sua chiusura.
Si deduce che i fatti sui quali la Corte di merito ha basato il proprio ragionamento deduttivo ex articolo 2727 c.c., non rappresentano affatto quegli indizi gravi, precisi e concordanti che solo consentono al giudice di far ricorso alla presunzione quale mezzo di prova.
5. La quinta censura attiene alla violazione o falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, articolo 5, articolo 1441 c.c., e articolo 414 c.p.c. 1949 in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Si critica la statuizione con la quale e’ stata disposta la reintegra, del lavoratore. Si deduce che la sanzione della invalidita’ dei licenziamenti sussisterebbe solo in caso di criteri di scelta adottati in violazione di legge o in difformita’ rispetto alle previsioni legali o collettive e non anche, come nella specie, nel caso di loro omissione. Ed il lavoratore, di tanto onerato, non avrebbe dimostrato la violazione dei criteri di scelta legali e convenzionali dalla quale, peraltro, neanche avrebbe dimostrato di aver subito un danno effettivo.
6. I motivi, che possono congiuntamente trattarsi per presupporre la soluzione di questioni giuridiche connesse, vanno disattesi.
Talune considerazioni di ordine generale si impongono in relazione alla specificita’ dell’intervento legislativo del 1991, volto a dare un preciso quadro di riferimento legale ad una materia per l’innanzi affidata esclusivamente alla regolazione contrattuale e giurisprudenziale, secondo la lettura che del nuovo contesto normativo ha progressivamente offerto la giurisprudenza di questa Suprema Corte.
A tal riguardo, puo’ dirsi ormai acquisita l’affermazione che, dopo l’entrata in vigore della L. n. 223 del 1991, il licenziamento collettivo costituisce’ un istituto autonomo, che si caratterizza, con riferimento alle imprese aventi una determinata base occupazionale, essenzialmente per la presenza di requisiti quantitativi e spaziali, oltre che per la finalizzazione della procedura, attraverso il controllo preventivo di soggetti pubblici e collettivi, ad un equilibrato contemperamento fra la tutela dell’occupazione e il soddisfacimento dell’esigenza che le imprese possano dimensionare la struttura aziendale in termini compatibili con la necessita’ della sopravvivenza e della crescita (vedi Cass. 23/6/2006 n. 14638, Cass. 23/3/2004 n. 5794, Cass. 6/7/2000 n. 9045).
Nell’ottica descritta, e’ stato piu’ volte affermato che la scelta dell’imprenditore di cessare l’attivita’ costituisce esercizio incensurabile della liberta’ di impresa garantita dall’art.41 Cost., con la conseguenza che la procedimentalizzazione dei licenziamenti collettivi che ne derivano, secondo le regole dettate per il collocamento dei lavoratori in mobilita’ dalla L. 23 luglio 1991, n. 223, articolo 4, applicabili per effetto dell’articolo 24 della stessa legge, e in particolare l’obbligo di comunicazione dei motivi della scelta, ha la sola funzione di consentire il controllo sindacale sulla effettivita’ della scelta medesima, allo scopo di evitare elusioni del dettato normativo concernente i diritti dei lavoratori alla prosecuzione del rapporto nel caso in cui la cessazione dell’attivita’ dissimuli la cessione dell’azienda o la ripresa dell’attivita’ stessa sotto diversa denominazione o in diverso luogo, ma non consentono che vengano prospettati in concreto rimedi che possano evitare la collocazione in mobilita’ che non siano la prosecuzione da parte dell’imprenditore del rischio di impresa, divenuto insostenibile, alla quale, stante la volonta’ contraria dell’interessato, osta l’articolo 41 Cost. (vedi ex plurimis, Cass. 22/3/2004 n. 5700),
Nel pervenire a tali approdi ed in sintonia con le generali acquisizioni dottrinarie sulla tematica delibata, e’ stato sostenuto che in materia di licenziamenti collettivi per riduzione del personale la L. n. 223 del 1991, nel prevedere agli articoli 4 e 5, la puntuale, completa e cadenzata procedimentalizzazione del provvedimento datoriale di messa in mobilita’, ha introdotto un significativo elemento innovativo consistente nel passaggio dal controllo giurisdizionale, esercitato “ex post” nel precedente assetto ordinamentale, ad un controllo dell’iniziativa imprenditoriale, concernente il ridimensionamento dell’impresa, devoluto “ex ante” alle organizzazioni sindacali, destinatarie di incisivi poteri di informazione e consultazione secondo una metodica gia’ collaudata in materia di trasferimenti di azienda. I residui spazi di controllo devoluti al giudice in sede contenziosa non riguardano piu’, quindi, gli specifici motivi della riduzione del personale (a differenza di quanto accade in relazione ai licenziamenti per giustificato motivo obiettivo) ma la correttezza procedurale dell’operazione, con la conseguenza che non possono trovare ingresso in sede giudiziaria tutte quelle censure con le quali, senza contestare specifiche violazioni delle prescrizioni dettate dai citati articoli 4 e 5, e senza fornire la prova di maliziose elusioni dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali e delle procedure di mobilita’ al fine di operare discriminazioni tra i lavoratori, si finisce per investire l’autorita’ giudiziaria di un’indagine sulla presenza di o’ “effettive” esigenze di riduzione o trasformazione dell’attivita’ produttiva (vedi, per tutte, Cass. 12/10/1999 n.11455, Cass. 6/10/2006 n. 21541, Cass. 3/3/2009 n. 5089).
