SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Sentenza 20 giugno 2012, n. 10143

 

Svolgimento del processo

1. Con ricorso depositato il 15 luglio 2008 la società Hapimag Italia s.r.l. impugnava la sentenza del tribunale di Teramo del 10 – 17 dicembre 2007, che aveva dichiarato la illegittimità del licenziamento intimato a I.T., per mancata osservanza della procedura di cui alla legge n. 223/91, sul presupposto che tale recesso si inserisse nell’ambito di un licenziamento collettivo. Negava di essere soggetta alla disciplina sui licenziamenti collettivi, sia perché svolgeva un’attività stagionale che, come tale, era esclusa, per espressa previsione dell’art. 24, comma 4, della legge n. 223/91, da tale disciplina, sia perché non aveva una consistenza occupazionale superiore a 15 dipendenti, comunque richiesta per l’applicabilità della legge stessa. Ribadiva poi l’esistenza del giustificato motivo oggettivo, giacché la decisione di non tenere inoperosi lavoratori con contratto a tempo indeterminato per alcuni mesi l’anno e, quindi, di darsi un diverso assetto economico-produttivo, rientrava nel potere dell’imprenditore, insindacabile da parte del giudice.

Sosteneva, infine, di aver fatto richiesta al Centro per l’impiego e all’Agenzia delle entrate per conoscere i redditi dell’appellata dal 2005, e se la stessa si fosse iscritta alle liste di collocamento, riservandosi di produrre la relativa documentazione fino all’udienza.

Resisteva la I., contestando che l’attività svolta dall’appellante fosse stagionale, giacché, anche dopo la richiesta della relativa licenza, nel 2004, essa aveva continuato a svolgere la propria attività per tutto l’anno solare e con lo stesso numero di dipendenti, mentre all’indomani del licenziamento di tutti i lavoratori con contratto a tempo indeterminato, aveva riassunto una dipendente sempre a tempo indeterminato. Rilevava che, ai fini della consistenza occupazionale, andavano computati anche i dipendenti con contratto a termine, che non fossero stati assunti per sopperire ad esigenze contingenti ed eccezionali. Quanto poi all’esistenza del giustificato motivo oggettivo, rinviava alla difesa spiegata sul punto in primo grado.

2. La corte d’appello dell’Aquila con sentenza del 18 settembre 2008 – 8 ottobre 2008 rigettava l’appello e condannava l’appellante al pagamento delle spese del grado. In particolare la corte d’appello riteneva che il licenziamento non potesse che qualificarsi come individuale, essendo stato intimato come tale dalla società datrice di lavoro. Riteneva inoltre che la trasformazione in stagionale dell’attività della società, che in precedenza si svolgeva nel corso di tutto l’anno, non costituiva giustificato motivo oggettivo dell’intimato licenziamento per mancanza di nesso di causalità con la determinazione datoriale di risolvere il rapporto di lavoro. Non teneva conto delle deduzioni della società quanto al requisito numerico perché fatte in riferimento alla prospettazione del licenziamento collettivo. Nulla poi la società aveva provato quanto all’aliunde perceptum.

3. Avverso questa pronuncia la società propone ricorso per cassazione articolato in quattro motivi.

L’intimata non ha svolto difesa alcuna.

4. La Sezione Lavoro di questa corte, con ordinanza interlocutoria del 15 novembre 2011 – 18 gennaio 2012, n. 702, ha disposto la trasmissione del ricorso al Primo Presidente per l’assegnazione alle Sezioni Unite ravvisando un contrasto di giurisprudenza in ordine all’interpretazione dell’art. 82 regio decreto 22 gennaio 1934 n. 37.

In tale ordinanza la Sezione Lavoro pone in rilievo che la società Hapimag Italia s.p.a. ha notificato il ricorso per cassazione a I.T. presso il procuratore domiciliatario costituito in secondo grado, non presso il suo studio (secondo l’indicazione del domicilio data dalla parte nella procura alle liti), ma nella cancelleria della Corte d’appello dell’Aquila. Trattandosi di procuratore esercente fuori della circoscrizione del tribunale cui era assegnato (il giudizio di appello si è svolto dinanzi alla Corte d’appello dell’Aquila, il procuratore domiciliatario era residente in Atri, circondario di Teramo), deve valutarsi se alla fattispecie trovi applicazione, o no, l’art. 82 del r.d. 22 gennaio 1934 n. 37, per il quale il procuratore che esercita il suo ministero fuori della circoscrizione del tribunale cui è assegnato deve eleggere domicilio, all’atto di costituirsi in giudizio, nel luogo dove ha sede l’ufficio giudiziario presso il quale è in corso il processo, intendendosi in difetto che egli abbia eletto domicilio presso la cancelleria della stessa autorità giudiziaria.

Ricorda l’ordinanza citata che fino ad epoca recente la giurisprudenza (Cass., sez. un., 5 ottobre 2007, n. 20845) ha ritenuto che tale elezione di domicilio ex lege assume rilievo tanto ai fini della notifica della sentenza per il decorso del termine breve per l’impugnazione, che per la notifica dell’atto di impugnazione, rimanendo di contro irrilevante l’indicazione della residenza o anche la elezione del domicilio fatta dalla parte stessa nella procura alle liti, senza che il principio incontri deroghe per il rito del lavoro (Cass., sez. lav., 2 settembre 2010, n. 19001). In prospettiva diversa si pone Cass., sez. lav., 11 giugno 2009, n. 13587, che, partendo da un’interpretazione letterale dell’art. 82 del r.d. n. 37 del 1934, ritiene che la disposizione da esso denunziata si applica al giudizio di primo grado (come si evince dal riferimento alla “circoscrizione del tribunale”) e trova applicazione al giudizio d’appello solo se trattasi di procuratore esercente fuori del distretto, attesa la ratio della disposizione, volta ad evitare di imporre alla controparte l’onere di una notifica più complessa e costosa se svolta al di fuori della circoscrizione dell’autorità giudiziaria procedente e ad escludere un maggiore aggravio della notifica ove il procuratore sia assegnato al medesimo distretto ove si svolge il giudizio di impugnazione.

5. Fissata la causa all’odierna udienza pubblica innanzi a queste Sezioni Unite, la ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c. in cui sostiene la ritualità della notifica del ricorso per cassazione fatta presso la cancelleria della Corte d’appello dell’Aquila essendo il difensore della parte intimata domiciliato ex lege presso la cancelleria di quella corte in quanto iscritto nell’albo professionale del tribunale di Teramo e quindi in una circoscrizione diversa da quella in cui aveva sede la corte d’appello.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è articolato in quattro motivi.

Con il primo motivo la società ricorrente denuncia la violazione dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966. In particolare contesta la ritenuta assenza di nesso causale tra la scelta per la riduzione dell’attività da annuale a stagionate ed il licenziamento intimato.

Con il secondo motivo la ricorrente deduce la violazione dell’art. 2909 c.c. e dell’art. 2 della legge n. 108 del 1990. Sostiene la deducibilità di un giudicato esterno formatosi in altra controversia con altri due dipendenti licenziati nelle stesse circostanze. Il giudicato secondo la ricorrente concernerebbe la consistenza occupazionale inferiore a 15 dipendenti con conseguente applicabilità della cosiddetta tutela obbligatoria.

