Amministratori della S.p.a., le loro funzioni

 

Amministratori della S.p.a., le loro funzioni

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A)  Introduzione

 

      Nel sistema tradizionale, accanto all’assemblea, altro organo essenziale delle S.p.A. è costituito dagli amministratori.

      L’amministrazione può essere affidata a persone fisiche, socie e non socie; a una sola persona o a più persone.

      Gli amministratori sono nominati dall’assemblea salvo eccezioni di legge (p.e., i primi amministratori che sono nominati nell’atto costitutivo).

      Compito fondamentale degli amministratori è quello di provvedere alla gestione della società, curandone gli aspetti direttivi, organizzativi, amministrativi, e contabili, e compiendo tutte le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale.

      In altre parole gli amministratori costituiscono l’organo cui è affidata la gestione dell’ente e la direzione dell’attività imprenditoriale.

      La legge (art. 2380-bis, comma III del c.c.) consente che l’organo amministrativo possa avere sia carattere unipersonale che collegiale. Nel secondo caso assume il nome di consiglio di amministrazione (cda – board).

      Quando si tratta di amministrazione collegiale, il numero dei componenti non è elemento essenziale dello statuto, potendo quest’ultimo determinare anche solamente il numero minimo e massimo (normalmente nello statuto compare anche una clausola che richiede il numero dispari dei componenti).

Spetta agli amministratori

A)  eseguire la volontà sociale, sia espressa dall’assemblea, sia da essi stessi estrinsecata;

B)  curare che l’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società si adeguato alla natura e alle dimensioni  della sua impresa;

C)  vigilare sulla regolare tenuta dei libri e delle scritture contabili;

D)  rappresentare la società nei confronti dei terzi;

E)   Compiere atti, normalmente attribuiti all’assemblea straordinaria.

Ad esempio spetta agli amministratori deliberare l’emissione di obbligazioni, attribuzione, in passato, tradizionalmente propria dell’assemblea straordinaria.

          Mentre nelle società di persone la nomina degli amministratori non è essenziale, nelle società per azioni l’organizzazione interna è stabilita dalla legge, la quale ha fissato gli organi e le loro funzioni.

art. 2380 c.c.   sistemi di amministrazione e di controllo: se lo statuto  non dispone diversamente, l’amministrazione e il controllo della società sono regolati dai successivi paragrafi 2,3 e 4.
Lo statuto può adottare per l’amministrazione e per il controllo della società il sistema di cui al paragrafo 5
(Sistema Dualistico————-), oppure quello di cui al paragrafo 6 (Sistema Monistico———-); salvo che la deliberazione disponga altrimenti, la variazione di sistema ha effetto alla data dell’assemblea convocata per l’approvazione del bilancio relativo all’esercizio successivo.
Salvo che sia diversamente stabilito, le disposizioni che fanno riferimento agli amministratori si applicano a seconda dei casi al consiglio di amministrazione o al consiglio di gestione.

 

 

B)  La natura giuridica del rapporto di amministrazione

Bisogna distinguere

1)   la posizione esterna (ossia nei confronti dei terzi)

2)   la posizione interna (ossia nei rapporti con la società)

A)   ORGANO DELLA SOCIETA’ –  sotto il primo aspetto (rapporti con i terzi) assume questa natura, poiché gli organi, in altri termini sono entità giuridicamente distinte dalla persona giuridica, costituendo, piuttosto, parti necessarie della sua struttura giuridica: sono la società stessa.

B)   MANDATARIO – sotto il secondo aspetto (rapporti con la società) –

In senso contrario –

1)   in primo luogo, gli amministratori non sono tenuti a compiere solo singoli, ben delimitati atti giuridici (al pari del mandatario), ma, piuttosto, una complessa attività di gestione analoga a quella dell’imprenditore individuale;

2)   in secondo luogo, le funzioni di gestione della società sono attribuite agli amministratori dalla legge stessa, in via esclusiva ed inderogabile, e non sulla base di un atto imputabile alla società o ai soci.

      Agli amministratori è preclusa soltanto (e non come al mandatario di compiere atti di straordinaria amministrazione) la possibilità di compiere atti che comportino modificazioni dello statuto essendo queste riservate all’assemblea straordinaria. E ciò al fine di evitare che gli amministratori siano, poi in sostanza, investiti di poteri effettivamente corrispondenti a quelli dell’imprenditore.

      Resta aperta la questione della natura giuridica del rapporto contrattuale (rapporto di natura obbligatoria, avente ad oggetto da un alto la prestazione d’opera e dall’altro la corresponsione di un compenso).

      È escluso che il rapporto fra amministratori e società possa configurarsi come un rapporto di lavoro subordinato, perché gli amministratori sono piuttosto parte essenziale della struttura del soggetto rispetto al quale occorrerebbe individuare tale condizione di subordinazione. Ma ciò non toglie che nella realtà si possa comunque dar vita ad un rapporto subordinato. Aprioristicamente non può essere escluso, infatti, secondo la S.C.[1], per la configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato fra un membro del consiglio di amministrazione di una società di capitali e la società stessa è necessario che colui che intende far valere tale tipo di rapporto fornisca la prova della sussistenza del vincolo della subordinazione.

Comunque, escludendo un rapporto in senso generale di subordinazione –

A)  parte della dottrina[2] allora sostiene che esso abbia natura di contratto d’opera, di cui all’art. 2222[3] c.c. –

B)  in giurisprudenza

1)   secondo un primo orientamento il rapporto sarebbe da inquadrarsi nella categoria dei rapporti di lavoro così detti parasubordinati (poiché è un’attività continua, prevalente e coordinata) – con la conseguenza che le controversi fra amministratori e società, riguardanti il rapporto contrattuale, sarebbero oggetto della disciplina del rito del lavoro (art. 409 c.p.c.).

Si arriva a tale affermazione a contrario in quanto secondo la S.C.[4] non è configurabile un rapporto di lavoro subordinato del componente del consiglio di amministrazione di una società di capitali quando –  secondo l’accertamento del giudice di merito, insindacabile in cassazione se sorretto da motivazione immune da vizi logici e giuridici — non sia provato che egli sia assoggettato al potere direttivo di controllo e disciplinare da parte di sopraordinati organi della società.

Con una precedente pronuncia[5] la medesima Corte stabiliva esplicitamente che la qualità di lavoratore subordinato non è compatibile con quella di amministratore unico della società di capitali datrice di lavoro, non essendo configurabile il vincolo di subordinazione ove manchi la soggezione del prestatore ad un potere sovraordinato di controllo e disciplina, escluso dalla immedesimazione in un unico soggetto della veste di esecutore della volontà sociale e di quella di unico organo competente ad esprimerla; né al riguardo possono distinguersi le ipotesi di assunzione della qualità di lavoratore subordinato da parte di chi sia già amministratore unico e di nomina del dipendente a tale carica, perché l’incompatibilità non investe la sola costituzione ma anche e soprattutto l’esecuzione del rapporto di lavoro.

Da ultimo la Corte di legittimità[6], ha però specificato che la qualità di amministratore di una società di capitali è compatibile con la qualifica di lavoratore subordinato della medesima solo ove sia accertata l’attribuzione di mansioni diverse dalle funzioni proprie della carica sociale rivestita. Nell’ipotesi in cui la suddetta diversità non sussista e si verifichi l’attribuzione soltanto delle funzioni proprie del rapporto organico la nullità del rapporto di lavoro avente ad oggetto tali funzioni non esclude il diritto al compenso eventualmente pattuito in favore degli amministratori della società.

2)   Per un secondo orientamento preferibile[7], invece, il rapporto rientrerebbe nell’ambito del lavoro professionale autonomo.

Ovvero, secondo la sezione lavoro della S.C., in una nota sentenza[8], il rapporto che lega l’amministratore, cui è affidata la gestione sociale, alla società è un rapporto di immedesimazione organica, che non può essere qualificato né rapporto di lavoro subordinato, né di collaborazione continuata e coordinata, orientando le prestazioni dell’amministratore piuttosto nell’area del lavoro professionale autonomo. Ne consegue che il disposto dell’art. 36, primo comma, relativo al diritto ad una retribuzione proporzionata e sufficiente, ancorché norma immediatamente precettiva e non programmatica, non è applicabile al rapporto di cui si tratta. É, pertanto, legittima la previsione statutaria di gratuità delle predette funzioni.

C)  altra parte della dottrina[9] contratto sui generis con l’applicazione di alcune norme proprie del mandato (o del contratto d’opera).