La qualificazione del licenziamento in base al progetto di riduzione del personale con effetti sociali rilevanti comporta quindi, in attuazione dell’art.41 Cost., che l’imprenditore sia vincolato non nell’an della decisione ma nel quomodo, essendo obbligato allo svolgimento della procedura di cui all’articolo 4, che si risolve in una procedimentalizzazione del potere di recesso, il cui titolare e’ tenuto non piu’ a mere consultazioni, ma a svolgere una vera e propria trattativa con i sindacati secondo il canone della buona fede; l’operazione imprenditoriale diretta a ridimensionare l’organico si scompone, poi, nei singoli licenziamenti, ciascuno giustificato dal rispetto dei criteri di scelta, legali o stabiliti da accordi sindacali, ma entro una cerchia di soggetti delimitati dal “nesso di causalita’”, ossia dalle esigenze tecnico-produttive ed organizzative (arg. ex articolo 5, comma 1, primo periodo); corrispondendo l’ambito del controllo giudiziale, ai due livelli descritti, l’uno collettivo-procedurale, l’altro individuale – causale, cui e’ estranea, come detto, la verifica dell’effettivita’ delle ragioni che giustificano la riduzione di personale.
Posti tali principi, da intendersi quale strumento ermeneutico fondamentale per una corretta indagine della materia, va rimarcato che in ogni caso, secondo i richiamati dicta giurisprudenziali, anche la cadenzata procedimentalizzazione del provvedimento datoriale di messa in mobilita’, qualificata dalla devoluzione alle parti sociali di un controllo preventivo sulla ricorrenza delle ragioni sottese alla procedura di riduzione del personale (vedi Cass. cit. n.11455/1999), consente che il giudice possa accertare l’intento elusivo del datore di lavoro laddove abbia fatto ricorso alla procedura di licenziamento collettivo, ammettendo la possibilita’ di espletare un accertamento di fatto dell’intera vicenda del licenziamento, dalla quale l’intento elusivo puo’ essere desunto (vedi ex aliis, Cass. 19/4/2003 n.6385).
Orbene, la pronuncia impugnata, nell’espletare il doveroso scrutinio in ordine alla sussistenza dei presupposti relativi alla legittimita’ del licenziamento collettivo de quo, pervenendo all’accertamento di un intento elusivo per l’insussistenza del nesso di causalita’ tra il pro’gettato ridimensionamento del personale ed il provvedimento di recesso, si o’e’ collocata nel solco del ricordato insegnamento.
Come fatto cenno nello storico di lite, la Corte distrettuale, all’esito di un’approfondita ricognizione del materiale probatorio acquisito, ha rimarcato come la societa’ – perdurante la procedura di mobilita’ – nel periodo settembre-ottobre 2014 avesse acquisito ulteriori commesse, nella ovvia consapevolezza di doverle ultimare, appaltando parte dei lavori a ditte esterne subito dopo la chiusura della procedura di mobilita’, e riassumendo parte dei lavoratori in precedenza occupati; e cio’ in epoca anteriore sia alla presentazione dell’istanza di ammissione alla procedura di concordato preventivo (settembre 2015), che alla declaratoria di fallimento del dicembre 2015, che all’esercizio provvisorio dell’impresa, autorizzato nel 2016.