Con il terzo motivo la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 1 della legge n. 108 del 1990. La sentenza impugnata ha erroneamente ritenuto che il motivo d’appello sulla consistenza occupazionale riguardasse solo l’applicabilità della legge n. 223 del 1991 e non anche il licenziamento individuale.

Con il quarto motivo la ricorrente denuncia ancora violazione dell’art. 1 della legge n. 108 del 1990 con riferimento alla deducibilità dell’aliunde perceptum.

2. Preliminare all’esame del merito del ricorso è la verifica della sua ammissibilità in ragione della ritualità, o no, della sua notifica alla parte intimata presso il suo procuratore in appello, domiciliato ex lege presso la cancelleria della corte d’appello dell’Aquila in applicazione dell’art. 82 cit. Tale verifica implica l’esame della questione di diritto posta nella richiamata ordinanza interlocutoria della sezione lavoro (ord., 15 novembre 2011 – 18 gennaio 2012, n. 702) e che ha ad oggetto l’interpretazione di tale disposizione; questione sulla quale si è radicato il denunciato contrasto di giurisprudenza della cui composizione sono state investite queste sezioni unite.

3. L’art. 82 del r.d. 22 gennaio 1934, n. 37, recante norme integrative e di attuazione del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, convertito nella legge 22 gennaio 1934 n.36, sull’ordinamento delle professioni di avvocato e di procuratore – disposizione questa che, pur essendo risalente nel tempo, è rimasta immutata e tuttora vigente anche dopo l’entrata in vigore del codice di procedura civile del 1940 e delle varie leggi di riforma che si sono succedute nel tempo – prevede che gli avvocati – e, prima della soppressione dell’albo dei procuratori legali ex art. 3 l. 24 febbraio 1997, n. 27, i procuratori – i quali esercitano il proprio ufficio in un giudizio che si svolge fuori della circoscrizione del tribunale al quale sono assegnati – devono, all’atto della costituzione nel giudizio stesso, eleggere domicilio nel luogo dove ha sede l’autorità giudiziaria presso la quale il giudizio è in corso. Ed aggiunge che, in mancanza della elezione di domicilio, questo si intende eletto presso la cancelleria della stessa autorità giudiziaria.

L’onere di elezione di domicilio non esclude che comunque – come recita l’art. 4 r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578 – gli avvocati iscritti in un albo possano esercitare la professione davanti a tutte le Corti d’appello ed i Tribunali (nonché, in passato, alle Preture) della Repubblica. Mentre davanti alla Corte di cassazione (ed altri organi giurisdizionali, quali in particolare il Consiglio di Stato e la Corte dei conti in sede giurisdizionale) il patrocinio può essere assunto soltanto dagli avvocati iscritti nell’apposito albo speciale.

L’art. 82 contiene quindi un duplice riferimento topografico: alla circoscrizione del tribunale e alla sede dell’autorità giudiziaria presso la quale il giudizio è in corso.

3.1. Il primo riferimento si raccorda all’albo degli avvocati di cui all’art. 17 r.d.l. n. 1578/33 tenuto dal consiglio dell’ordine degli avvocati presso ciascun tribunale, al quale sono iscritti, a domanda, gli avvocati per l’esercizio della professione forense e che presuppone che l’avvocato abbia la residenza nella circoscrizione del tribunale nel cui albo l’iscrizione è domandata (art. 26 r.d.l. cit.); cfr. l’art. 31 r.d.l. cit. che prescrive che la domanda per l’iscrizione all’albo degli avvocati è rivolta al Consiglio dell’ordine degli avvocati e dei procuratori nella cui circoscrizione il richiedente ha la sua residenza. L’art. 10 r.d.l. cit. poi prescrive che l’avvocato debba risiedere nel capoluogo del circondario del Tribunale al quale è assegnato, ma il Presidente del Tribunale, sentito il parere del Consiglio dell’ordine, può autorizzarlo a risiedere in un’altra località del circondario, purché egli abbia nel capoluogo un ufficio presso un altro procuratore.

L’iscrizione a tale albo deve costantemente sussistere per svolgere l’attività difensiva; la cancellazione dall’albo costituisce tipica sanzione disciplinare (art. 40 r.d.l. cit.).

Alla circoscrizione del tribunale fa riferimento anche l’art. 6 d.lgs. 2 febbraio 2001 n. 96 (sull’esercizio della professione in uno Stato membro dell’UE) che prevede che per l’esercizio permanente in Italia della professione di avvocato, i cittadini degli Stati membri in possesso dei prescritti titoli, sono tenuti ad iscriversi in una sezione speciale dell’albo costituito nella circoscrizione del tribunale in cui hanno fissato stabilmente la loro residenza o il loro domicilio professionale. Gli avvocati possono chiedere il trasferimento dell’iscrizione all’albo di altra circoscrizione, anche di un diverso distretto, nella quale intendano fissare la propria residenza (art. 6 legge 4 marzo 1991, n. 67). La perimetrazione del circondario dei singoli tribunali è stata rivista dal d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, recante l’istituzione del giudice unico di primo grado.

3.2. Il secondo riferimento topografico coincide con la sede – e quindi con il comune dove è ubicata la sede – dell’autorità giudiziaria presso la quale il giudizio è in corso.

Quindi l’avvocato che è assegnato a una determinata circoscrizione del tribunale può esercitare innanzi a qualsiasi autorità giudiziaria che ha sede in quella circoscrizione senza necessità di elezione di domicilio altrove. Ma se quest’ultima ha sede in una diversa circoscrizione, l’avvocato è onerato dell’elezione di domicilio nel luogo sede dell’autorità giudiziaria adita; altrimenti opera ex lege l’elezione di domicilio presso la cancelleria di quella autorità giudiziaria.

Il collegamento topografico posto dall’art. 82 comporta una vicinanza dell’avvocato alla sede dell’autorità giudiziaria innanzi alla quale è instaurato il giudizio per essere quest’ultima interna al territorio della circoscrizione del tribunale dove è l’albo professionale al quale è iscritto l’avvocato. La finalità è quella di agevolare le comunicazioni e le notificazioni all’avvocato; finalità questa che è maggiormente evidente se si pensa all’epoca in cui la norma è stata posta e al diverso contesto dei mezzi di comunicazione che la connotava a fronte del progresso tecnologico dell’epoca attuale. Basti considerare che recentemente l’art. 48, lett. d), d.l. 29 dicembre 2009, n. 193, conv., con mod., dalla l. 22 febbraio 2010, n. 24, ha inserito nel codice di rito l’art. 149-bis sulla notificazione a mezzo di posta elettronica. E prima ancora l’art. 2 l. 28 dicembre 2005, n. 263, aveva aggiunto un terzo comma nell’art. 136 c.p.c. che prevede la possibilità delle comunicazioni di cancelleria mediante telefax o posta elettronica.

Pur in questo diverso contesto di comunicazioni e notifiche effettuabili anche in via telematica, la finalità dell’art. 82 è rimasta quella originaria: l’avvocato, in quanto iscritto all’albo del tribunale nella cui circoscrizione ricade la sede dell’autorità giudiziaria innanzi alla quale è instaurato il giudizio, deve essere “prossimo” a quest’ultima. In difetto di tale prossimità topografica, scatta un onere di elezione di domicilio che, ove disatteso, comporta la domiciliazione ex lege presso la cancelleria della stessa autorità giudiziaria. La giurisprudenza di questa Corte (cfr. ex plurimis Cass., sez. 1, 9 marzo 1977, n. 976) ha sottolineato come l’art. 82 mira a rendere più agevoli e sollecite le comunicazioni e notificazioni degli atti processuali.