Importante è già sottolineare, anche se trattato in maniera articolata successivamente[10], che, secondo la sezione VIII[11] del Tribunale Italiano più attivo in materia societaria, ovvero quello Milanese, proprio in quanto il rapporto organico che si instaura in seguito alla nomina di un soggetto ad amministratore di una società non è equiparabile al rapporto di lavoro che può essersi parallelamente instaurato tra le stesse parti come dirigente, restando invero i due piani del rapporto concettualmente distinti e conseguentemente assoggettabili a regimi di protezione e di disciplina distinti e non sovrapponibili l’uno con l’altro; da tale premessa discende che in caso di utilizzo distorto della clausola simul stabunt simul cadent nei confronti di un amministratore che sia contemporaneamente dirigente della società, ossia di un uso di tale clausola in un contesto tendente a realizzare la revoca anticipata di un dato amministratore al fine di eliminare le naturali conseguenze onerose o le garanzie date dal confronto assembleare che la legge avrebbe riconosciuto a quest’ultimo – anche solo al fine di ottenere una congrua motivazione delle ragioni dell’anticipata risoluzione – pur operando tale meccanismo, dal punto di vista sostanziale, come un negozio indiretto – teso quindi all’utilizzo di un determinato modello negoziale per realizzare uno scopo che corrisponde non già alla causa tipica dello stesso, bensì a quella di un altro tipo negoziale, consentendo la realizzazione di un effetto “simulato” immediato, che non solo non sarebbe realizzabile mediante alcun tipo giuridico, ma che comunque corrisponderebbe ad un interesse giuridicamente non meritevole di tutela – lo stesso non determina, in via generale, la nullità dell’effetto di revoca conseguito, bensì unicamente l’applicazione in via analogica, per ciò che attiene alla struttura, alla forma ed agli elementi costitutivi della fattispecie, sia delle norme del tipo giuridico impiegato (la revoca), sia delle norme che ne regolano il risultato (l’indennizzo in caso di carenza di una giusta causa), ravvisabili nell’articolo 2383, comma 3, c.c.

C)   I requisiti soggettivi

art. 2382 c.c.   cause d’ineleggibilità e di decadenza: non può essere nominato amministratore, e se nominato decade dal suo ufficio, l‘interdetto, l‘inabilitato, il fallito, o chi è stato condannato ad una pena che importa l’interdizione, anche temporanea, dai pubblici uffici o l’incapacità ad esercitare uffici direttivi.

      Se i requisiti di eleggibilità sussistono al momento della nomina, ma vengono meno nel corso del rapporto gestorio, si verifica a carico dell’amministratore, un’ipotesi di decadenza dalla carica. La decadenza opera ex nunc, al verificarsi della sua causa, senza che sia necessario attenderne l’iscrizione nel registro delle imprese a cura degli amministratori, ai sensi dell’art. 2385, co III.

      Un caso specifico di decadenza è stato previsto  dalla Corte di Piazza Cavour[12] in una nota pronuncia secondo la quale il ricorso per cassazione proposto da una società per azioni è inammissibile se la procura speciale ex art. 365 c.p.c. non risulti conferita dall’organo al quale, in base al combinato disposto degli articoli 2380 e 2384 c.c. o a specifica norma statutaria è attribuito il potere di rappresentanza della società; e tale potere, poi, non è riconoscibile in capo a soggetto interdetto, nel periodo che rileva, dai pubblici uffici, poiché, ai sensi dell’art. 2382 c.c., la condanna a tale interdizione costituisce causa di decadenza dalla carica d’amministratore delle società di capitali, e comporta l’immediata ed automatica cessazione del rapporto organico tra questo e la società.

Alcune leggi speciali prevedono determinati casi d’incompatibilità (obbligano il soggetto ad optare tra l’uno o l’l’altro ufficio) con la carica di amministratore –

1)   impiegati dello stato –

2)   i membri del parlamento –

3)   il presidente e i membri della CONSOB –

4)   coloro che esercitano la professione di avvocato (amministratore con poteri rappresentativi e di gestione).

      È ammissibile  che si prevedano, con lo statuto, requisiti soggettivi ulteriori (e non il contrario) per la nomina di amministratore.

Infatti per la S.C.[13] i soci di una società per azioni hanno il potere di stabilire requisiti di eleggibilità degli amministratori (e correlativamente cause di decadenza) diversi (ed ulteriori) rispetto a quelli indicati nell’art. 2382 cod. civ., ma la permanenza in carica degli amministratori non può dipendere dalla mera volontà dei soci espressa uti singuli, atteso che la norma che riserva all’assemblea la nomina e la revoca degli amministratori è inderogabile e che le deliberazioni dell’assemblea debbono essere inderogabilmente prese con l’osservanza del metodo collegiale.

art. 2387 c.c.    requisiti di onorabilità, professionalità e indipendenza: lo statuto può subordinare l’assunzione della carica di amministratore al possesso di speciali requisiti di onorabilità, professionalità ed indipendenza, anche con riferimento ai requisiti al riguardo previsti da codici di comportamento redatti da associazioni di categoria o da società di gestione di mercati regolamentati. Si applica in tal caso l’articolo 2382.
Resta salvo quanto previsto da leggi speciali in relazione all’esercizio di particolari attività

 

      Secondo la dottrina maggioritaria si esclude che possa essere nominato amministratore una persona giuridica.

      In caso contrario (Campobasso), le funzioni amministrative verrebbero esercitate dagli amministratori della persona giuridica < amministrante > ossia da soggetti nominati e revocabili da terzi, con grave esautoramento  per la società < amministrata >.

      In altri termini, la persona giuridica nominata dovrebbe concretamente preporre all’amministrazione un’altra persona fisica da essa designata. La scelta del soggetto che effettivamente amministra la società verrebbe di conseguenza sottratta all’assemblea, in quanto l’amministratore persona giuridica avrebbe il potere di nominare e revocare in qualsiasi momento l’amministratore effettivo.

      Secondo, invece, la Commissione per la elaborazione di principi uniformi in tema di diritto societario presso il Consiglio notarile di Milano, con la massima n. 100[14]  si ammette la legittimità dell’amministratore persona giuridica purché si rispettino i limiti o i requisiti derivanti da specifiche disposizioni di legge per determinate tipologie di società

D) La nomina, la revoca, la sostituzione e la cessazione

art. 2383 c.c.   nomina e revoca degli amministratori: la nomina degli amministratori spetta all’assemblea, fatta eccezione per i primi amministratori, che sono nominati nell’atto costitutivo, e salvo il disposto degli articoli 2351, 2449 e 2450.
Gli amministratori non possono essere nominati per un periodo superiore a tre esercizi, e scadono alla data dell’assemblea convocata per l’approvazione del bilancio relativo all’ultimo esercizio della loro carica.
Gli amministratori sono rieleggibili, salvo diversa disposizione dello statuto, e sono revocabili dall’assemblea in qualunque tempo, anche se nominati nell’atto costitutivo, salvo il diritto dell’amministratore al risarcimento dei danni, se la revoca avviene senza giusta causa.
Entro trenta giorni dalla notizia della loro nomina gli amministratori devono chiederne l’iscrizione nel registro delle imprese indicando per ciascuno di essi il cognome e il nome, il luogo e la data di nascita, il domicilio e la cittadinanza, nonché a quali tra essi è attribuita la rappresentanza della società, precisando se disgiuntamente o congiuntamente.
Le cause di nullità o di annullabilità della nomina degli amministratori che hanno la rappresentanza della società non sono opponibili ai terzi dopo l’adempimento della pubblicità di cui al quarto comma, salvo che la società provi che i terzi ne erano a conoscenza.

      Per quanto riguarda l’accettazione la Corte del Palazzaccio[15] – essendo necessaria, avendo i poteri degli amministratori, fonte contrattuale — non richiede l’osservanza di specifiche formalità e può essere anche tacita, prescindendo dall’adempimento degli oneri pubblicitari di cui all’art. 2383, IV comma c.c.; in tal caso, l’accettazione può essere desunta da atti positivi incompatibili con la volontà di rifiutare la nomina e il relativo accertamento, investendo una questione di fatto, è incensurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivato.

      Il legislatore per la nomina, ha previsto alcune eccezioni alla competenza dell’assemblea ordinaria.

1)       nomina dei primi amministratori, che viene effettuata con l’atto costitutivo – art. 2328 c.c.

2)       costituzione per pubblica sottoscrizione, nella quale la nomina è fatta dall’assemblea dei sottoscrittori – art. 2335, co 1, n. 4 c.c.

3)       attribuzione allo Stato o ad enti pubblici del potere di nomina di uno o più amministratori nella società, sia nel caso in cui siano privi di tale partecipazione.

 

art. 2449 c.c.    società con partecipazione dello Stato o di enti pubblici: e lo Stato o gli enti pubblici hanno partecipazioni in una società per azioni, lo statuto può ad essi conferire la facoltà di nominare uno o più amministratori o sindaci ovvero componenti del consiglio di sorveglianza.
Gli amministratori e i sindaci o i componenti del consiglio di sorveglianza nominati a norma del comma precedente possono essere revocati soltanto dagli enti che li hanno nominati.
Essi hanno i diritti e gli obblighi dei membri nominati dall’assemblea.
Sono salve le disposizioni delle leggi speciali.

art. 2450 c.c.     amministratori e sindaci nominati dallo Stato o da enti pubblici: le disposizioni dell’articolo precedente si applicano anche nel caso in cui la legge o lo statuto attribuisca allo Stato o a enti pubblici, anche in mancanza di partecipazione azionaria, la nomina di uno o più amministratori o sindaci o componenti del consiglio di sorveglianza, salvo che la legge disponga diversamente.
Qualora uno o più sindaci siano nominati dallo Stato, il presidente del collegio sindacale deve essere scelto tra essi.

 

In merito la Corte Suprema[16], ad adunanza plenaria, ha affermato che la società per azioni con partecipazione pubblica non muta la sua natura di soggetto di diritto privato solo perché il Comune ne possegga, in tutto o in parte, le azioni: il rapporto tra società ed ente locale è di assoluta autonomia, al Comune non essendo consentito incidere unilateralmente sullo svolgimento del rapporto medesimo e sull’attività della società per azioni mediante l’esercizio di poteri autoritativi o discrezionali, ma solo avvalendosi degli strumenti previsti dal diritto societario, da esercitare a mezzo dei membri di nomina comunale presenti negli organi della società.

