Corte di Cassazione, sezione lavoro, Ordinanza 8 maggio 2018, n. 10964

Ordinanza 8 maggio 2018, n. 10964

Data udienza 30 gennaio 2018

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere

Dott. LORITO Matilde – Consigliere

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere

Dott. PICCONI Valeria – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA
sul ricorso 14720-2016 proposto da:
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS), giusta delega in atti;
– ricorrente –
contro
(OMISSIS) S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS), giusta delega in atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 357/2015 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE, depositata il 10/03/2016 R.G.N. 42/2015.

RILEVATO

che con sentenza in data 19 novembre 2015, la Corte di Appello di Trieste ha confermato la sentenza del locale Tribunale che aveva respinto la domanda proposta da (OMISSIS) nei confronti della (OMISSIS) S.p.A., volta ad ottenere la propria reintegra nel posto di lavoro ed il risarcimento del danno subito oltre alle retribuzioni non corrisposte, previa dichiarazione di nullita’ o illegittimita’ del licenziamento intimatogli e revoca delle sanzioni disciplinari irrogategli (procedimenti nn. 202/2007; 2/2008; 73/2008; 107/2008; 108/2008);
che avverso tale sentenza Massimo (OMISSIS) ha proposto ricorso affidato ad un motivo, corredato da memoria cui ha opposto difese l’intimata con controricorso corredato da memoria.