4. Questa esigenza di prossimità topografica si ritrova anche in altre disposizioni processuali.

L’art. 58 att. c.p.c., con riferimento alla costituzione delle parti nel giudizio innanzi al giudice di pace, prevede che alla parte, che non ha fatto dichiarazione di residenza o elezione di domicilio a norma dell’art. 319 c.p.c., le notificazioni e le comunicazioni durante il procedimento possono essere fatte presso la cancelleria, salvo contrarie disposizioni di legge.

L’art. 366 c.p.c., prima della modifica introdotta dall’art. 25, comma 1, lett. i), n. 1), l. 12 novembre 2011, n. 183 (di cui si dirà infra), prevedeva che, se il ricorrente non avesse eletto domicilio in Roma, le notificazioni gli sarebbero state fatte presso la cancelleria della Corte di cassazione.

L’art. 480 c.p.c., prescrive che il precetto deve inoltre contenere, tra l’altro, la dichiarazione di residenza o l’elezione di domicilio della parte istante nel comune in cui ha sede il giudice competente per l’esecuzione ed in mancanza le opposizioni al precetto si propongono davanti al giudice del luogo in cui è stato notificato e le notificazioni alla parte istante si fanno presso la cancelleria del giudice stesso. Analoghe disposizioni, nel codice di rito, sono contenute negli artt. 492 (con riferimento al pignoramento), 638 (quanto al procedimento per ingiunzione), 660 (relativamente alle intimazioni di licenza o di sfratto) e nell’art. 22 legge n. 689 del 1981 (in tema di opposizione all’ordinanza-ingiunzione prima della novella di cui all’art. 34, comma 1, lett. b), d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150).

Anche nel giudizio amministrativo c’è analogo onere processuale. L’art. 25 cod. proc. amm. (d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, come sostituito dall’art. 11, lett. e), d.lgs. 15 novembre 2011, n. 195) prevede che la parte, se non elegge domicilio nel comune sede del tribunale amministrativo regionale o della sezione staccata dove pende il ricorso, si intende domiciliata, ad ogni effetto, presso la segreteria del tribunale amministrativo regionale o della sezione staccata; e nei giudizi davanti al Consiglio di Stato, la parte, se non elegge domicilio in Roma, si intende domiciliata, ad ogni effetto, presso la segreteria del Consiglio di Stato.

5. Il disposto dell’art. 82 cit. comporta quindi, per l’avvocato che difende in un giudizio innanzi ad un’autorità giudiziaria con sede in una circoscrizione diversa da quella del tribunale presso il quale è l’albo dove egli è iscritto, un onere di elezione di domicilio al fine di assicurare la “prossimità” dell’avvocato per ogni comunicazione o notifica.

La conseguenza del mancato rispetto di tale onere, che ha una connotazione quasi sanzionatoria in senso lato, è l’elezione di domicilio ex lege presso la cancelleria dell’autorità giudiziaria suddetta; ciò che significa in concreto una marcata difficoltà per l’avvocato di avere notizia di comunicazioni e notificazioni fattegli presso la cancelleria, anche se, fin da epoca risalente (Cass., sez. 3, 10 agosto 1965, n. 1919), sì è precisato che comunque vi è, non già un obbligo, ma solo una facoltà per il notificante di effettuare la notifica presso la cancelleria (cfr. anche Cass., sez. lav., 22 novembre 1995, n. 12064; sez. 2, 4 maggio 2005, n. 9225). Ma se il notificante si avvale di tale facoltà, la notifica è rituale.

Si è quindi dubitato della proporzionalità (e quindi della ragionevolezza: art. 3, primo comma, Cost.) di una così radicale conseguenza dell’inosservanza di un onere processuale, nonché della sua compatibilità con il diritto alla tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.) e, più recentemente, con il canone del giusto processo (art. 111, primo comma, Cost.); e la questione è stata più volte portata con incidente di costituzionalità innanzi alla Corte costituzionale. La quale, dopo aver ritenuto ragioni di inammissibilità della questione, preclusive dell’esame del merito (ord. n. 455 del 1999 e n. 13 del 2006), con una successiva ordinanza (ord. n. 5 del 2007) ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 82 cit., in combinato disposto con l’art. 330 c.p.c., sollevata in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione. Ha affermato la Corte che la prescrizione dell’onere di indicazione della residenza o dell’elezione di domicilio nel Comune sede del giudice adito, con i sacrifici che ad essa si correlano, esprime una scelta ragionevole e quindi non lesiva del diritto di azione, in quanto funzionale a un più immediato ed agevole espletamento delle formalità della notificazione; mentre tale mancata elezione di domicilio non impedisce né rende particolarmente gravoso il diritto di difesa, in quanto il difensore ben può con l’ordinaria diligenza informarsi presso il cancelliere, ritirare l’atto e provvedere così alla sua difesa, in quanto detta forma di notificazione, fra l’altro, consegue al mancato adempimento dell’onere imposto al difensore dalle norme impugnate e quindi è a lui imputabile. La Corte ha poi evidenziato che l’operatività della domiciliazione nella cancelleria deriva da una scelta volontaria del difensore, il quale, pur essendo consapevole di esercitare fuori dal circondario in cui è iscritto, ha omesso l’elezione di domicilio; ed ha aggiunto che la parte ha comunque il diritto di chiedere al proprio difensore il risarcimento integrale dei danni patiti, in ragione dell’agire non diligente di quest’ultimo, che non sia venuto a conoscenza del processo di appello e che non abbia conseguentemente apprestato una difesa.

In precedenza la Corte (ord. n. 62 del 1985) aveva dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 480, terzo comma, c.p.c. nella parte in cui dispone che, ove il precetto non contenga la dichiarazione di residenza o l’elezione di domicilio della parte istante, le notificazioni si eseguono presso la cancelleria del giudice stesso ed il cancelliere non è tenuto a darne notizia alla parte interessata. Parimenti la Corte (ord. n. 231 del 2002) aveva dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 22 della legge 24 novembre 1981, n. 689, che prevedeva analogo onere di elezione di domicilio, atteso che tale prescrizione “risulta ragionevole e non lesiva del diritto di azione, in quanto funzionale a un più immediato ed agevole espletamento delle formalità della notificazione” (conf. ord. n. 391 del 2007); disposizione questa che però è stata successivamente dichiarata incostituzionale, nel suo quarto e quinto comma, dalla stessa Corte (sent. n. 365 del 2010) proprio in ragione del mutato contesto normativo con la previsione di nuove modalità (e tecniche) di notifica (per questo profilo v. infra).

6. La questione di costituzionalità, di cui si è appena detto, è stata sollevata e decisa nel contesto e sul presupposto dell’interpretazione corrente dell’art. 82 cit.