Ne consegue che rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la controversia avente ad oggetto la domanda di annullamento di provvedimenti comunali di non approvazione del bilancio e conseguente revoca degli amministratori di società per azioni di cui il Comune sia unico socio, costituendo gli atti impugnati espressione non di potestà amministrativa ma dei poteri conferiti al Comune dagli artt. 2383, 2458 e 2459 c.c., nella specie trasfusi nello statuto della società per azioni, e quindi manifestazione di una volontà essenzialmente privatistica, cosicché la posizione soggettiva degli amministratori revocati — che non svolgono né esercitano un pubblico servizio — è configurabile in termini di diritto soggettivo, dovendo inoltre escludersi la riconducibilità di detta controversia nel novero di quelle attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo dall’art. 33 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80 (novellato dall’art. 7 della legge 21 luglio 2000, n. 205).

4)    Cooptazione, prevista dall’art. 2386 c.c.

art. 2386 c.c. sostituzione degli amministratori : se nel corso dell’esercizio vengono a mancare uno o più amministratori, gli altri  (amministratori) provvedono a sostituirli con deliberazione approvata dal collegio sindacale (nomina per cooptazione), purché la maggioranza sia sempre costituita da amministratori nominati dall’assemblea. Gli amministratori così nominati restano in carica fino alla prossima assemblea.

 

Inoltre, per la S.C.[17], proprio come per la nomina la ratifica, ad opera dell’assemblea, della nomina dell’amministratore, in sostituzione di quello venuto a mancare nel corso dell’esercizio, deliberata ex art. 2386 I comma, c.c. dagli altri amministratori ed approvata dal collegio sindacale, può essere anche implicita, se fatta attraverso una formale delibera con oggetto diverso ma avente come presupposto il conferimento della carica sociale, così determinandosi ugualmente l’inserimento del preposto nella organizzazione sociale e la riferibilità alla società della sua attività.

5)    Una sorta di limitazione, ma che in realtà non lo è (poiché la nomina sempre in assemblea viene espressa), può essere la nomina di un amministratore in virtù di un patto parasociale. Orbene la nomina può essere già stabilita prima all’esterno dell’assemblea.

Difatti secondo la S.C.[18], con una recente sentenza, in tema di contratti cosiddetti “parasociali”, (e con riferimento alla disciplina applicabile prima della riforma introdotta dal d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6), è valido il patto avente ad oggetto l’espressione del voto nell’assemblea di una società per azioni, chiamata a nominare gli amministratori, anche se non sia stata prefissata la durata del vincolo assunto dalle parti ed operi perciò — in coerenza con l’art. 1375 c.c. e quantunque non contemplato in modo espresso — il principio generale in forza del quale ad ogni partecipante spetta il diritto di recedere unilateralmente dal patto per giusta causa o con congruo preavviso, da valutarsi, in difetto di previsione normativa o convenzionale, come tempo utile in relazione alla natura del rapporto e al tipo di interessi in gioco. Conseguentemente, il partecipante — il quale presenti all’assemblea una lista di candidati alla carica di amministratori di contenuto incompatibile con il rispetto del patto e poi esprima il proprio voto in contrasto con gli obblighi derivanti dall’adesione al patto medesimo — può essere chiamato dalle altri parti a risarcire i danni conseguenti al suo inadempimento, dovendosi escludere che tali comportamenti integrino una manifestazione tacita della volontà di recesso.

6)    Inoltre, in caso di emissione degli strumenti finanziari – artt. 2346 e 2349 c.c. – possono essere dotati del diritto di nominare alcuni componenti indipendenti del consiglio di amministrazione.

      Con una sentenza non molto recente la S.C.[19] ha avuto modo di stabilire che, in tema di nomina, da parte dell’assemblea dei soci, dell’amministratore di società per azioni, la clausola dello statuto, in forza della quale, in caso di parità di voti, deve intendersi eletto il «candidato maggiore azionista», con la consequenziale preferenza del candidato-azionista rispetto al candidato-non azionista, senza alcuna eccezione per l’ipotesi in cui il secondo sia rappresentante o mandatario del socio persona giuridica, non è affetta da nullità, sotto il profilo della violazione dei diritti dei soci, considerato che la clausola medesima, al fine di ovviare ai pericoli di ritardi o paralisi nella gestione sociale che il risultato paritario potrebbe comportare, si limita a derogare alla regola della rinnovazione della votazione fino al raggiungimento di una maggioranza, mentre non incide sulla facoltà di tutti i soci, incluse le persone giuridiche, di partecipare all’elezione, di indicare un proprio candidato, nonché di esprimere voti numericamente corrispondenti alle azioni possedute e di pari peso rispetto a quelli degli altri soci.

      Inoltre, per la stessa Corte[20], è legittima la clausola dell’atto costitutivo e dello statuto di una società a responsabilità limitata, la quale — ferma la necessità di indicare nell’atto costitutivo coloro che, per primi, vengono designati quali amministratori — preveda che la società possa essere amministrata da un amministratore unico, ovvero da un consiglio di amministrazione, rimettendo all’assemblea ordinaria la scelta in ordine alla concreta configurazione dell’organo ed al numero degli amministratori, in quanto questa previsione non vulnera gli interessi dei soci e dei terzi, tutelati dalla disciplina in materia di pubblicità, prevista anche in riferimento alle delibere dell’assemblea ordinaria (art. 2383, III comma, c.c., richiamato dall’art. 2487, c.c.), non rilevando, in contrario, che l’art. 2487, c.c. non richiama l’art. 2380, III comma, c.c., concernente la S.p.A., sia perché questa norma stabilisce esclusivamente che la fissazione del numero degli amministratori spetta all’assemblea ordinaria, qualora il numero non sia indicato nell’atto costitutivo, in virtù di una facoltà non prevista direttamente da detta disposizione, ma insita nel sistema, sia perché il mancato richiamo espresso nell’art. 2487, c.c., di una norma relativa alla S.p.A. non giustifica, da sola, l’inapplicabilità alla S.r.l., se l’estensione della disposizione non risulti in contrasto con le caratteristiche peculiari di questo tipo societario.

          Di contro secondo il Tribunale di Catania[21], con una pronuncia ante riforma, ad esempio il potere di designazione di alcuni amministratori, riservato dallo statuto di società cooperativa ad una categoria di soci, non può implicare un potere di nomina diretta, onde va disposta la cancellazione dal registro delle imprese dell’iscrizione dell’atto di nomina avvenuta in assenza di una deliberazione assembleare o consiliare ai sensi dell’art. 2386 c.c.

La revoca

Riguardo alla revoca è opportuno preliminarmente riportare ciò che la Cassazione ha affermato nel lontano 1995, ovvero: la norma che riserva all’assemblea la nomina e la revoca degli amministratori è inderogabile.

Le deliberazioni dell’assemblea debbono essere prese inderogabilmente con l’osservanza del metodo collegiale, il quale esclude che possa assumere rilevanza, una volontà espressa dai soci isolatamente, senza l’osservanza delle procedure che l’applicazione di tale metodo richiede: questo perché il principio di collegialità nella formazione della volontà dell’assemblea rappresenta uno dei tratti caratteristici ed essenziali dell’organizzazione corporativa delle società per azioni, la cui osservanza non può essere quindi rimessa alla volontà dei singoli soci. Se deve riconoscersi che i soci hanno il potere di stabilire requisiti di eleggibilità (e correlativamente cause di decadenza) diversi da quelli indicati dal legislatore nell’articolo 2382 del c.c., non può tuttavia ammettersi che, per tale via, possa giungersi a svuotare di ogni portata il principio che riserva alla competenza dell’assemblea la nomina e la revoca degli amministratori.

Dello stesso avviso è il Tribunale di Lodi[22] aggiungendo anche che il diritto di chiedere la revoca dell’amministratore della società non può formare oggetto di compromesso poiché (appunto) concernente un interesse protetto da norme inderogabili e come tale indisponibile, tuttavia in presenza di una clausola statutaria che preveda il deferimento ad arbitri di tutte le controversie nascenti dal contratto di società, pur restando l’azione finalizzata ad ottenere la revoca dell’amministratore estranea al campo di applicazione oggettivo di tale clausola, ne deriverà, dal punto di vista processuale, la conseguenza della sua necessaria proposizione in via autonoma innanzi al giudice ordinario anche nel caso in cui sussista un vincolo di connessione con altre domande ex art. 40 c.p.c., pena l’improponibilità delle domande vertenti su diritti disponibili ancorché connesse a quella non compromettibile, trovando in tal caso piena applicazione il principio in base al quale il compromesso per arbitrato irrituale implica una rinuncia dei contraenti alla tutela giurisdizionale che esclude l’applicazione della norma sulla connessione ex art. 40 c.p.c. alla controversia oggetto di compromesso; discende da tale impostazione che la domanda di risarcimento dei danni che si sono verificati proprio in conseguenza del fatto che l’amministratore non abbia gestito la società conformemente alle leggi, pur traendo la propria giustificazione dallo stesso evento che sorregge la richiesta di revoca, se proposta cumulativamente all’azione sociale innanzi al giudice ordinario – che rimane quello competente a decidere sui diritti indisponibili – dovrà essere dichiarata improponibile.