CONSIDERATO

che con l’unico motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione del Regio Decreto n. 148 del 1931, articolo 43, n. 3 e articolo 45, n. 11 nonche’ dell’articolo 2119 c.c., per aver la Corte territoriale ritenuto configurabile l’ipotesi dell’atto di grave insubordinazione, idoneo a determinare la destituzione ai sensi del Regio Decreto n. 148 del 1931, articolo 45, n. 11 in luogo della piu’ tenue fattispecie delle “minacce od ingiurie, gravi verso i superiori o altre mancanze congeneri” in ordine alle quali e’ prevista una sanzione conservativa dall’articolo 43 medesimo decreto, pur escludendo la recidiva (applicata in primo grado) e reputando irrilevante l’intervenuta condanna penale in relazione ai fatti intimidatori da lui posti in essere in danno di un superiore in data (OMISSIS);
che, secondo consolidata giurisprudenza di legittimita’, il vizio di violazione di norme di diritto consiste nella deduzione di un’erronea cognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa e’ esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura e’ possibile, in sede di legittimita’, sotto l’aspetto del vizio di motivazione; che il discrimen tra l’una e l’altra ipotesi e’ segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, e’ mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (cfr. Cass n 7394 del 2010; Cass. n 14468 del 2015); che, con particolare riguardo al licenziamento, questa Corte ha, poi, affermato che la giusta causa costituisce una nozione che la legge configura con una disposizione ascrivibile alla tipologie delle cosiddette clausole generali, elastiche, che richiede di essere specificata in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni, relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama (in questi termini, ex plurimis, Cass. 5 maggio 2016, n. 9062); che tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione e’ deducibile in sede di legittimita’ come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito (ex multis, Cass. 2 marzo 2011, n. 5095);
che il ricorrente, nella specie, deduce il vizio di falsa applicazione per erronea affermazione della ricorrenza della giusta causa, sul rilievo della necessita’ di una corretta qualificazione dei fatti posti a fondamento del licenziamento intimato e ritiene, quindi, che debba essere censurata l’operazione di sussunzione tesa ad inquadrare tali fatti nell’istituto giuridico della giusta causa;
che, tuttavia, nel far cio’, parte ricorrente formula censure alla ricostruzione dei fatti operata dalla Corte, che mirano ad una rivalutazione dei fatti stessi diversa;
che, in particolare, il ricorrente suggerisce una diversa valutazione del rilievo e della gravita’ del fatto ascrittogli, deducendo che l’aver tenuto una condotta aggressiva nei confronti del proprio superiore, invitandolo a “non rompere” (con i controlli) e dicendogli di essere a conoscenza del luogo in cui abita, in un contesto nel quale e’ insito un certo grado di violenza, non poteva essere ricondotto nell’ambito della insubordinazione ma avrebbe dovuto essere sussunto nelle minacce ad un superiore; che si tratta pertanto di doglianze che esulano dall’ambito del vizio di cui all’articolo 360 c.p.c., n. 3 poiche’ attengono alla interpretazione e valutazione dei fatti che per le sentenze pubblicate, come in quella in esame, dopo 111 settembre del 2012 e’ soggetta, quanto all’anomalia motivazionale, l’articolo 360 c.p.c., n. 5, nella formulazione introdotta con il Decreto Legge n. 83 del 2012, conv. con L. n. 134 del 2012;
che anche prima della riformulazione dell’articolo 360 c.p.c., n. 5, costituiva consolidato insegnamento che fosse sempre vietato invocare in sede di legittimita’ un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme rispetto a quello preteso dalla parte, perche’ non ha la Corte di cassazione il potere di riesaminare e valutare IL merito della causa, essendo la valutazione degli elementi probatori attivita’ istituzionalmente riservata al giudice di merito (ex plurimis, v. Cass. 17 novembre 2005, n. 23286; Cass. 18 maggio 2006, n. 11670; Cass. 9 agosto 2007, n. 17477; Cass. 23 dicembre 2009, n. 27162; Cass. 6 marzo 2008, n. 6064; Cass. sez. un., 21 dicembre 2009, n. 26825; Cass. 26 marzo 2010, n. 7394; Cass. 18 marzo 2011, n. 6288; Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197);
che, pertanto, non puo’ essere invocata una lettura delle risultanze probatorie difforme rispetto a quella operata dalla Corte territoriale, essendo la valutazione di tali risultanze – al pari della scelta di quelle, tra esse, ritenute piu’ idonee a sorreggere la motivazione – un tipico apprezzamento di fatto, riservato in via esclusiva al giudice del merito; (per tutte: Cass. 20 aprile 2012, n. 6260);
che nel sistema, l’intervento di modifica dell’articolo 360 c.p.c., n. 5, come recentemente interpretato dalle Sezioni Unite di questa Corte, comporta un’ulteriore sensibile restrizione dell’ambito di controllo, in sede di legittimita’, sulla motivazione di fatto, essendosi avuta (Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053) la riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimita’, per cui l’anomalia motivazionale denunciabile in questa sede e’ solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in se, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di sufficienza, nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili, nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile;
che, quindi, l’aver ritenuto la Corte territoriale la particolare gravita’ dell’atteggiamento intimidatorio del ricorrente, in quanto peraltro volto a far cessare i controlli nei propri confronti e, quindi, i rilievi disciplinari, in modo da sottrarsi al potere organizzativo, gerarchico e disciplinare del datore di lavoro, in quanto, cioe’, diretto alla grave insubordinazione, non appare censurabile in sede di legittimita’, non essendo consentito a questa Corte offrire una diversa valutazione di merito circa la stessa gravita’ del fatto ascritto in quanto idoneo ad inficiare irrimediabilmente il vincolo fiduciario ed essendo, comunque, la motivazione perfettamente in linea con la giurisprudenza di legittimita’;
che, pertanto, non puo’ essere ritenuta in questa sede invocabile la piu’ tenue figura delle minacce nei confronti di un superiore proprio alla luce dell’adeguata motivazione dei giudici di merito, del tutto immune da vizi logici, che ha ritenuto particolarmente grave la negazione del potere gerarchico e l’intenzione del ricorrente di contestare il potere stesso ed il proprio corrispondente dovere di obbedire;
che, in particolare, i giudici di merito, oltre a valutare la gravita’ del fatto in relazione a tutti gli elementi del caso concreto (portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, circostanze nelle quali sono stati commessi e intensita’ dell’elemento intenzionale, conformemente a quanto affermato, fra le altre, da Cass. 5 luglio 2016, n. 13676) hanno altresi’ accertato la proporzionalita’ tra tali fatti e la massima sanzione inflitta, sottolineando la riconducibilita’ del grave comportamento intimidatorio nella insubordinazione di cui al Regio Decreto n. 148 del 1931, articolo 45, n. 11 e valorizzando i pregressi precedenti, tutti aspetti idonei a far venir meno irrimediabilmente la fiducia del datore di lavoro, giustificando l’irrogazione della massima sanzione disciplinare; che, quindi, il ricorso deve essere respinto;
che si tratta, come e’ evidente, di doglianze che esulano dall’ambito del vizio di cui all’articolo 360 c.p.c., n. 3 poiche’ attengono alla intepretazione e valutazione dei fatti che per le sentenze pubblicate, come in quella in esame, dopo l’11 settembre del 2012 e’ soggetta, quanto all’anomalia motivazionale, l’articolo 360 c.p.c., n. 5, nella formulazione introdotta con il Decreto Legge n. 83 del 2012, conv. con L. n. 134 del 2012;
che, in ogni caso, la censura proposta si risolve in un tentativo di elusione della modifica legislativa dell’articolo 360 c.p.c., n. 5 per il tramite della violazione di legge;
che, quindi, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile;
che le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo;
che sussistono i presupposti di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, articolo 1, comma 17-

P.Q.M.

La Corte dichiara il ricorso inammissibile. Condanna parte ricorrente alla rifusione, in favore della parte contro ricorrente, delle spese del giudizio di legittimita’, che liquida in Euro 4500,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura 15% ed accessori secondo legge. Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1 quater da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis.

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