6.1. La giurisprudenza di questa Corte da una parte, fin da epoca risalente, ha innanzi tutto affermato la permanente vigenza della disposizione anche dopo l’introduzione del nuovo codice di procedura civile del 1940; cfr. ex plurimis Cass., sez. 1, 31 luglio 1954, n. n. 2823, che, interpretando l’art. 82 r.d. 22 gennaio 1934 n. 37, posto in relazione agli artt. 285 e 170 c.p.c., ha affermato che, nella ipotesi in cui il procuratore legalmente esercente ometta di eleggere domicilio nel luogo ove ha sede l’autorità giudiziaria presso la quale è in corso il processo se fuori della circoscrizione del tribunale cui egli è assegnato, devono ritenersi pienamente valide le notificazioni eseguite presso la cancelleria dell’autorità giudiziaria medesima. Ed ha precisato che l’art. 82 non può ritenersi tacitamente abrogato a seguito dell’entrata in vigore del nuovo codice di rito (e segnatamente dell’art. 170 c.p.c.), né delle norme che disciplinano l’iscrizione nell’albo dei procuratori. Conf. Cass., sez. 3, 10 agosto 1965, n. 1919, che ha ribadito la perdurante vigenza dell’art. 82 dato che l’art. 170 c.p.c. – a cui rinvia l’art. 285 c.p.c. per la notificazione della sentenza agli effetti della decorrenza del termine per l’impugnazione – si limita ad indicare soltanto la persona nei cui confronti la notifica deve essere effettuata, senza determinare anche il luogo in cui la notifica deve essere eseguita. Conf. Cass., sez. 2, 23 maggio 1975, n. 2053; sez. 2, 5 agosto 1976, n. 3018.

6.2. D’altra parte la giurisprudenza di questa Corte ha accolto un’interpretazione letterale, come palesata dalla chiara lettera della disposizione: gli avvocati esercenti il proprio ufficio fuori della circoscrizione del tribunale dove, tenuto dal locale consiglio dell’ordine degli avvocati, è l’albo al quale essi sono iscritti, hanno l’onere di domiciliarsi nel comune dove ha sede l’autorità giudiziaria innanzi alla quale svolgono la loro attività difensiva ove tale comune non sia ricompreso nella circoscrizione suddetta. Il riferimento generico all’autorità giudiziaria comprende ogni giudice, sia quello di primo grado che quello dell’impugnazione. Per il giudizio di cassazione l’art. 82 non opera sol perché l’onere di elezione di domicilio è previsto specificamente dall’art. 366 c.p.c.; ma la disciplina è analoga (salvo quanto si dirà oltre): l’avvocato, iscritto all’albo speciale di cui al l’art. 33 r.d.l. n. 1578/33, è anch’egli tenuto ad eleggere domicilio nel comune di Roma.

Il riferimento al tribunale, contenuto nell’art. 82, vale ad individuare, non già l’autorità giudiziaria presso la quale il giudizio è in corso, bensì l’albo professionale al quale l’avvocato è iscritto. L’assegnazione dell’avvocato al tribunale significa null’altro che iscrizione nell’albo professionale tenuto da ciascun ordine circondariale degli avvocati presso ogni tribunale che ha quindi come riferimento territoriale la circoscrizione del tribunale stesso (v. art. 14 r.d.l. n. 1578/33 che prevede che per ogni Tribunale civile e penale sono costituiti un albo di avvocati e, in passato, un albo di procuratori).

Invece ampio – e nient’affatto limitato al tribunale – è il riferimento all’autorità giudiziaria presso la quale il giudizio è in corso”, sicché, in disparte le disposizioni speciali quali quelle dettate per il giudizio civile di cassazione dall’art. 366 c.p.p. e ora per il giudizio amministrativo dall’art. 25 cod.proc.amm., la disposizione riguarda anche i giudizi proposti in sede di impugnazione e segnatamente quelli instaurati innanzi alle corti d’appello.

Del resto mentre esistono gli ordini circondariali che provvedono alla tenuta degli albi degli avvocati presso ciascun tribunale, non esiste un albo distrettuale costituito dall’insieme degli albi del circondario compresi nel distretto. Né l’art. 82 fa in alcun modo riferimento all’insieme degli albi dei circondario compresi nel distretto sia perché manca un dato testuale da cui ciò possa desumersi, sia perché quando la legge professionale ha inteso assegnare rilevanza al livello distrettuale, pur in mancanza di un albo distrettuale, lo ha fatto espressamente. L’art. 5 prevedeva, prima della soppressione dell’albo dei procuratori, che i procuratori legali potevano esercitare la professione davanti a tutti gli uffici giudiziari del distretto in cui era compreso l’ordine circondariale presso il quale erano iscritti. Analoga disposizione è tuttora prevista dall’art. 8 per i praticanti procuratori.

Ma nell’art. 82 il livello distrettuale non viene in rilievo.

6.3. Questa giurisprudenza ha trovato ripetute conferme: cfr. Cass., sez. lav., 26 ottobre 1987, n. 7899; sez. 1, 3 aprile 1992, n. 4081; sez. 1, 17 febbraio 1995, n. 1736. Inoltre in senso conforme: Cass., sez. 2, 23 dicembre 1999, n. 14476; sez. 1, 23 febbraio 2000, n. 2059; sez. 3, 28 luglio 2004, n. 14254; sez. 2, 25 febbraio 2008, n. 4812; sez. 2, 11 marzo 2008, n. 6502; sez. lav., 20 giugno 2008, n. 17005; sez. lav., 23 febbraio 2009, n. 27166; nonché sia pur solo implicitamente, anche Cass., sez. 2, 11 aprile 2002, n. 5185; sez. 1, 26 ottobre 2007, n. 22542; sez. 3, 7 aprile 2009, n. 8377.

In particolare Cass., sez. 3, 25 maggio 1977, n. 2170, ha poi precisato che la disposizione dell’art. 82 deve essere interpretata nel senso che il luogo di elezione del domicilio deve trovarsi nel comune ove siede l’autorità giudiziaria e non già in un comune diverso, sia pure sito nello stesso circondario; se si verifica quest’ultima ipotesi, il domicilio si intende eletto ex lege nella cancelleria del giudice procedente.

Con riferimento specifico al giudizio d’appello questa Corte (Cass., sez. 2, 15 maggio 1996, n. 4502) ha affermato che l’art. 82 r.d. n. 37 del 1934 – secondo cui il procuratore che si trovi ad esercitare il proprio ufficio in giudizio istituito dinanzi ad un’autorità giudiziaria avente la sede fuori dalla circoscrizione del tribunale al quale è assegnato deve, al momento della costituzione nel giudizio stesso, eleggere domicilio nel luogo dove ha sede detta autorità e mantenervelo per tutto il corso del processo e, in caso di mancato adempimento di tale onere, il suo domicilio si intende eletto presso la cancelleria del giudice adito – trova applicazione anche nei giudizi innanzi alle corti di appello, in quanto si riferisce all’attività svolta dal procuratore innanzi a qualsiasi giudice avente sede in luogo non compreso nella circoscrizione del tribunale al quale egli è assegnato, ed opera, altresì, nel caso in cui, in un giudizio pendente innanzi alla corte di appello, a seguito dell’istituzione di un nuovo tribunale (nella specie, quello di Noia operante in forza della l. n. 125 del 1992), il procuratore risulti iscritto all’ordine professionale costituito presso il nuovo tribunale e privo, nella città sede della corte di appello (nell’ipotesi, Napoli), di un domicilio eletto diverso da quello presunto ex art. 82 r.d. cit.; con la conseguenza che, nell’indicata ipotesi, le comunicazioni al predetto procuratore devono ritenersi validamente e ritualmente effettuate presso la cancelleria della corte medesima.

In senso conforme cfr. anche Cass., sez. 6 – 2, 5 maggio 2011, n. 9924; sez. lav., 2 settembre 2010, n. 19001; sez. 3, 19 giugno 2009, n. 14360; sez. 1, 9 maggio 2002, n. 6692.