Ancora sotto un profilo introduttivo è opportuno specificare che secondo la Corte nomofilattica[23], come per l’accettazione della nomina, la revoca degli amministratori (che può dar luogo al risarcimento del danno ove avvenuta senza giusta causa) non deve essere necessariamente formalizzata in un’esplicita manifestazione di volontà, ma può anche avvenire in modo implicito[24], come nel caso in cui venga deliberata una riduzione dei membri del consiglio di amministrazione; in questo caso si verifica, infatti, una doppia caducazione: quella della precedente delibera, con la quale era previsto un più ampio numero di consiglieri, e quella degli amministratori in esubero rispetto al numero originariamente stabilito, la cui permanenza risulta incompatibile con il contenuto delle nuove decisioni assembleari.

Per di più[25] l’integrazione dell’efficacia della fattispecie prevista dall’art. 2383 c.c., per cui la revoca dell’amministratore deve essere sorretta da giusta causa, non richiede oltre la sussistenza anche la necessaria enunciazione all’atto della delibera di revoca dei motivi della stessa, tale enunciazione infatti, si pone come ulteriore fatto che può – ma non deve necessariamente – aggiungersi all’oggettiva esistenza della causa.

Ciò posto è opportuno elencare alcuni casi trattati dalla Suprema Corte e dai Tribunali di merito, come ad esempio secondo una prima pronuncia[26] la nomina, in seno ad una società di capitali, di un consiglio di amministrazione, del quale venga chiamato a far parte chi fino ad allora abbia espletato le funzioni di amministratore unico, comporta la revoca implicita di quest’ultimo da tale carica in quanto incompatibile con la successiva, non essendo ipotizzabile — dato il diverso contenuto di poteri esercitabili nell’uno e nell’altro caso — una continuità soggettiva nell’attività gestoria qualora all’organo monocratico si sostituisca l’organo collegiale, a nulla rilevando che al precedente amministratore unico siano attribuite le funzioni di amministratore delegato; ne consegue che, ove detta revoca implicita sia avvenuta senza giusta causa, all’amministratore spetta il diritto al risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 2383, terzo comma, cod. civ.

In senso generale, per la medesima Corte[27], la giusta causa della revoca dell’amministratore di società, che ai sensi dell’art. 2383, III comma, c.c. esclude il diritto dell’amministratore al risarcimento del danno prodotto dall’anticipato scioglimento del rapporto, può derivare anche da fatti non integranti inadempimento, ma richiede pur sempre un quid pluris rispetto al mero dissenso (alla radice di ogni recesso ad nutum), ossia esige situazioni sopravvenute (provocate o meno dall’amministratore stesso) che minino il pactum fiduciae, elidendo l’affidamento inizialmente riposto sulle attitudini e le capacità dell’organo di gestione, in modo tale da poter fondatamente ritenere che siano venuti meno, in capo allo stesso, quei requisiti di avvedutezza, capacità e diligenza di tipo professionale che dovrebbero sempre contraddistinguere l’amministratore di una società di capitali.

Ancora in tema di revoca per la Suprema Corte[28], la giusta causa può essere sia soggettiva che oggettiva, purché si tratti di circostanze o fatti sopravvenuti idonei ad influire negativamente sulla prosecuzione del rapporto; nel secondo caso, essa consiste in situazioni estranee alla persona dell’amministratore, quindi non integranti un suo inadempimento e sempre che ricorra un quid pluris (come già ampiamente specificato), cioè l’esistenza di situazioni tali da elidere il citato affidamento; ne consegue che le mere ragioni di convenienza economica addotte dalla società, con il richiamo alle perdite subite ed al fine di giustificare la modificazione dell’organo amministrativo da collegiale a monocratico invocando un risparmio di spesa, non integrano la nozione di giusta causa, discendendone così il diritto al risarcimento del danno ex art. 2383, III comma, c.c.

Sul punto è tornata la Cassazione, andando a specificare che:

Corte di Cassazione, sezione prima civile, sentenza 26 gennaio 2018, n. 2037

in caso di revoca dell’amministratore di societa’ azionaria, alla responsabilita’ contrattuale ex articolo 2383 c.c. relativa al lucro cessante per i compensi residui non percepiti, derivante dal fatto stesso del recesso senza giusta causa dal rapporto di amministrazione, puo’ aggiungersi la responsabilita’, sempre di natura contrattuale, per la violazione delle regole di buona fede e correttezza, oppure una responsabilita’ extracontrattuale della societa’, o di soggetti in concorso con essa, solo in presenza di condotte che costituiscano un quid pluris, diverso ed ulteriore, rispetto alla revoca in se’, come allorche’ le stesse ragioni esternate della revoca, in luogo che essere semplicemente insussistenti o inidonee a fondare il potere di recesso, oppure le concrete modalita’ della cessazione del rapporto, connotate da colpa o dolo, siano tali da ledere un diritto della persona (come onore, reputazione, identita’ personale, con le eventuali conseguenti ricadute patrimoniali) distinto dal diritto dell’amministratore alla prosecuzione della carica sino alla sua naturale scadenza.

Secondo una non recente sentenza di un Tribunale di merito[29], ad esempio, la configurabilità di una giusta causa oggettiva di revoca degli amministratori richiede l’esistenza di circostanze che, al di fuori di un inadempimento dell’amministratore agli obblighi di legge, non consentono la prosecuzione del rapporto, neanche in via temporanea, operando in modo tale da ostacolare la funzione economico giuridica del rapporto ed impedendo in definitiva alla società di realizzare i propri interessi. Ancora secondo lo stesso Tribunale[30] costituisce giusta causa di revoca dell’amministratore di una società per azioni, in quanto capace di minare le basi fiduciarie del rapporto tra proprietà e gestione, la radicale contrarietà manifestata dall’amministratore in ordine ad un’operazione giuridica di fondamentale importanza per la società, seguita da comportamenti del medesimo amministratore tali da ingenerare il sospetto di essere espressione di un atteggiamento ostruzionistico o, comunque, non connotato dalla risolutezza e dalla solerzia necessarie a condurre a compimento tale operazione.

Inoltre, ha avuto modo di stabilire la Corte di legittimità[31], allorché una società di capitali abbia deliberato la riduzione del numero dei componenti del consiglio di amministrazione, la riconducibilità di tale atto ad una più ampia direttiva generale emessa nell’ambito del gruppo societario di appartenenza, non vale ad escludere che sia configurabile una revoca dell’amministratore in esubero, in quanto le iniziative, anche legittime, dell’assemblea, che incidano, direttamente od indirettamente, sul termine originariamente fissato nella nomina, determinano il diritto al risarcimento del danno, allorché la revoca sia avvenuta senza giusta causa.

Rilevante risulta anche questa pronuncia di merito del Tribunale Milanese[32] secondo la quale l’iter procedimentale e decisionale con cui il consiglio di amministrazione di una società per azioni provvede alla revoca dei poteri delegati ad un singolo amministratore non è sindacabile nel merito. Ciò, in quanto ogni amministratore, per il rapporto esclusivamente fiduciario che lo lega alla società, può essere revocato in ogni tempo, restando salvo il diritto ad ottenere il risarcimento del danno in caso di revoca senza giusta causa.

Infine sempre per il medesimo Tribunale[33] di merito è opportuno differenziare, tra

1)   la fattispecie in cui venga revocato un componente del consiglio di amministrazione e

2)   quella in cui venga disposta anzi tempo la revoca delle deleghe operative ad uno degli amministratori intercorre una assoluta differenza di oggetto, natura e regime giuridico.

Nel primo caso, infatti, il consigliere è revocato con deliberazione dell’assemblea a ciò deputata, e la eventuale statuizione senza giusta causa espone la società alla richiesta di liquidazione del danno patrimoniale conseguito all’amministratore ingiustamente revocato, secondo l’espresso dettato dell’art. 2383 c.c. Nella seconda fattispecie, invece, disciplinata dalle norme di cui all’art. 2381 c.c., così come il consiglio di amministrazione è sovrano nel determinare il contenuto, i limiti e le modalità di esercizio delle deleghe operative, esso è del pari titolare del potere di liberamente revocarle.

In effetti ancora secondo il Tribunale[34] Lombardo la delega conferita dal CdA di una società può essere successivamente revocata o anche solo modificata, con la precisazione, tuttavia, che qualora ciò avvenga in mancanza di giusta causa, i delegati avranno diritto al risarcimento del danno, come previsto dall’art. 2383, comma terzo, c.c., quale norma in sintonia con la regola dettata dall’art. 1725 c.c. in tema di mandato oneroso. In tal senso, invero, il conferimento della delega è strettamente connesso al conferimento dell’incarico all’amministratore, ovvero alla scelta dell’amministratore per il perseguimento di un determinato obiettivo, tale che l’attribuzione delle deleghe si rivela strumentale al raggiungimento dell’indirizzo gestionale per il quale la persona in oggetto è, di fatto, stata scelta. Ciò considerato ne consegue che, salvo conferimento della delega per un tempo minore, la durata della stessa deve coincidere con la durata della permanenza in carica del delegato come amministratore, il quale, pertanto, qualora revocato prima della scadenza, avrà diritto al risarcimento del danno nei termini di cui innanzi.

