Nel reato di bancarotta semplice la pena accessoria dell’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale

Corte di Cassazione, sezione quinta penale, Sentenza 9 ottobre 2018, n. 45307.

La massima estrapolata:

Nel reato di bancarotta semplice la pena accessoria dell’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e dell’incapacità di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa (prevista per il delitto di bancarotta fraudolenta) non ha la durata di dieci anni, ma si deve attenere alla durata della pena principale.

Sentenza 9 ottobre 2018, n. 45307

Data udienza 20 giugno 2018

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ZAZA Carlo – Presidente

Dott. CAPUTO Angelo – Consigliere

Dott. TUDINO A. – rel. Consigliere

Dott. SCORDAMAGLIA Irene – Consigliere

Dott. MOROSINI Elisabetta – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 18/09/2017 della CORTE APPELLO di FIRENZE;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. ALESSANDRINA TUDINO;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dr. FODARONI MARIA GIUSEPPINA, che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio;
Rigetto nel resto.

RITENUTO IN FATTO

1.Con la sentenza impugnata, la Corte d’Appello di Firenze ha parzialmente riformato la decisione del Gup del Tribunale di Lucca del 27 maggio 2014 con la quale era stata affermata la penale responsabilita’ di (OMISSIS) e (OMISSIS), assolvendo gli imputati dal delitto di bancarotta preferenziale sub b) e qualificando la residua imputazione di cui agli articoli 216 e 223 L.F. come bancarotta semplice.
La corte territoriale ha ritenuto, pur all’esito delle deduzioni defensionali, che gli imputati avessero tenuto la contabilita’ in modo comunque inattendibile, in conseguenza della complessa operazione di fatturazione derivante da plurimi rapporti di subappalto con correlate delegazioni di pagamento.
2. Avverso la sentenza, hanno proposto ricorso, con unico atto, entrambi gli imputati, per mezzo del comune difensore, articolando quattro censure.
2.1. Deducono, con il primo motivo, violazione della legge penale per non avere la corte territoriale valutato l’idoneita’ della condotta ad incidere in concreto sull’interesse tutelato, in presenza della evidente giustificazione delle appostazioni contabili in coerenza con la ricostruzione delle operazioni economiche riferita dai testi escussi, con conseguente difetto di qualsivoglia pericolo in concreto.
2.2. Censurano, con il secondo motivo, violazione della legge processuale in riferimento al divieto di reformatio in pejus avendo la corte, pur in assenza di impugnazione del pubblico ministero, determinato la pena base per il reato ritenuto in misura maggiore rispetto alla pena applicata in primo grado per il reato di bancarotta fraudolenta documentale.
2.3. Il terzo motivo deduce difetto di motivazione in riferimento al trattamento sanzionatorio, per avere la corte territoriale applicato una pena superiore al minimo senza giustificare esplicitamente i criteri adottati e trascurando il sostanziale ridimensionamento dell’accusa.
2.4. Il quarto motivo contesta la determinazione delle pene accessorie, erroneamente confermate nella misura applicata dal giudice di primo grado in anni dieci, pur all’esito della derubricazione.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I primi tre motivi di ricorso sono inammissibili.
2. Il primo motivo di ricorso e’ connotato da aspecificita’ in quanto si risolve in una mera critica rivolta alla sentenza impugnata, con il cui tessuto motivazionale i ricorrenti omettono di confrontarsi.