Può infine ricordarsi che queste stesse Sezioni Unite (Cass., sez. un., 5 ottobre 2007, n. 20845) hanno affermato che ai sensi dell’art. 82 del r.d. n. 37 del 1934 – tuttora vigente e non abrogato neanche per implicito dagli artt. 1 e 6 della legge n. 27 del 1997 – il procuratore che eserciti il suo ministero fuori della circoscrizione del tribunale cui è assegnato deve eleggere domicilio, all’atto di costituirsi in giudizio, nel luogo dove ha sede l’ufficio giudiziario presso il quale è in corso il processo, intendendosi, in difetto, che egli abbia eletto domicilio presso la cancelleria della stessa autorità giudiziaria.

7. Questo orientamento tradizionale e più volte ripetuto è stato recentemente disatteso da Cass., sez. lav., 11 giugno 2009, n. 13587, che all’opposto ha affermato che l’art. 82 r.d. 22 gennaio 1934 n. 37 – secondo cui i procuratori che esercitano il proprio ufficio in un giudizio che si svolge “fuori della circoscrizione del tribunale” al quale sono assegnati devono, all’atto della costituzione in giudizio, eleggere domicilio nel luogo dove ha sede l’autorità giudiziaria presso la quale il giudizio è in corso e, in mancanza dell’elezione di domicilio, questo si intende eletto presso la cancelleria della stessa autorità giudiziaria – si applica al giudizio di primo grado, come si evince dal riferimento alla “circoscrizione del tribunale” e trova applicazione al giudizio d’appello solo se trattasi di procuratore esercente fuori del distretto, attesa la rado della disposizione, volta ad evitare di imporre alla controparte l’onere di una notifica più complessa e costosa se svolta al di fuori della circoscrizione dell’autorità giudiziaria procedente e ad escludere un maggiore aggravio della notifica ove il procuratore sia assegnato al medesimo distretto ove si svolge il giudizio di impugnazione; ne consegue che, ove il procuratore sia esercente all’interno del distretto, la notifica della sentenza di primo grado effettuata presso la cancelleria della corte d’appello è inidonea a far decorrere il termine breve di sessanta giorni per l’impugnazione. Successivamente Cass., sez. 2, 12 maggio 2010, n. 11486, ha ritenuto di dover aderire a questo nuovo orientamento limitandosi a ribadire che il richiamato art. 82 si applica al giudizio di primo grado, come si evince dal riferimento alla “circoscrizione del tribunale”, e trova applicazione al giudizio di appello solo se trattasi di procuratore esercente fuori dal distretto (conf. da ultimo, Cass., sez. 3, 20 settembre 2011, n. 19125).

8. Il contrasto di giurisprudenza, denunciato dalla Sezione Lavoro con la citata ordinanza di rimessione della questione a queste Sezioni Unite, va risolto ribadendo l’orientamento tradizionale di cui si è finora detto.

L’interpretazione accolta da Cass. n. 13587/2009, che in realtà non costituisce un vero e proprio revirement perché non si pone in critico confronto con l’opposto orientamento fino ad allora seguito dalla giurisprudenza di questa Corte, offre una lettura dell’art. 82 che contrasta con la sua lettera. Afferma infatti che “la disposizione, facendo riferimento alla “circoscrizione del tribunale” si riferisce evidentemente al giudizio di primo grado.”.

Ma, in disparte il rilievo che il tribunale può essere anche giudice di secondo grado atteso che l’appello nei confronti delle sentenze del giudice di pace è deciso dal tribunale (art. 341 c.p.c.), il riferimento topografico alla “circoscrizione del tribunale” – come già sopra rilevato – vale ad identificare non già l’autorità innanzi alla quale è in corso il giudizio, bensì l’albo professionale al quale è iscritto l’avvocato, albo che è tenuto su base della circoscrizione di ciascun tribunale e non già del distretto della corte d’appello.

Invece per identificare il giudice innanzi al quale è in corso il giudizio l’art. 82 utilizza un termine assai ampio (autorità giudiziaria) che comprende sia il tribunale che la corte d’appello; ed in tanto non opera per la corte di cassazione perché è previsto un albo speciale ed una disposizione specifica (art. 366 c.p.c.).

Non può quindi dirsi che l’art. 82 sia stato dettato solo per il giudizio di primo grado.

Inoltre l’orientamento qui disatteso, se da una parte trae dal riferimento alla “circoscrizione del tribunale” una limitazione dell’operatività della regola processuale dettata dall’art. 82, confinandola al solo giudizio di primo grado, d’altra parte però non si limita a negarne l’applicazione al giudizio d’appello, ma per quest’ultimo individua un precetto similare affermando che l’onere di elezione di domicilio di cui all’art. 82 sussiste nel caso in cui l’avvocato non sia iscritto in nessun albo professionale di alcuna delle circoscrizioni che compongono il distretto della corte d’appello. Ossia l’art. 82 conterrebbe anche l’ulteriore regola per cui il procuratore iscritto in un distretto di corte d’appello diverso da quello dove ha sede la corte d’appello innanzi alla quale si svolge il giudizio d’appello deve eleggere domicilio nel luogo dove ha sede la corte d’appello presso la quale il giudizio è in corso. Ciò però non è affatto detto dall’art. 82 che non considera l’ipotesi del procuratore che esercita fuori distretto (della corte d’appello), ma solo quella del procuratore che esercita fuori circoscrizione (del tribunale). Per predicare la diversa regola processuale ritenuta dall’orientamento qui disatteso non vi è alcun aggancio testuale nell’art. 82 che, al fine dell’onere di elezione di domicilio, non contiene alcun riferimento al distretto; rilievo che appare insuperabile, tanto più che – come già notato – quando la legge professionale ha ritenuto rilevante la dimensione distrettuale, espressamente l’ha prevista (artt. 5 e 8 r.d.l. n. 1578/33).

Va quindi confermato l’orientamento in precedenza più volte affermato da questa corte, e sopra illustrato, alla stregua del quale deve ritenersi, nella specie, che il ricorso per cassazione sia stato correttamente notificato presso la cancelleria della corte d’appello dell’Aquila giacché il procuratore costituito dalla parte appellata ed attualmente intimata era assegnato alla circoscrizione del tribunale di Teramo nel cui territorio non ricadeva la sede della corte d’appello dell’Aquila. Quindi, ai sensi dell’art. 82 come sopra interpretato, tale procuratore aveva, nel giudizio d’appello, l’onere di eleggere domicilio nella sede dell’autorità giudiziaria innanzi alla quale si procedeva (L’Aquila). Non avendo ottemperato a tale onere, le notifiche potevano ritualmente essergli fatte presso la cancelleria della corte d’appello dell’Aquila; così anche la notifica del ricorso per cassazione.

9. Deve però aggiungersi che l’indirizzo giurisprudenziale, qui disatteso con conferma di quello tradizionale, esprime comunque un comprensibile disagio nel continuare a fare applicazione di una norma processuale “datata”, perché risalente negli anni, negli stessi termini in cui per lungo tempo è stata interpretata.