In definitiva non è assolutamente pleonastico sottolineare, grazie ad un pronuncia del Tribunale napoletano[35], che si configura come pienamente legittima e non abilita alla richiesta di alcun risarcimento danni, la delibera con cui il consiglio di amministrazione revoca i poteri in precedenza conferiti ad uno degli amministratori, essendo la revoca atto di organizzazione insindacabile; espressamente peraltro è riconosciuto all’amministratore, ex art. 2383 c.c., il risarcimento del danno nel solo caso in cui venga disposta la revoca da amministratore – e non quindi la revoca dei soli poteri a lui delegati dal consiglio di amministrazione – e sempre che la revoca sia avvenuta senza giusta causa.

Per quanto riguarda, invece, la possibilità di impugnare la delibera di revoca, sul punto si è espresso il Tribunale di Foggia[36] a parere del quale la delibera assembleare di revoca del CdA nella parte inerente la revoca può essere validamente impugnata individualmente dai singoli amministratori, i quali non sono di converso legittimati attivamente per l’impugnativa degli altri profili di legittimità della deliberazione, che potranno essere azionati solo dal CdA inteso come organo collegiale.

In merito al risarcimento del danno previsto al II comma ex art. 2383 c.c. è confacente riportare una recentissima  sentenza della Corte Partenopea[37] secondo la quale con il D.Lgs. n. 6 del 2003 il legislatore ha inteso introdurre una disciplina processuale estensibile a tutte le controversie riconducibili a fattispecie regolate dal diritto societario, cioé dalla disciplina sostanziale delle società, tra le quali va certamente annoverata quella derivante dalla pretesa dell’amministratore revocato di una società per azioni di ottenere da quest’ultima il risarcimento dei danni subiti per effetto dell’assenza di una giusta causa di revoca del suo incarico, estensione che, peraltro, trova il suo fondamento nella previsione di cui all’art. 2383, co. III, c.c., nel testo risultante dalle modifiche apportatevi dal D.Lgs. n. 6 del 2003, cioé appunto in una norma sostanziale della disciplina codicistica concernente le società per azioni.

La Cessazione

art. 2385 c.c.    cessazione degli amministratori: l’amministratore che rinunzia all’ufficio deve darne comunicazione scritta al consiglio d’amministrazione e al presidente del collegio sindacale. La rinunzia ha effetto immediato, se rimane in carica la maggioranza del consiglio di amministrazione, o, in caso contrario, dal momento in cui la maggioranza del consiglio si è ricostituita in seguito all’accettazione dei nuovi amministratori.

La cessazione degli amministratori per scadenza del termine ha effetto dal momento in cui il consiglio di amministrazione è stato ricostituito.

La cessazione degli amministratori dall’ufficio per qualsiasi causa deve essere iscritta entro trenta giorni nel registro delle imprese a cura del collegio sindacale.

Mentre secondo il Tribunale Meneghino[38] in caso di rinuncia di un membro del collegio sindacale non trova applicazione il disposto dell’art. 2385 c.c. che prevede la prorogatio degli amministratori cessati, sia perché le esigenze di continuità dei due organi sono differenti, sia perché in caso di inerzia nell’integrazione del collegio sindacale si verrebbe a verificare un’ipotesi di scioglimento della società, scongiurandosi così la sopravvivenza di una società priva di (alcuni o di tutti) i membri dell’organo di controllo obbligatorio.

Secondo un’interpretazione ante riforma della Cassazione[39] la previsione dell’articolo 2385 del c.c., a tenore della quale la cessazione degli amministratori dalla carica ha effetto solo dal momento in cui l’organo amministrativo è stato ricostituito, risponde a un’evidente esigenza di continuità nel funzionamento della società e è volta a impedire, in occasione del ricambio delle cariche sociali, ogni rischio di paralisi dell’organo di gestione della società, la quale potrebbe altrimenti restare per del tempo priva di chi l’amministra e la rappresenta. Nulla, peraltro, consente di circoscrivere una tale esigenza alla sola amministrazione ordinaria, giacché è ben possibile che l’interesse al buon funzionamento della società richieda anche il compimento di atti di gestione straordinaria (pur sempre rientranti nei poteri conferiti dalla legge o dall’atto costitutivo) dopo la scadenza del termine di durata dell’organo, ma prima che l’assemblea abbia potuto provvedere al rinnovo della cariche, tenuto presente che il comma II dell’articolo 2385 del c.c. non limita in alcun modo i poteri spettanti agli amministratori nel cosiddetto “periodo di prorogatio“, lasciando così intendere che la proroga riguarda quei poteri nella loro completa estensione, cioè tal quali essi esistevano sin da principio in capo agli amministratori prorogati in carica.

In merito al potere di rappresentanza[40] è bene dire che tale potere cessa per effetto di un valido atto di rinuncia, senza che si renda a tal fine necessaria, salvo specifico patto, la sussistenza di una giusta causa o l’accettazione di quell’atto da parte dei soci.

Lo ha stabilito la S.C.[41], aggiungendo che l’art. 2385 c.c., infatti, a differenza dell’art. 2383 c.c., dettato per l’ipotesi di revoca dell’amministratore, non contempla fra i presupposti della rinuncia l’esistenza di una giusta causa e tale esclusione non prospetta nessuna violazione grave di principi generali, né alcuna ingiustificata carenza di tutela per la società, il cui interesse alla continuità dell’attività gestoria può facilmente essere soddisfatto con l’immediata sostituzione dell’amministratore; sicché deve escludersi la necessità di far ricorso all’applicazione analogica dell’art. 1720 c.c.

E)  La composizione dell’organo amministrativo

art. 2380 bis c.c.    amministrazione della società: la gestione dell’impresa spetta esclusivamente agli amministratori, i quali compiono le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale.
L’amministrazione della società può essere affidata anche a non soci
Quando l’amministrazione è affidata a più persone, queste costituiscono
il consiglio di amministrazione .
Se lo statuto non stabilisce il numero degli amministratori, ma ne indica solamente un numero massimo e minimo, la determinazione spetta all’assemblea [42]
.
Il consiglio di amministrazione sceglie tra i suoi componenti 
il presidente, se questi non è nominato dall’assemblea.

 

Nel sistema tradizionale l’organo amministrativo può essere unipersonale – amministratore unico – o pluripersonale – consiglio di amministrazione – metodo collegiale, per quanto riguarda la gestione dell’impresa sociale.

La delega delle attribuzioni

Il comitato esecutivo – gli amministratori delegati

art. 2381 c.c.   presidente, comitato esecutivo e amministratori delegati: salvo diversa previsione dello statuto, il presidente convoca il consiglio di amministrazione, ne fissa l’ordine del giorno, ne coordina i lavori e provvede affinché adeguate informazioni sulle materie iscritte all’ordine del giorno vengano fornite a tutti i consiglieri.
Se lo statuto o l’assemblea lo consentono,
il consiglio di amministrazione(1 A fase – AUTORIZZAZIONE[43])  può delegare proprie attribuzioni ad un comitato esecutivo[44] composto da alcuni dei suoi componenti, o ad uno o più dei suoi componenti (A. D.).

Il consiglio di amministrazione (2 A fase – DELIBERA)  determina il contenuto, i limiti e le eventuali modalità di esercizio della delega (3 A fase – ACCETTAZIONE – della carica da parte del consigliere  o dei consiglieri delegati) ; (LIMITI VOLONTARI)  può sempre impartire direttive  agli organi delegati e avocare a sé operazioni rientranti nella delega (da ciò si evince che, al tempo stesso, con la delega il consiglio non si spoglia dei suoi poteri ma conserva una competenza concorrente ad amministrare la società). Sulla base delle informazioni ricevute valuta l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società; quando elaborati, esamina i piani strategici, industriali e finanziari della società; valuta, sulla base della relazione degli organi delegati, il generale andamento della gestione.

(LIMITI LEGALI) Non possono essere delegate le attribuzioni indicate negli articoli  1) 2420 ter l’emissione di obbligazioni convertibili, 2) 2423 redazione del bilancio,  3) 2443 l’aumento del capitale sociale,  4) 2446 , 2447 la promozione dei provvedimenti prescritti nell’ipotesi di riduzione del patrimonio sociale a meno di 2/3 del capitale, 5)  2501 ter progetto di fusione e 2506 bis progetto di scissione.

Gli organi delegati (DOVERI)  curano che l’assetto organizzativo, amministrativo e contabile sia adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa e riferiscono (CORRETTA DIALETTICA)  al consiglio di amministrazione e al collegio sindacale, con la periodicità fissata dallo statuto e in ogni caso almeno ogni centottanta giorni, sul generale andamento della gestione e sulla sua prevedibile evoluzione nonché sulle operazioni di maggior rilievo, per le loro dimensioni o caratteristiche, effettuate dalla società e dalle sue controllate.
Gli amministratori sono tenuti ad agire in modo informato; ciascun amministratore può chiedere agli organi delegati che in consiglio siano fornite informazioni relative alla gestione della società.

 

      È possibile anche la coesistenza, nell’ambito dello stesso consiglio di amministrazione, del comitato esecutivo con uno o più amministratori delegati, con un’articolazione di competenze e funzioni che può risultare in concreto, anche molto complessa.

Secondo la Corte di Legittimità[45] l’art. 2392 c.c.[46], nel testo vigente anteriormente alle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 6 del 2003, impone a tutti gli amministratori un dovere di vigilanza sul generale andamento della gestione, che non viene meno nell’ipotesi di attribuzioni proprie del comitato esecutivo o di uno o più amministratori, a meno che essi non forniscano la prova che, pur essendosi diligentemente attivati a tal fine, non abbiano potuto esercitare la predetta vigilanza per il comportamento ostativo degli altri componenti del consiglio, dovendo comunque escludersi che essi possano invocare esenzione da responsabilità in riferimento ad addebiti concernenti la redazione del bilancio di esercizio, che costituisce un atto che involge la responsabilità dell’intero organo collegiale.