2.1. Secondo il consolidato orientamento di legittimita’, autorevolmente espresso dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 8825 del 27/10/2016 – dep. 2017, Galtelli, Rv. 268823, i motivi di ricorso per cassazione sono inammissibili “non solo quando risultano intrinsecamente indeterminati, ma altresi’ quando difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato” (Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013, Sammarco, Rv. 255568), in quanto le ragioni di tale necessaria correlazione tra la decisione censurata e l’atto di impugnazione risiedono nel fatto che quest’ultimo “non puo’ ignorare le ragioni del provvedimento censurato” (Sez. 2, n. 11951 del 29/01/2014, Lavorato, Rv. 259425)”.
2.2. Nel caso in esame, la corte territoriale ha dato puntualmente conto della ravvisabilita’, nei fatti originariamente contestati come bancarotta fraudolenta documentale, dell’ipotesi di cui alla L. Fall., articolo 217, comma 2, u.p., in presenza della tenuta delle scritture contabili in violazione dei principi di trasparenza e fedelta’.
La fattispecie ritenuta in sentenza e’, difatti, reato di mera condotta di pericolo astratto, avente ad oggetto le scritture obbligatorie ed i libri prescritti dalla legge, punito indifferentemente a titolo di dolo o di colpa (Sez. 5, n. 55065 del 14/11/2016, Incalza, Rv.26886701).
Sotto il versante oggettivo dell’imputazione, in particolare, nella bancarotta documentale semplice rileva “l’aspetto meramente formale dell’omessa o irregolare o incompleta tenuta delle scritture contabili obbligatorie per legge, mentre nella bancarotta fraudolenta (rileva) un profilo sostanziale, atteso che, da un lato, l’illiceita’ della condotta non e’ circoscritta alle sole scritture obbligatorie per legge, riguardando tutti i libri e scritture contabili genericamente intesi, e, dall’altro, e’ richiesto il requisito dell’impedimento della ricostruzione del volume d’affari o del patrimonio del fallito.” (Sez. 5, n. 38302 del 13/06/2016, Ricciardello, non massimata).
Di guisa che “e’ estraneo al fatto tipico descritto della L. Fall., articolo 217, comma 2, l’impedimento della ricostruzione del volume d’affari o del patrimonio del fallito, evento che invece caratterizza una delle fattispecie alternativamente integranti il diverso delitto di bancarotta fraudolenta documentale. L’accertamento di tale evento non e’ dunque necessario ai fini della configurabilita’ del suddetto reato (in quanto, ndr.), nel caso in cui oggetto di contestazione siano mere irregolarita’ o errori formali nelle registrazioni comunque inidonei a compromettere la completezza o l’attendibilita’ delle scritture in quanto dalle stesse emerge l’effettivo contenuto e significato dei dati annotati, il reato non sussiste per difetto di offensivita’ della condotta” (Sez. 5, n. 32051 del 24/06/2014, Corasaniti, Rv. 26077401). Cio’ in quanto il delitto di bancarotta semplice documentale e’ un reato di pericolo presunto e di pura condotta, posto a tutela del bene giuridico costituito dall’esigenza di una corretta informazione sulle vicende patrimoniali e contabili dell’impresa fallita, che viene in essere anche se non si realizza alcun danno o solo la messa in pericolo degli interessi dei creditori (Sez. 5, n. 44886 del 23/09/2015, Rossi, Rv. 26550801).
2.3. Nel caso in esame, l’anomala contabilizzazione dei crediti vantati da (OMISSIS) nei confronti di (OMISSIS) e dei relativi pagamenti effettuati mediante delegazione in favore di terzi subappaltatori non rappresenta una mera irregolarita’ formale nelle registrazioni comunque inidonea a compromettere la completezza o l’attendibilita’ delle scritture, in quanto la ricostruzione dell’artificio contabile e’ stato possibile solo all’esito dell’esame postumo delle scritture, eseguito dal curatore, con conseguente offensivita’ della condotta.