Le regole del processo civile però hanno carattere strumentale della tutela dei diritti e la loro interpretazione, rispetto all’evoluzione di questi (ossia delle situazioni sostanziali), è tendenzialmente stabile sicché la fedeltà ai precedenti (stare decisis), in cui si esprime la funzione nomofilattica di questa Corte, ha una valenza maggiore, così come è in linea di massima giustificato (e tutelabile) l’affidamento che le parti fanno nella stabilità dell’interpretazione giurisprudenziale delle regole del processo.

In proposito da una parte queste Sezioni Unite (sez un., 18 maggio 2011, n. 10864) hanno elaborato una sorta di principio di precauzione, affermando che dinanzi a due possibili interpretazioni alternative della norma processuale, ciascuna compatibile con la lettera della legge, le ragioni di economico funzionamento del sistema giudiziario devono indurre l’interprete a preferire quella consolidatasi nel tempo, a meno che il mutamento dell’ambiente processuale o l’emersione di valori prima trascurati non ne giustifichino l’abbandono e consentano, pertanto, l’adozione dell’esegesi da ultimo formatasi.

D’altra parte, da ultimo, si è dato ingresso ad un principio innovatore a tutela dell’affidamento delle parti nella stabilità delle regole del processo, avendo queste sezioni unite (sez un., 11 luglio 2011, n. 15144) ritenuto che il mutamento della propria precedente interpretazione della norma processuale da parte del giudice della nomofilachia, che porti a ritenere esistente, in danno di una parte del giudizio, una decadenza od una preclusione prima escluse, ove tale “overruling” si connoti del carattere dell’imprevedibilità, si giustifica una scissione tra il fatto (e cioè il comportamento della parte risultante “ex post” non conforme alla corretta regola del processo) e l’effetto, di preclusione o decadenza, che ne dovrebbe derivare, con la conseguenza che deve escludersi l’operatività della preclusione o della decadenza derivante dall'”overruling” nei confronti della parte che abbia confidato incolpevolmente (e cioè non oltre il momento di oggettiva conoscibilità dell’arresto nomofilattico correttivo, da verificarsi in concreto) nella consolidata precedente interpretazione della regola stessa, la quale, sebbene soltanto sul piano fattuale, aveva comunque creato l’apparenza di una regola conforme alla legge del tempo. Si tratta di una limitata applicazione della dottrina del c.d. prospettive overruling: l’atto processuale compiuto al tempo della precedente giurisprudenza non è travolto da decadenza (o preclusione) sulla base di una nuova giurisprudenza, se connotata da imprevedibilità, la quale, sotto questo limitato aspetto, opera, in un certo senso, solo per il futuro.

Dopo quest’ultimo arresto giurisprudenziale risulta evidenziata la simmetria del profilo diacronico nel parallelismo tra controllo di costituzionalità e sindacato di legittimità.

Da una parte è possibile che una disposizione, oggetto di censura, sia inizialmente legittima e solo nel tempo divenga costituzionalmente illegittima per il mutamento del contesto normativo. La giurisprudenza costituzionale ha infatti elaborato la categoria dell’incostituzionalità sopravvenuta talché, ricorrendo tale evenienza, la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale a partire da una certa data (cfr. da ultimo sent. n. 1 del 2012).

D’altra parte, sul piano del sindacato di legittimità, in particolare di questa Corte, è possibile non di meno ipotizzare che l’interpretazione di una disposizione muti nel tempo in ragione del diverso contesto normativo in cui si innesta e che quindi ci sia parimenti una modulazione diacronica del suo significato precettivo senza che ciò smentisca la natura meramente dichiarativa dell’interpretazione della legge fatta dalla giurisprudenza.

È questo il caso dell’art. 82 cit.

10. Deve infatti considerarsi che il quadro normativo in cui va letto l’art. 82 ha subito di recente una significativa evoluzione che rifluisce anche sull’interpretazione della disposizione stessa.

Dapprima il decreto-legge 29 dicembre 2009, n. 193 (Interventi urgenti in materia di funzionalità del sistema giudiziario), convertito in legge 22 febbraio 2010, n. 24, ha inserito un nuovo articolo – il 149-bis – nella sezione 4 “Delle comunicazioni e delle notificazioni” del libro 1 del codice di procedura civile; articolo, intitolato “Notificazione a mezzo posta elettronica”, che prevede, al primo comma, che, se non è fatto espresso divieto dalla legge, la notificazione può eseguirsi a mezzo posta elettronica certificata, anche previa estrazione di copia informatica del documento cartaceo.

Più recentemente il novellato art. 125 c.p.c., nel disciplinare il contenuto e sottoscrizione degli atti di parte, prescrive in generale che il difensore deve indicare l’indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine. Il periodo “Il difensore deve, altresì, indicare il proprio indirizzo di posta elettronica certificata e il proprio numero di fax” è stato aggiunto dall’art. 2, comma 35-ter, lett. a), d.l. 13 agosto 2011, n. 138, conv., con mod., dalla l. 14 settembre 2011, n. 148. Successivamente le parole “l’indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine” sono state così sostituite a quelle “il proprio indirizzo di posta elettronica certificata” dall’art. 25, comma 1, lett. a), l. 12 novembre 2011, n. 183. Per espressa previsione dell’art. 25, comma 5, l. cit.: “Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano decorsi trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge” (id est: 1 febbraio 2012 considerato che la legge è entrata in vigore il 1 gennaio 2012: art. 36). Tale prescrizione ha carattere generale e riguarda sia il giudizio di primo grado che quello d’appello. Quanto poi al giudizio di cassazione è stato parallelamente novellato anche l’art. 366 c.p.c. che ora prevede che se il ricorrente non ha eletto domicilio in Roma ovvero non ha indicato l’indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine, le notificazioni gli sono fatte presso la cancelleria della Corte di cassazione. Le parole “ovvero non ha indicato l’indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine” sono state inserite dall’art. 25, comma 1, lett. i), n. 1), l. n. 183/2011 cit., operante anch’esso decorsi trenta giorni dalla data di entrata in vigore della legge stessa. Quindi ora l’avvocato che difende davanti alla Corte di cassazione deve sì eleggere domicilio in Roma; ma ha un’alternativa: può indicare l’indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine.

Il progressivo mutamento del contesto normativo è poi alla base della sentenza n. 365 del 2012 della Corte costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 22, 4 e 5 comma, l. n. 689 del 1981 “nella parte in cui non prevede, a richiesta dell’opponente, che abbia dichiarato la residenza o eletto domicilio in un comune diverso da quello dove ha sede il giudice adito, modi di notificazione ammessi a questo fine dalle norme statali vigenti, alternativi al deposito presso la cancelleria”. L’art. 22 l. n. 689/1981, disposizione ora abrogata, prevedeva che se, nell’opposizione all’ordinanza-ingiunzione, mancava la dichiarazione di residenza o la elezione di domicilio, le notificazioni al ricorrente venivano eseguite mediante deposito in cancelleria. Analoghe censure di costituzionalità in passato erano state ritenute manifestamente infondate (ord. n. 231 del 2002). Nuovamente investita, la Corte ha tenuto conto proprio del mutato contesto normativo in cui si inseriva l’onere di elezione di domicilio previsto dalla disposizione censurata osservando infatti che, in considerazione dei mutamenti intervenuti recentemente nei sistemi di comunicazione, il legislatore aveva modificato il quadro normativo riguardante le notificazioni. Ha quindi affermato: “Le recenti modifiche del quadro normativo mostrano un favor del legislatore per modalità semplificate di notificazione, divenute possibili grazie alla diffusione delle comunicazioni elettroniche. Sia lo sviluppo tecnologico e la crescente diffusione di nuove forme di comunicazione, sia l’evoluzione del quadro legislativo, hanno reso irragionevole l’effetto discriminatorio determinato dalla normativa censurata, che contempla il deposito presso la cancelleria quale unico modo per effettuare notificazioni all’opponente che non abbia dichiarato residenza o eletto domicilio nel comune sede del giudice adito né abbia indicato un suo procuratore. L’art. 22, quarto e quinto comma, della legge n. 689 del 1981, pertanto, viola gli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non prevede, a richiesta del ricorrente, modi di notificazione ammessi a questo fine dalle norme statali vigenti, alternativi al deposito presso la cancelleria.”.