È bene precisare, inoltre, che in virtù dell’intervento della S.C.[47], in tema di sicurezza e di igiene del lavoro, nelle società di capitale il datore di lavoro si identifica con i soggetti effettivamente titolari dei poteri decisionali e di spesa all’interno dell’azienda, e quindi con i vertici dell’azienda stessa, ovvero nel presidente del consiglio di amministrazione, o amministratore delegato o componente del consiglio di amministrazione cui siano state attribuite le relative funzioni. L’espresso riferimento, contenuto nell’art. 2 del D.Lgs. n. 626/1994, al soggetto che ha la responsabilità dello stabilimento, implica che la nozione di datore di lavoro ai fini della sicurezza non coincide con quella di imprenditore di cui all’art. 2082 c.c., essendo possibile che specialmente nelle imprese di grandi dimensioni la responsabilità del singolo stabilimento gravi su un dirigente o un preposto. Nelle persone giuridiche e segnatamente nelle società di capitali, il datore di lavoro si identifica con i soggetti effettivamente titolari di poteri decisionali e di spesa all’interno dell’azienda e quindi con i vertici dell’azienda stessa, quali il presidente del consiglio d’amministrazione, l’amministratore delegato o un componente del consiglio d’amministrazione al quale siano state attribuite le relative funzioni o nel preposto ad un determinato stabilimento. Nell’eventualità di una ripartizione di funzioni e di compiti nell’ambito del consiglio d’amministrazione ai sensi dell’art. 2381 c.c., dei fatti illeciti compiuti dall’amministratore delegato o dal preposto ad un determinato stabilimento, risponde solo quest’ultimo, salvo che gli altri amministratori abbiano dolosamente omesso di vigilare o, essendo a conoscenza di atti pregiudizievoli per la società o dell’inidoneità del delegato, non siano intervenuti.

In assenza di un’espressa disciplina relativa alla durata della delega è da ritenersi che, quando all’atto del suo conferimento da parte del consiglio di amministrazione nulla sia stato stabilito, la delega sia a tempo indeterminato; efficace, cioè, fino a che gli organi delegati non siano revocati dal consiglio di amministrazione, ovvero non si verifichi una causa di cessazione.

Orbene secondo la S.C.[48] la responsabilità solidale degli amministratori a norma dell’art. 2392 c.c.[49] può essere in parte attenuata soltanto nelle ipotesi in cui la complessità della gestione sociale renda necessaria la ripartizione di competenze ed attività mediante ricorso ad istituti specifici, quali le deleghe di funzioni al comitato esecutivo o ad uno o più amministratori, attraverso una procedura formalizzata secondo la previsione dell’art. 2381 c.c.; è pertanto da escludere che, al di fuori delle ipotesi riconducibili al citato art. 2381 c.c., una divisione di fatto delle competenze tra gli amministratori, l’adozione, di fatto, del metodo disgiuntivo nell’amministrazione, o, semplicemente, l’affidamento all’attività di altri componenti il collegio di amministrazione, possano valere ad escludere la responsabilità di alcuni amministratori per le violazioni commesse dagli altri, posto che la condotta omissiva per affidamento a terzi, lungi dal comportare esclusione di responsabilità, può costituire invece ammissione dell’inadempimento dell’obbligo di diligenza e vigilanza.

F)  I poteri dell’organo amministrativo

      Il potere di gestione consiste nel potere deliberativo (o di amministrazione[50] o di decisione) degli amministratori, ossia nella facoltà di assumere le decisioni che incidono direttamente sull’organizzazione e sulla conduzione dell’impresa sociale.

La corte di Cassazione[51] ha anche specificato che quando l’attività di gestione di una società dotata di personalità giuridica è affidata ad un consiglio d’amministrazione si verifica (a differenza del caso dell’amministratore unico) una separazione del potere deliberativo, diretto a formare la volontà dell’ente, da quello di rappresentanza esterna, in quanto il primo appartiene al consiglio d’amministrazione, mentre il secondo spetta al presidente o all’amministratore cui esso sia stato espressamente conferito. Pertanto il contratto concluso dal presidente senza la ratifica del consiglio d’amministrazione, essendo stipulato da un rappresentante senza poteri, è inefficace per la società.

art. 2380 1 co bis c.c.    amministrazione della società: la gestione dell’impresa spetta esclusivamente agli amministratori, i quali compiono le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale.

Questo articolo va letto congiuntamente con l’art. 2364, co 1, n. 5.

art. 2364 c.c.     assemblea ordinaria nelle società prive di consiglio di sorveglianza: nelle società prive di consiglio di sorveglianza, l’assemblea ordinaria:

1) approva il bilancio;

2) nomina e revoca gli amministratori; nomina i sindaci e il presidente del collegio sindacale e, quando previsto, il soggetto incaricato di effettuare la revisione legale dei conti; (3)

3) determina il compenso degli amministratori e dei sindaci, se non è stabilito dallo statuto;

4) delibera sulla responsabilità degli amministratori e dei sindaci;

5) delibera sugli altri oggetti attribuiti dalla legge alla competenza dell’assemblea, nonché sulle autorizzazioni eventualmente richieste dallo statuto per il compimento di atti degli amministratori, ferma in ogni caso la responsabilità di questi per gli atti compiuti;

6) approva l’eventuale regolamento dei lavori assembleari.

L’assemblea ordinaria deve essere convocata almeno una volta l’anno, entro il termine stabilito dallo statuto e comunque non superiore a centoventi giorni dalla chiusura dell’esercizio sociale. Lo statuto può prevedere un maggior termine, comunque non superiore a centottanta giorni, nel caso di società tenute alla redazione del bilancio consolidato ovvero quando lo richiedono particolari esigenze relative alla struttura ed all’oggetto della società; in questi casi gli amministratori segnalano nella relazione prevista dall’articolo 2428 le ragioni della dilazione

      Ne segue che a differenza di quanto previsto prima della riforma del 2003, per statuto non è possibile riservare all’assemblea alcuna competenza in materia di gestione dell’impresa, perché le competenze dell’assemblea sono ora esclusivamente definite dalla legge.

      In difformità di quanto previsto, invece, in materia di Condominio, poiché la prima, fondamentale competenza dell’amministratore di Condominio, appunto, consiste nell’eseguire le deliberazioni dell’assemblea dei condomini (articolo 1130 c.c., comma 1, n. 1). Da tale disposto si evince che l’essenza delle funzioni dell’amministratore è imprescindibilmente legata al potere decisionale dell’assemblea: è l’assemblea l’organo deliberativo del condominio e l’organo cui compete l’adozione di decisioni in materia di amministrazione dello stesso, mentre l’amministratore riveste un ruolo di mero esecutore materiale delle deliberazioni adottate in seno all’assemblea. Nessun potere decisionale o gestorio compete all’amministratore di condominio in quanto tale e ciò a differenza di quanto accade nelle società, sia di persone che di capitali, dove all’amministratore competono poteri propriamente gestionali[52].

      Ciò che, invece, rimane possibile, con apposita previsione statutaria, è l’assoggettamento del compimento di determinati atti di gestione degli amministratori all’autorizzazione dell’assemblea.

      Tuttavia, anche in questo caso l’autorizzazione non priva tali atti della loro natura di atti propri degli amministratori; ciò significa che la loro iniziativa e le loro modalità di esecuzione rimangano pur sempre di esclusiva competenza degli amministratori.

      Inoltre, secondo la S.C.[53], è bene evidenziare che in tema di determinazione dei poteri attribuiti agli amministratori delle società di capitali, non trova applicazione la distinzione tra atti di ordinaria e straordinaria amministrazione prevista con riguardo ai beni degli incapaci dagli artt. 320, 374 e 394 c.c., dovendosi invece fare riferimento agli atti che rientrano nell’oggetto sociale – qualunque sia la loro rilevanza economica e natura giuridica – pur se eccedano i limiti della cosiddetta ordinaria amministrazione, con la conseguenza che, salvo le limitazioni specificamente previste nello statuto sociale, rientrano nella competenza dell’amministratore tutti gli atti che ineriscono alla gestione della società, mentre eccedono i suoi poteri quelli di disposizione o alienazione, suscettibili di modificare la struttura dell’ente e perciò esorbitanti (e contrastanti con) l’oggetto sociale.

Una deroga al principio di esclusività della gestione –

art. 2386 u.co. c.c. sostituzione degli amministratori : ……….l’assemblea per la nomina dell’amministratore o dell’intero consiglio deve essere convocata d’urgenza dal collegio sindacale, il quale può compiere nel frattempo gli atti di ordinaria amministrazione

Attuazione dell’oggetto sociale

Il giudizio sull’estraneità di un atto rispetto all’oggetto sociale non può essere dato in astratto, ma va riferito allo specifico determinato atto posto in essere; consiste, cioè, in un giudizio concreto sul singolo atto, in  riferimento all’effettivo oggetto sociale. Solo l’assenza di ogni sia pur minima strumentalità (o c.d. funzionalità) dell’atto rispetto all’oggetto sociale vale a configurarne l’illegittimità.