Sulla scorta di tali rilievi in fatto, congruamente motivati ed insindacabili in questa sede di legittimita’, e’ pervenuta ad un argomentato giudizio, in diritto, in ordine alla simulazione della asserita totale cessazione della attivita’ – elemento addotto dalla societa’ a giustificazione della mancata adozione di alcun criterio di scelta – ed alla conseguente violazione della cadenza procedimentale che connota il licenziamento disciplinato ex L. n. 223 del 1991.
7. E’ bene ribadire, allora, che la Corte di merito non e’ incorsa nelle denunciate violazioni di legge per aver proceduto ad una verifica ex post dell’effettivita’ delle ragioni che giustificavano la riduzione di personale (rectius, il licenziamento dell’intera compagine della forza lavoro), ma si e’ limitata ad indagare sulla sussistenza dell’imprescindibile nesso causale fra la progettata cessazione della attivita’ di impresa, ed il singolo recesso, in sintonia con i summenzionati dicta giurisprudenziali.
In tale prospettiva, ha stigmatizzato il mancato rispetto da parte aziendale, della cadenza procedimentale predisposta dal richiamato corpus normativo, rimarcando che l’individuazione e l’applicazione dei criteri di scelta fanno parte di detta procedura, e nello specifico, non risultava fossero stati rispettati giacche’, sin dalla fase che attiene alla informazione sindacale, era mancata l’enunciazione dei criteri di selezione del personale in eccedenza; personale indubbiamente da vagliare, alla stregua dei criteri da individuare in sede di accordo sindacale o in mancanza, in base ai dettami di cui alla L. n. 223 del 1991, articolo 5.
In proposito, non puo’ mancarsi di considerare come gli approdi ai quali e’ pervenuto il giudice del gravame si pongano sulla scia delle linee tracciate dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, la quale ha avuto modo di rimarcare il ruolo fondamentale che riveste il diritto all’informazione ed alla consultazione di cui sono destinatari i rappresentanti sindacali – i quali esclusivamente lo possono esercitare – nel contesto delle procedure di licenziamento collettivo, sottolineando in particolare (vedi sentenza 16/7/09 C-12/08) che l’articolo 2 della direttiva 98/59 deve essere interpretato nel senso di impedire ad una normativa nazionale di ridurre gli obblighi del datore di lavoro che intenda procedere al licenziamento collettivo rispetto a quanto statuito dallo stesso articolo 2 della direttiva (punto 3 del dispositivo della suddetta sentenza); principi confermati successivamente dalla sentenza 13/2/14 C-596/12 secondo cui, armonizzando le norme applicabili ai licenziamenti collettivi, il legislatore comunitario ha inteso, nel medesimo tempo, garantire una protezione di livello comparabile dei diritti dei lavoratori nei vari Stati membri e uniformare gli oneri che tali norme di tutela comportano per le imprese della Comunita’ (v. sentenze dell’8 giugno 1994, Commissione/Regno Unito, C-383/92, Racc. pag. 1-2479, punto 16, e del 12 ottobre 2004, Commissione/Portogallo, C-55/02, Racc. pag. I-9387, punto 48).
La articolata procedura che scandisce i licenziamenti collettivi assicura, quindi, una tutela a tutti i lavoratori nella fase di risoluzione del rapporto, che risulta garantita dalla completezza del sistema informativo, e da tutti gli ulteriori adempimenti prescritti, assumendo l’obbligo di consultazione sindacale, valenza di elemento identificativo della procedura di licenziamento collettivo. In siffatto contesto normativo, l’omessa indicazione dei criteri di scelta del personale in eccedenza da parte datoriale nella fase di consultazione, si e’ tradotto in evidente vulnus agli obblighi su tale parte gravanti, riverberando i propri riflessi sulla legittimita’ del provvedimento espulsivo irrogato.