Marginalmente può ricordarsi che la stessa Corte, esercitando il suo potere regolamentare, ha novellato la disposizione che prevedeva per le parti l’onere di elezione di domicilio in Roma (in simmetria con l’art. 366 c.p.c.), lasciando solo l’onere di eleggere domicilio tout court (art. 3, Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale).

Ed allora – una volta che è divenuto operante in particolare il nuovo art. 125 c.p.c. con la previsione dell’obbligo del difensore di indicare negli atti di parte (citazione, ricorso, comparsa, controricorso, precetto) il proprio indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine, ciò che consente una modalità semplificata di notificazione (art. 149 bis c.p.c.), talché l’art. 366 c.p.c., che prescriveva analogo specifico onere di elezione di domicilio per il giudizio di cassazione, ha previsto l’indicazione dell’indirizzo di posta elettronica certificata come modalità alternativa alla domiciliazione – anche l’interpretazione dell’art. 82 cit., in chiave di prospective overrulling (ossia a partire dalla data suddetta – 1 febbraio 2012 -sicché non rileva ratione temporis nel caso di specie), va riadattata a questo mutato contesto normativo.

Si è infatti venuta a determinare una irragionevolezza intrinseca (giacché l’introduzione di una modalità di notificazione estremamente agevole, quale quella a mezzo di posta elettronica certificata, viene a soddisfare ex se l’esigenza di semplificazione e rapidità di comunicazioni e notificazioni, quale sottesa all’art. 82, non giustificandosi più, in tal caso, la domiciliazione ex lege in cancelleria), nonché un’ingiustificata differenziazione (perché per il giudizio di cassazione l’indicazione in ricorso dell’indirizzo di posta elettronica certificata già esclude la domiciliazione ex lege in cancelleria, mentre nel giudizio d’appello è espressamente previsto ex art. 125 solo l’obbligo di indicazione dell’indirizzo di posta elettronica certificata). In questo così modificato contesto normativo – che ha già visto un sostanziale overruling anche della giurisprudenza costituzionale (sent. n. 365 cit., rispetto alle ord. n. 231 del 2002 e n. 391 del 2007, cit.) con l’introduzione, con pronuncia additiva, di modalità alternative all’elezione di domicilio in caso di opposizione ad ordinanza ingiunzione – sarebbe di assai dubbia ragionevolezza (art. 3, primo comma, Cost.) e compatibilità con la garanzia della tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.) far derivare dalla mancata elezione di domicilio di cui all’art. 82 l’effetto della domiciliazione ex lege presso la cancelleria dell’autorità giudiziaria innanzi alla quale è in corso il giudizio anche nel caso in cui il difensore abbia indicato l’indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine; ciò che parimenti soddisfa l’esigenza sottesa all’art. 82 di semplificazione del procedimento di notificazione e comunicazione degli atti.

Occorre allora accedere all’interpretazione adeguatrice affermando che, in simmetria con l’art. 366 c.p.c. e coerentemente alla nuova formulazione dell’art. 125 c.p.c., anche ai sensi dell’art. 82 cit. all’onere dell’elezione di domicilio si affianca – a partire dall’entrata in vigore delle recenti modifiche delle disposizioni appena citate – la possibilità di indicazione dell’indirizzo di posta elettronica certificata (che, rispetto alla notifica in cancelleria, è più spedita ed offre una garanzia molto maggiore per l’avvocato destinatario della notifica). L’esigenza di coerenza sistematica e di interpretazione costituzionalmente orientata inducono a ritenere che, a partire dalla data suddetta, l’art. 82 cit. debba essere interpretato nel senso che dalla mancata osservanza dell’onere di elezione di domicilio di cui all’art. 82 per gli avvocati che esercitano il proprio ufficio in un giudizio che si svolge fuori della circoscrizione del tribunale al quale sono assegnati consegue la domiciliazione ex lege presso la cancelleria dell’autorità giudiziaria innanzi alla quale è in corso il giudizio solo se il difensore, non adempiendo all’obbligo prescritto dall’art. 125 c.p.c., non abbia indicato l’indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine.

11. Quindi conclusivamente – nel comporre il denunciato contrasto di giurisprudenza – può enunciarsi il seguente principio di diritto: “L’art. 82 r.d. n. 37 del 1934 – che prevede che gli avvocati, i quali esercitano il proprio ufficio in un giudizio che si svolge fuori della circoscrizione del tribunale al quale sono assegnati, devono, all’atto della costituzione nel giudizio stesso, eleggere domicilio nel luogo dove ha sede l’autorità giudiziaria presso la quale il giudizio è in corso, e che in mancanza della elezione di domicilio, questo si intende eletto presso la cancelleria della stessa autorità giudiziaria – trova applicazione in ogni caso di esercizio dell’attività forense fuori dalla circoscrizione cui l’avvocato è assegnato per essere iscritto al relativo ordine professionale del circondario e quindi anche nel caso in cui il giudizio sia in corso innanzi alla corte d’appello e l’avvocato risulti essere iscritto ad un ordine professionale di un tribunale diverso da quello nella cui circoscrizione ricade la sede della corte d’appello, ancorché appartenente allo stesso distretto della medesima corte d’appello. Tuttavia, dopo l’entrata in vigore delle modifiche degli artt. 366 e 125 c.p.c, apportate rispettivamente dall’art. 25, comma 1, lett. i), n. 1), l. 12 novembre 2011, n. 183, e dallo stesso art. 25, comma 1, lett. a), quest’ultimo modificativo a sua volta dell’art. 2, comma 35-ter, lett. a), d.l. 13 agosto 2011, n. 138, conv. in l. 14 settembre 2011, n. 148, e nel mutato contesto normativo che prevede ora in generale l’obbligo per il difensore di indicare, negli atti di parte, l’indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine, si ha che dalla mancata osservanza dell’onere di elezione di domicilio di cui all’art. 82 per gli avvocati che esercitano il proprio ufficio in un giudizio che si svolge fuori della circoscrizione del tribunale al quale sono assegnati consegue la domiciliazione ex lege presso la cancelleria dell’autorità giudiziaria innanzi alla quale è in corso il giudizio solo se il difensore, non adempiendo all’obbligo prescritto dall’art. 125 c.p.c., non abbia indicato l’indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine”.

12. Verificata l’ammissibilità del ricorso per essere rituale e tempestiva la sua notifica alla parte intimata presso la cancelleria della corte d’appello dell’Aquila, deve passarsi all’esame delle censure che esso muove alla sentenza impugnata.

Il ricorso – i cui motivi possono essere esaminati congiuntamente – è infondato.