      Con riguardo alle conseguenze giuridiche degli atti compiuti dagli amministratori che siano estranei all’oggetto sociale, a seguito dell’eliminazione da parte del legislatore del 2003 dell’art. 2384 bis, l’estraneità all’oggetto sociale non incide più sui rapporti esterni (ossia tra società e terzi), in quanto il potere degli amministratori è generale, ma solo sui rapporti interni, tra amministratori e società.

      Per conseguenza, l’atto estraneo all’oggetto sociale rimane valido ed efficace nei rapporti con i terzi, ma espone gli amministratori all’azione di responsabilità, con eventuale condanna a risarcire il danno cagionato alla società (art. 2392 c.c.), nonché alla revoca dell’incarico per giusta causa (2383, co III, c.c.)

La Rappresentanza[54]

          La cura dei rapporti con i terzi spetta non già all’amministratore, in quanto tale, ma al rappresentante, che ha il potere di manifestare all’esterno la volontà sociale, determinata dall’assemblea o dallo stesso organo amministrativo, ponendo in essere i singoli atti giuridici in cui si concretizza l’attività sociale.

art. 2384 c.c.   poteri di rappresentanza: il potere di rappresentanza attribuito agli amministratori dallo statuto o dalla deliberazione di nomina è generale.
Le limitazioni ai poteri degli amministratori che risultano dallo statuto o da una decisione degli organi competenti non sono opponibili ai terzi, anche se pubblicate, salvo che si provi che questi abbiano intenzionalmente agito a danno della società.

Naturalmente nel caso in cui i due poteri (di gestione e di rappresentanza) spettino a soggetti distinti, è chiaro che il potere di rappresentanza non è esercitatile in maniera indipendente dal potere di gestione: un amministratore dotato di potere di rappresentanza, ma a cui non sia stato delegato nessun potere di gestione, prima di compiere l’atto nei confronti dei terzi, deve provocare una delibera autorizzativa del consiglio di amministrazione.

In caso contrario, l’atto è comunque valido e vincola la società nei confronti del terzo, ma l’amministratore si rende responsabile dell’eventuale danno nei confronti della società e può essere revocato per giusta causa.

Per la S.C.[55] ai fini della valutazione della pertinenza di un atto degli amministratori di una società di capitali all’oggetto sociale, e della conseguente efficacia dello stesso ai sensi dell’art. 2384 c.c., il criterio da seguire è quello della strumentalità, diretta o indiretta, dell’atto rispetto all’oggetto sociale, inteso come la specifica attività economica (di produzione o scambio di beni o servizi) concordata dai soci nell’atto costitutivo in vista del perseguimento dello scopo di lucro proprio dell’ente.

Non sono invece sufficienti, al predetto fine, né il criterio della astratta previsione, nello statuto, del tipo di atto posto in essere (in quanto, da un lato, la elencazione statutaria di atti tipici non potrebbe mai essere completa, data la serie infinita di atti, di vario tipo, che possono essere funzionali all’esercizio di una determinata attività, e, dall’altro, anche la espressa previsione statutaria di un atto tipico non assicura che lo stesso sia, in concreto, rivolto allo svolgimento di quella attività), né il criterio della conformità dell’atto all’interesse della società (in quanto l’oggetto sociale costituisce, ai sensi dell’art. 2384 c.c., un limite al potere rappresentativo degli amministratori, i quali non possono perseguire l’interesse della società operando indifferentemente in qualsiasi settore economico, ma devono rispettare la scelta del settore in cui rischiare il capitale fatta dai soci nell’atto costitutivo).

Principio, confermato anche da recente sentenza della Cassazione

Corte di Cassazione, sezione I civile, sentenza 12 dicembre 2016, n. 25409

Per la S.C.[56] si ha eccezione al secondo comma quando la clausola di uno statuto di una società prevede la firma congiunta degli amministratori ed è opponibile ai terzi, atteso che l’inopponibilità delle limitazioni dei poteri di rappresentanza, di cui al secondo comma dell’art. 2384 c.c. (nel testo sostituito dal d.P.R. 29 dicembre 1969 n. 1127 e prima delle modifiche apportate dalla legge 24 novembre 2000, n. 340), riguarda unicamente il contenuto della rappresentanza e non l’esistenza stessa del potere di rappresentanza, come si desume dalla duplice pubblicità (iscrizione nel registro delle imprese e menzione nel bollettino ufficiale delle spa e delle srl) cui viene sottoposta l’indicazione della titolarità (congiunta o disgiunta) della rappresentanza pluripersonale, in forza del combinato disposto degli artt. 2383 VI comma e 2457 ter c.c., attuativi della facoltà concessa al legislatore nazionale dall’art. 9 n. 3 della direttiva comunitaria 9 marzo 1968 n. 151, che consente agli stati membri di rendere opponibili ai terzi simili disposizioni statutarie alla condizione che siano rispettati gli adempimenti di pubblicità previsti dalla direttiva stessa.

Otre che agli amministratori la rappresentanza può esser conferita con apposita delibera –

1)  ai direttori generali

Sul tale possibilità con una recente pronuncia la Corte di Piazza Cavour[57] ha stabilito che in tema di società per azioni – secondo la disciplina del capo V del titolo V del libro V del codice civile prima della riforma del d.lgs. 17 gennaio 2003 n.6 e successive modifiche -, il potere del direttore generale di rappresentare verso l’esterno la società (inclusa la possibilità di rilasciare valida procura “ad litem“) può ritenersi sussistente soltanto se vi sia stata, in tal senso, una specifica attribuzione, statutaria o dell’organo amministrativo, o anche se tale potere inerisca, intrinsecamente, alla natura stessa dei compiti affidatigli. Può altresì presumersi quando il direttore generale alleghi, oltre a tale qualità, quella di legale rappresentante della società, spettando in tale ipotesi alla parte che ne contesti la sussistenza fornire la prova contraria. In tutti gli altri casi, tale potere rappresentativo deve ritenersi insussistente, esplicando il direttore generale attività meramente interna od esecutiva.

Inoltre[58], premesso che la persona fisica che si costituisce in giudizio per conto di una società dotata di personalità giuridica ha l’onere di allegare la qualità di legale rappresentante della società – assumendo rilevanza la prova di tale qualità solo nel caso che la stessa sia contestata dalla controparte -, tale allegazione, mentre può ritenersi implicita qualora si deduca di ricoprire la qualità di organo amministrativo della società (trattandosi di veste astrattamente idonea alla rappresentanza in giudizio della persona giuridica), deve essere, invece, esplicita – anche senza necessità di indicare la fonte del potere rappresentativo – nel caso di costituzione in giudizio di chi dichiari di rivestire la qualità di direttore generale della società. Il direttore generale, infatti, costituisce un organo con compiti di direzione interna, dotato del potere di rappresentare la società, anche processualmente, nei rapporti esterni con effetti vincolanti soltanto se sussiste, in tal senso, una specifica attribuzione statutaria, oppure un conferimento negoziale da parte dell’organo amministrativo, ovvero ancora se tale potere deriva dalla natura dei compiti affidatigli. Ne consegue che, in mancanza di tale esplicita allegazione, il ricorso per cassazione proposto dal direttore generale della società deve essere dichiarato inammissibile.

2)  ai dipendenti della società

3)  a soggetti completamente estranei alla società (procuratori esterni o per singoli affari)

      I limiti sono disciplinati sia dalle norme sulla rappresentanza in generale (artt. 1387 ss.) e anche dalle norme sulla rappresentanza commerciale (artt. 2203 ss.) oltre che dalla Statuto, infatti per la S.C.[59] in relazione alla regola di cui all’art. 2384, I comma, c.c., secondo cui gli amministratori della società per azioni che hanno la rappresentanza della società hanno il potere di agire e resistere in giudizio per le materie che rientrano nell’oggetto sociale senza necessità di alcuna preventiva delibera autorizzativa del consiglio di amministrazione o dell’assemblea dei soci, salve le limitazioni del potere di rappresentanza risultanti dall’atto costitutivo o dallo statuto, è necessario che queste limitazioni siano espresse e, conseguentemente, nella previsione statutaria della facoltà degli amministratori di procedere alla nomina di avvocati e procuratori alle liti dinanzi a qualsiasi autorità giudiziaria non può ravvisarsi un’implicita subordinazione dell’esercizio del potere di agire o resistere in giudizio, ad una previa deliberazione autorizzativa (con libertà di iniziativa dei rappresentanti legali solo quanto alla scelta dei legali). Tale principio trova applicazione anche nelle società cooperative, in base al richiamo contenuto nell’art. 2516 c.c., e ai fini della proposizione della querela di falso e della sottoscrizione del relativo atto dalla parte personalmente.

      Circa i limiti della delegabilità dei poteri per il compimento di degli affari nelle S.p.A., la dottrina e la giurisprudenza dominanti escludono che gli amministratori possano affidare a terzi la completa direzione dell’attività sociale, perché ciò comporterebbe lo svuotamento delle loro funzioni e la conseguente violazione del principio dell’esclusiva ed inderogabile competenza degli amministratori nell’esercizio della funzione amministrativa.

      È giusto anche sottolineare, in virtù di una pronuncia della Corte di Legittimità[60], poiché in tema di società di capitali, ai fini dell’opponibilità al terzo contraente delle limitazioni dei poteri rappresentativi, l’articolo 2384 comma II, del c.c, richiede la sussistenza di un elemento di natura soggettiva, che consiste non nella mera conoscenza dell’esistenza di tali limitazioni da parte del terzo ma nella sussistenza di un accordo fraudolento, o quanto meno, la consapevolezza di una stipulazione potenzialmente generatrice di danno per la società, correttamente il giudice del merito, accertata l’inesistenza in concreto di un danno, per la società, ritiene inutile l’indagine diretta ad accertare se nella specie ricorre il ricordato elemento soggettivo.