2.4. Nella sentenza impugnata risulta, del pari, adeguatamente precisato l’elemento soggettivo del reato di bancarotta semplice documentale anche ai fini del nomen iuris della meno grave fattispecie ritenuta, in quanto sul versante psicologico del reato e’ tradizionalmente colto il discrimen tra la fattispecie di bancarotta fraudolenta documentale da omessa o irregolare tenuta dei libri e delle scritture contabili e quella, meno grave, di bancarotta semplice documentale, correttamente ritenuta in quanto riconducibile ad un mero disordine contabile e non gia’ ad una cosciente e volontaria infedelta’.
Gli arresti di questa Corte su siffatto profilo differenziale si esprimono nel senso che, mentre per la bancarotta fraudolenta documentale prevista dal Regio Decreto n. 267 del 1942, articolo 216, comma 1, n. 2, seconda parte, l’elemento soggettivo del reato deve essere individuato nel dolo generico, che si traduce nella consapevolezza che l’omessa o irregolare tenuta dei libri e delle scritture contabili renda impossibile la ricostruzione delle vicende del patrimonio dell’imprenditore, per la bancarotta semplice prevista dal Regio Decreto n. 267 del 1942, articolo 217, comma 2, il coefficiente di attribuibilita’ psichica della condotta deve essere sostenuto indifferentemente dal dolo o dalla colpa, che sono ravvisabili quando l’agente ometta, con coscienza e volonta’ o per semplice negligenza, di tenere le scritture contabili obbligatorie per legge (Sez. 5, 28 dicembre 2011, n. 48523, Barbieri; Sez. 5, 23 febbraio 2006, n. 6769, Dalceggio; Sez. 5, 25 luglio 1991, n. 8081, Minuto) o le tenga in modo inidoneo a rappresentarne fedelmente il contenuto.
La motivazione della sentenza impugnata s’appalesa, pertanto, anche sotto tale profilo insindacabile nella presente sede di legittimita’.
3. Il secondo motivo di censura e’ manifestamente infondato.
3.1. Il ricorrente deduce violazione del principio di reformatio in pejus in chiave meramente comparativa, ponendo a raffronto pene diverse irrogate in riferimento a diverse fattispecie di reato, con cio’ evidenziando l’insussistenza del profilo strutturale dell’invocata violazione.
3.2. In ipotesi di derubricazione, invero, non viola il divieto di reformatio in peius il giudice dell’impugnazione che, riqualificando il fatto in altra meno grave fattispecie di reato, individui una pena base di entita’ maggiore rispetto a quella stabilita nel minimo edittale dal giudice di primo grado in relazione all’originaria imputazione, purche’ venga irrogata in concreto una sanzione finale non superiore a quella in precedenza inflitta (Sez. 2, Sentenza n.33563 del 14/07/2016, Canzonieri, Rv. 267858, N. 25606 del 2010 Rv. 247739).
4. Il terzo motivo di censura e’ inammissibile per genericita’.
4.1. Nella commisurazione della pena, la Corte d’appello ha determinato la sanzione in concreto applicata ai ricorrenti (mesi otto di reclusione) assestandola in misura inferiore alla media edittale (un anno di reclusione) e molto piu’ prossima al minimo edittale (sei mesi di reclusione).
4.2. Secondo il consolidato orientamento di legittimita’, “in tema di determinazione della pena, nel caso in cui venga irrogata una pena al di sotto della media edittale, non e’ necessaria una specifica e dettagliata motivazione da parte del giudice, se il parametro valutativo e’ desumibile dal testo della sentenza nel suo complesso argomentativo e non necessariamente solo dalla parte destinata alla quantificazione della pena” (Sez. 3, Sentenza n.38251 del 15/06/2016, Rignanese, Rv. 267949, N. 21294 del 2013 Rv. 256197, N. 1571 del 1986 Rv. 171948, N. 36245 del 2009 Rv. 245596, N. 21294 del 2013 Rv. 256197, N. 24213 del 2013 Rv. 255825, N. 27959 del 2013 Rv. 258356, N. 28852 del 2013 Rv. 256464, N. 46412 del 2015 Rv. 265283).