13. Con valutazione di merito sorretta da motivazione sufficiente e non contraddittoria la corte d’appello ha escluso, al fine della valutazione della legittimità dell’Intimato licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il nesso di causalità tra l’avvenuta trasformazione in stagionale dell’attività della società e il recesso dal rapporto.

In particolare, mentre il giudice di primo grado aveva ritenuto la illegittimità del licenziamento argomentando che non era stata adottata la procedura sui licenziamenti collettivi, ricorrendone i presupposti, essendo stati licenziati 11 lavoratori, compresa l’odierna intimata, nell’arco di 120 giorni ed avendo la società una consistenza occupazionale maggiore di 15 dipendenti, la corte d’appello, dopo aver verificato che il licenziamento era stato in realtà intimato alla lavoratrice per giustificato motivo oggettivo e che quindi sì trattava di un licenziamento individuale e non già collettivo, ha comunque confermato la valutazione di illegittimità del recesso ritenendo insussistente il giustificato motivo oggettivo allegato dalla società.

La quale, essendosi determinata, nell’esercizio della sua libertà di impresa, a ridimensionare la sua attività (di gestione di villaggi turistici) trasformandola da annuale in stagionale, non era certo tenuta a conservare a tempo pieno tutto il suo personale anche per i mesi dell’anno in cui l’attività era sospesa. Correttamente la corte d’appello ha ritenuto che tale scelta di un diverso assetto economico-produttivo rientrasse nel potere discrezionale dell’imprenditore, non sindacabile in sede giudiziale. Tuttavia tale scelta doveva raccordarsi in concreto con la determinazione datoriale di risolvere il rapporto di lavoro. In proposito più volte questa corte (ex plurimis Cass., sez. lav., 22 agosto 2007, n. 17887) ha affermato che il licenziamento per motivo oggettivo determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva è scelta riservata all’imprenditore, quale responsabile della corretta gestione dell’azienda anche dal punto di vista economico ed organizzativo, sicché essa, quando sia effettiva e non simulata o pretestuosa, non è sindacabile dal giudice quanto ai profili della sua congruità ed opportunità. Nel caso di specie – ha ritenuto la corte d’appello con valutazione squisitamente di merito – la ragione fornita dalla società per giustificare il licenziamento era in realtà pretestuosa, perché la circostanza della trasformazione da annuale in stagionale dell’attività d’impresa non giustificava la risoluzione del rapporto con i lavoratori licenziati, giacché non solo la società aveva continuato ad utilizzare tutti i lavoratori anche dopo la variazione di attività (la licenza per l’attività stagionale è dell’ottobre 2004, mentre i licenziamenti sono del novembre 2005), ma inoltre, sia pure in un arco di tempo più limitato, la sua attività continuava a svolgersi, per cui la predetta trasformazione avrebbe giustificato l’offerta di una conseguente trasformazione dei rapporti di lavoro in part-time verticale in concomitanza con la delimitazione temporale dell’attività. Ossia – stante il c.d. obbligo di repèchage più volte predicato dalla giurisprudenza di questa corte in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo e per ragioni inerenti l’attività produttiva e l’organizzazione del lavoro (ex plurimis, Cass. sez. lavoro 28 marzo 2011, n. 7046 – la riduzione dell’attività da annuale a stagionale avrebbe giustificato la corrispondente riduzione del tempo di lavoro, anch’esso da annuale a stagionale.

Corretta quindi (nel senso di non contraddittoria) è l’inferenza deduttiva della corte d’appello che ha ritenuto non sussistere il nesso causale tra la trasformazione dell’attività della società da annuale in stagionale ed il licenziamento di tutti i lavoratori a tempo indeterminato senza che agli stessi venisse offerta, secondo correttezza e buona fede, una diversa modalità d’impiego e segnatamente la trasformazione in lavoro stagionale o part-time verticale.

Il licenziamento pertanto è stato dichiarato illegittimo non perché la corte d’appello abbia ritenuto censurabile la scelta imprenditoriale, sotto il profilo della congruità ed opportunità, di svolgere un’attività stagionale, scelta che rientrava senz’altro nella discrezionalità della società, ma perché quella corte, con valutazione di merito ad essa devoluta, ha ritenuto che non vi fosse nesso causale tra la scelta stessa ed il licenziamento della lavoratrice.

14. Parimenti rientra nella valutazione di merito della corte d’appello la ritenuta applicazione del regime di tutela c.d. reale della disciplina limitativa di licenziamenti individuali in ragione della sussistenza del requisito occupazionale (nella specie, occupazione di più di 15 dipendenti); valutazione di fatto peraltro confermativa di quella del giudice di primo grado che, seppur al diverso fine dell’applicabilità del regime di licenziamenti collettivi, parimenti aveva ritenuto sussistere tale requisito occupazionale. Mentre non rileva il giudicato formatosi inter alios in parallele, ma distinte, controversie tra la società ed altri lavoratori anch’essi licenziati nello stesso torno di tempo.

Giova solo ribadire che questa corte (ex plurimis Cass. sez. lav. 13 marzo 2008, n. 6754) ha più volte affermato che al fine dell’operatività della disciplina riguardante il regime di stabilità reale, il requisito dimensionale dell’impresa in rapporto al numero dei dipendenti occupati, stabilito dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970, come modificato dall’art. 1 della legge n. 108 del 1990, deve tenere conto dei lavoratori a tempo parziale in proporzione della sola quota di orario effettivamente svolto e tale modalità di calcolo va applicata, per non incorrere in irragionevoli e quindi costituzionalmente illegittime disparità di trattamento, anche in riferimento a periodi precedenti all’entrata in vigore dell’art. 6 del d.lgs. n. 61 del 2000, che una siffatta regola ha esplicitato. Cfr. anche Cass., sez. lav., 10 2 febbraio 2004, n. 2546, che, con riferimento proprio alla variabilità del livello occupazionale strutturalmente connessa al carattere dell’attività produttiva, quale quella alberghiera, che richiede normalmente il ricorso al contratto a termine o al part-time verticale, ha precisato che il riferimento al criterio medio-statistico della normale occupazione trova conferma nella specifica disciplina del part-time e, per l’individuazione dell’arco di tempo in cui calcolare tale media, il periodo temporale utilizzabile più appropriato è quello riferito all’anno. Sicché, con questa puntualizzazione, devono ritenersi computabili anche i lavoratori a termine o con part-time verticale.

15. Nulla ha provato la società quanto all’aliunde perceptum da conteggiare eventualmente in detrazione rispetto alle spettanze della lavoratrice illegittimamente licenziata.

Va ribadito (Cass., sez. lav., 9 aprile 2003, n. 5532) che il risarcimento dei danni spettanti al lavoratore illegittimamente licenziato, parametrato economicamente dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970 alla misura delle retribuzioni che il lavoratore avrebbe percepito qualora non fosse stato illegittimamente licenziato, può essere diminuito solo se il datore di lavoro assolve all’onere di provare che il lavoratore ha goduto, nel periodo dell’illegittimo licenziamento, di altra retribuzione in una diversa occupazione, che faccia diminuire l’ammontare dei danni subiti a causa del licenziamento (aliunde perceptum).

16. Il ricorso quindi è nel suo complesso infondato.

In mancanza di attività difensiva della parte intimata non occorre provvedere sulle spese processuali di questo giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte, a Sezioni Unite, rigetta il ricorso; nulla sulle spese di questo giudizio di cassazione.

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