Non appare quindi configurabile alcun error in judicando nella pronuncia impugnata, perche’ lo stigma del giudice del gravame – accertata la natura fittizia della totale cessazione di attivita’ – concerne proprio la violazione dell’obbligo da parte datoriale, di comunicazione dei criteri di scelta, che hanno la funzione di consentire il controllo sindacale sulla scelta medesima, allo scopo di evitare elusioni del dettato normativo concernente i diritti dei lavoratori alla prosecuzione del rapporto nel caso in cui la cessazione dell’attivita’ dissimuli la ripresa della attivita’ produttiva (vedi Cass. 9/4/2003 n.5516, Cass.22/3/2004 n.5700); obbligo cui la parte datoriale sarebbe stata astretta anche ove avesse inteso cessare l’attivita’ e licenziare tutti i dipendenti salvo un gruppo individuato in base al possesso delle competenze professionali necessarie per il compimento delle operazioni di liquidazione, dovendo egualmente effettuare, secondo i ditta di questa Corte, la comunicazione di cui alla L. n. 223 del 1991, articolo 4, comma 9, con la precisazione delle modalita’ di attuazione del criterio di scelta e la comparazione tra tutte le professionalita’ del personale in servizio rispetto allo scopo perseguito, senza che assuma rilievo l’unicita’ del criterio adottato ancorche’ concordato con le organizzazioni sindacali (Cass. del 28/10/2010 n. 22033).
La vicenda scrutinata e’ stata, dunque, correttamente sussunta nell’ambito dell’archetipo normativo di riferimento, in quanto ricondotta nell’alveo della violazione delle disposizioni che disciplinano il controllo devoluto dal legislatore “ex ante” alle organizzazioni sindacali, sul ridimensionamento dell’impresa.
8. L’omessa individuazione ed applicazione dei criteri di selezione previsti dalla procedura (L. n. 223 del 1991, ex articoli 4 e 5), si sostanziava, quindi, in una violazione della scansione procedimentale predisposta dalla legge; e questa violazione – tenuto conto del comportamento complessivo assunto dalla societa’ in epoca anteriore e successiva alla irrogazione del provvedimento espulsivo, a prescindere anche dalla ritualita’ e legittimita’ del concordato preventivo, della declaratoria fallimentare e dell’autorizzazione all’e’sercizio provvisorio dell’impresa – era cosi’ grave ed assoluta, da giustificare l’applicazione della tutela reintegratoria ai sensi della L. n. 92 del 2012, articolo 1, comma 46, secondo cui in caso di violazione dei criteri di scelta previsti dal comma 1, si applica il regime di cui alla L. 20 maggio 1970, n. 300, medesimo articolo 18, comma 4 quindi il giudice “annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al primo comma e al pagamento di una indennita’ risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione”, in una misura non superiore alle dodici mensilita’.
Trascurando l’ipotesi che qui non interessa del licenziamento “intimato senza l’osservanza della forma scritta” di cui alla L. n. 92 del 2012, articolo 1, citato comma 46, va infatti distinto il “caso di violazione delle procedure richiamate all’articolo 4, comma 12” dal “caso di violazione dei criteri di scelta previsti dal comma 1”.
La differenza e’ resa apprezzabile dal rilievo che, nel caso di violazione dell’obbligo procedurale, il lavoratore puo’ essere comunque destinatario di un licenziamento che lo selezioni sulla base di criteri di scelta in concreto correttamente applicati, mentre, nel caso di violazione di criteri di scelta, il lavoratore non puo’ essere in alcun modo incluso nel novero dei lavoratori licenziati (vedi in motivazione Cass. 2/2/2018 n.2587, cui adde Cass. 17/7/2018 n. 19010).
Nello specifico, la assoluta omessa enunciazione di alcun criterio di scelta conseguente ad una prospettata ma fittizia cessazione di attivita’ – nella fase di informazione e consultazione sindacale – radica un difetto (per cosi’ dire) ontologico del recesso, che rinviene appropriata tutela mediante lo strumento reintegratorio approntato dal legislatore del 2012.
In tal senso, la pronuncia della Corte distrettuale si sottrae alle. critiche formulate (segnatamente, con il primo, il terzo, il quarto e il quinto motivo, restando il secondo – modulato anche con riferimento alla disposizione abrogata di cui alla L. n. 223 del 1991, articolo 8 – comunque logicamente assorbito).
In definitiva, al lume delle superiori argomentazioni, il ricorso va rigettato.
Il governo delle spese del presente giudizio segue il principio della soccombenza nella misura in dispositivo liquidata, con distrazione in favore dell’avv. (OMISSIS).
Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. n. 228 del 2012, articolo 1, comma 17, (che ha aggiunto il Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater) – della sussistenza dell’obbligo di versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la impugnazione integralmente rigettata.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge da distrarsi in favore dell’avv. (OMISSIS).
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis.

Avv. Renato D’Isa

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