In siffatte ipotesi, l’irrogazione della pena non deve essere motivata in modo specifico o particolarmente ampio, in quanto la sua applicazione rappresenta il risultato di una valutazione intuitiva e globale operata dal giudice del merito in rapporto alla complessiva considerazione del fatto ed alla personalita’ dell’imputato (Sez. 3, n. 1571 del 10/01/1986, Ronzan, Rv. 171948), con la conseguenza che, da un lato, l’irrogazione di una pena in misura intermedia tra minimo e massimo implica per cio’ stesso un corretto uso del potere discrezionale del giudice, cosicche’, escludendo ogni abuso, non abbisogna di specifica motivazione e, dall’altro, che se il parametro valutativo e’ desumibile – come nella specie – dal testo della sentenza impugnata riguardata nel suo complesso argomentativo e non necessariamente nella parte destinata alla mera quantificazione della pena (nel caso in esame, risulta dal testo della sentenza impugnata la pluralita’ delle operazioni infedelmente contabilizzate e la sistematicita’ della condotta orientata all’elusione fiscale), la sentenza non puo’ essere censurata per difetto di motivazione in ordine i criteri adottati per la commisurazione della pena, non potendosi radicare alcun vizio motivazionale in proposito quando il buon uso del potere discrezione del giudice si desume oggettivamente dal testo della sentenza impugnata.
Il ricorrente non ha, peraltro, indicato alcuno dei parametri di cui all’articolo 133 c.p. che il Giudice del merito avrebbe omesso di valutare ai fini di una diversa ed inferiore commisurazione della pena.
Il motivo e’ dunque inammissibile perche’ aspecifico, oltre ad essere, per le ragioni in precedenza espresse, manifestamente infondato.
5. Il quarto motivo di ricorso e’, invece, fondato.
5.1. Secondo il consolidato orientamento di legittimita’, la pena accessoria dell’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e dell’incapacita’ di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa prevista per il delitto di bancarotta fraudolenta ha la durata fissa ed inderogabile di dieci anni, diversamente dalle pene accessorie previste per il reato di bancarotta semplice, che devono essere commisurate alla durata della pena principale, in quanto, essendo determinate solo nel massimo, sono soggette alla regola di cui all’articolo 37 c.p.. (v. Corte Cost. n. 134 del 2012; Sez. 5, Sentenza n.15638 del 05/02/2015, Assello, Rv. 263267, N. 17690 del 2010 Rv. 247319, N. 269 del 2011 Rv. 249500, N. 30341 del 2012 Rv. 253318, N. 11257 del 2013 Rv. 254641, N. 51526 del 2013 Rv. 258665, N. 628 del 2014 Rv. 257947, N. 41035 del 2014 Rv. 260495).
5.2. Nel caso in esame, nel confermare le statuizioni della sentenza di primo grado in relazione alle pene accessorie ivi applicare riguardo il reato di cui all’articolo 216 L. Fall., la corte territoriale non ha fatto corretta applicazione degli enunciati principi.
A siffatto errore puo’ porsi rimedio, in questa sede, ai sensi dell’articolo 619 c.p.p., comma 2 e articolo 620 c.p.p., comma 1, lettera l), nella formulazione modificata dalla L. 23 giugno 2017, n. 103, dovendosi applicare le pene accessorie in misura corrispondete alla pena detentiva applicata, operazione obbligata che non involge alcun apprezzamento di fatto.
Ed invero la possibilita’, riconosciuta alla Corte di cassazione, di rideterminare le pene accessorie illegalmente determinate, procedendo ad un annullamento senza rinvio, e’ circoscritta alle ipotesi in cui alla situazione da correggere possa porsi rimedio senza necessita’ dell’esame degli atti dei processi di primo e secondo grado e della formulazione di giudizi di merito, obiettivamente incompatibili con le attribuzioni del giudice di legittimita’ (Sez. 6, Sentenza n.6418 del 20/01/2016, Romanazzi, Rv. 265845).
6. La sentenza impugnata deve essere, pertanto, annullata senza rinvio limitatamente all’entita’ delle pene accessorie, con conseguente rideterminazione delle medesime sanzioni nei termini di legge.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alle pene accessorie, che ridetermina nella misura di mesi otto. Dichiara inammissibili nel resto i ricorsi

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