      Inoltre sempre per la S.C. in tema di rappresentanza, nei contratti aventi ad oggetto il trasferimento di beni immobili la contemplatio domini – necessaria anche nel caso di rappresentanza sociale – pur non richiedendo l’uso di formule sacramentali, deve risultare ad substantiam dallo stesso documento comprovante il contratto, restando irrilevante la conoscenza o l’affidamento, da parte del terzo contraente, in ordine all’esistenza del rapporto rappresentativo.

art. 2384 bis c.c.    atti che eccedono i limiti dell’oggetto sociale: l’estraneità all’oggetto sociale degli atti compiuti dagli amministratori in nome della società non può essere opposta ai terzi in buona fede.

In tema è intervenuta con ampia ed esaustiva sentenza la Cassazione

Corte di Cassazione, sezione I, sentenza 3 febbraio 2014, n. 2320

la quale, dissertando autorevolmente sul punto, ha stabilito il seguente principio: nel regime anteriore alla riforma di cui al Decreto Legislativo 17 gennaio 2003, n. 6, ancorche’ l’oggetto sociale costituisca l’ambito dell’attivita’ programmata dai soci nell’intrapresa comune, l’organo amministrativo puo’ efficacemente porre in essere un atto che non risulti direttamente volto a perseguire quel programma, purche’ sussista una deliberazione espressa in tal senso dell’assemblea (sebbene non assunta necessariamente con l’unanimita’ dei consensi di tutti i soci, ma con le maggioranze dell’assemblea ordinaria, e salvo il diritto dei soci assenti o dissenzienti e degli altri legittimati attivi ad impugnarla), onde l’atto in questione impegna la societa’ e resta ad essa opponibile.

In generale nella sentenza in commento si legge che per la S.C. l’articolo 2384 bis c.c., nel testo previgente, costituisce una norma di equilibrio del conflitto tra l’interesse della societa’ a non essere vincolata dagli impegni ultra vires, assunti dai propri amministratori, e quello dei terzi al rispetto dei medesimi impegni.
Dall’integrazione degli elementi costitutivi della fattispecie – l’estraneita’ dell’atto all’oggetto sociale e la mala fede del terzo – deriva l’opponibilita’ al terzo di quell’estraneita’: in tal modo, essa percio’ sancisce la regola della piena efficacia dell’atto, mentre la tutela dell’interesse della societa’ all’inefficacia degli atti ultra vires compiuti dal suo amministratore regredisce di fronte dell’interesse del mercato alla certezza dei traffici giuridici.

Nel bilanciamento fra l’interesse della societa’ a svincolarsi dall’impegno assunto e quello dei terzi a mantenerlo fermo, l’articolo 2384 bis ha dunque gia’ operato la scelta nel senso di far prevalere il secondo, salvo il limite della particolare situazione soggettiva (la mala fede, nel sistema ante riforma) che, allora, non giustifica piu’ la tutela del suo affidamento.
Si trae da cio’ il netto favor verso l’efficacia e la sicurezza dei traffici commerciali, rispetto alla facolta’ per la societa’ di sottrarsi all’adempimento delle obbligazioni assunte dal suo rappresentante legale allegando l’estraneita’ dell’atto all’oggetto sociale. Tale ratio non puo’ che guidare, dunque, l’interpretazione della norma nei casi concreti.
La riforma del 2003 ha, com’e’ noto, in vario senso inciso su questa disciplina, anche introducendo differenze tra il regime delle s.p.a. e quello delle s.r.l. (articolo 2380 bis, che, con formula apparentemente piu’ restrittiva, non menziona piu’ il compimento degli atti rientranti nell’oggetto sociale, ma quelli necessari per il suo conseguimento; articolo 2364 c.c., comma 1, n. 5; articolo 2479 c.c., comma 1, e comma 2, n. 5). Connesso a tale enfatizzazione dell’autonomia dell’organo amministrativo e’ l’ancor piu’ netto favor per l’inopponibilita’ dell’estraneita’ dell’atto al terzo, se non quando abbia intenzionalmente agito a danno della societa’ (articolo 2384 c.c.).

Ove si tratta del compimento di un singolo atto non rientrante propriamente nell’oggetto statutario, situazione pur nota al terzo (articolo 2384 bis c.c.), l’autorizzazione assembleare e’ stata ritenuta in passato dalla medesima Corte escluderne l’inopponibilita’ alla societa’.
Si e’, invero, in tale regime piu’ volte affermato che, nelle societa’ di capitali, in presenza di un atto eccedente dai limiti dell’oggetto sociale, e’ rimesso esclusivamente alla societa’ di respingere gli effetti dell’atto o, correlativamente, di assumere ex tunc quegli effetti attraverso la ratifica, ovvero di farli preventivamente propri’ attraverso una deliberazione autorizzativa, capace di rimuovere i limiti del potere rappresentativo dell’amministratore: ne deriva che ogni questione relativa all’estraneita’ dell’atto diviene irrilevante, posto che quella delibera impegna la societa’ medesima alla condotta di essa esecutiva e conforme posta in essere dall’organo di gestione.

Il principio ora richiamato si è fatto discendere dal rilievo che, se l’inefficacia dell’atto estraneo all’oggetto sociale e’ prevista dal legislatore quale conseguenza del regime della rappresentanza, qualora il rappresentato – previamente o successivamente con la ratifica – faccia proprio l’atto del rappresentante, non vi e’ lesione dell’interesse tutelato e si pone il problema dell’inefficacia dell’atto nei confronti del terzo; ne’ il rapporto organico tra la societa’ di capitali e i suoi amministratori trova ragioni di incompatibilita’ con la disciplina sul potere di rappresentanza (articolo 2384 c.c.).
In tal senso e’ la giurisprudenza di legittimita’ maggioritaria (Cass., sez. 1, 15 aprile 2008, n. 9905; sez. 1, 11 dicembre 2006, n. 26325, che lo nega per l’autorizzazione del ed.a.; sez. 1, 2 settembre 2004, n. 17678, sulla delibera autorizzativa assunta dall’assemblea totalitaria all’unanimita’; v., inoltre, sez. 1, 3 marzo 2010, n. 5152, sulla validita’ di clausola statutaria che, con riferimento all’eventuale compimento di atti estranei all’oggetto sociale, circoscriva i poteri dell’organo amministrativo agli atti di ordinaria amministrazione, sulla premessa che l’atto estraneo non e’ nullo, ma inefficace).

Il Collegio ha inteso pertanto, dare continuita’ all’orientamento prevalente in tema di deliberazione autorizzativa dell’atto estraneo all’oggetto sociale nel regime ante riforma, con alcune precisazioni.
Occorre distinguere il profilo interno organizzativo della vita sociale e quello esterno dell’attivita’ sul mercato dell’ente collettivo.

Nella prima prospettiva, l’assemblea e’ indubbiamente vincolata al rispetto dell’oggetto statutario, quale programma imprenditoriale prescelto al momento della costituzione della societa’ o successivamente modificato, in entrambi i casi con la necessita’ degli adempimenti pubblicitari (ad effetti costitutivi, per il nuovo articolo 2436 c.c.) nei confronti dei terzi mediante l’iscrizione nel registro delle imprese.
Pertanto, la deliberazione assembleare che autorizzi il compimento di un atto estraneo all’oggetto sociale puo’ essere impugnata dai soci assenti o dissenzienti e da ogni altro legittimato attivo, quali gli amministratori ed il collegio sindacale (articolo 2377 c.c., comma 2).
Peraltro, ai fini di valutare se procedere all’impugnazione, i legittimati attivi dovranno valutare altresi’

1) se quell’estraneita’ sussista in concreto,

2) o viceversa debba essere esclusa, in ragione vuoi di un legame di strumentalita’ comunque ravvisabile con l’attivita’ svolta dalla societa’, vuoi per la partecipazione ad un gruppo d’imprese.

Sotto il primo profilo, il limite agli atti gestori intra vires è posto ad evitare che la società assuma un maggiore rischio imprenditoriale in conseguenza del compimento di atti estranei al suo programma, come enunciato nell’oggetto statutario, che ne descrive l’attivita’ economica imprenditoriale. Con riguardo, in particolare, all’estraneita’ all’oggetto della concessione di garanzie per debiti altrui, divengono cosi’ rilevanti i rapporti concreti esistenti tra societa’ garante e debitore garantito, i quali sono in grado di illuminare l’oggettiva funzione economica della garanzia prestata, ossia la sua causa concreta.

L’indicazione, nella clausola statutaria sull’oggetto sociale, della concessione di determinati tipi di garanzie (ove beninteso non costituisca l’oggetto principale, peraltro riservato agli intermediari debitamente autorizzati) non e’, in verita’, neppure necessaria, dal momento che non rileva il profilo formale del tipo contrattuale ivi enunciato, ma quello sostanziale, in dottrina ricondotto al principio di normalita’ dell’operazione rispetto al tipo di attivita’ svolta; mentre l’elencazione statutaria di atti tipici, piu’ o meno genericamente definiti, non puo’ sostituire tale criterio concreto, giacche’, da un lato, essa non potrebbe mai essere completa, data la serie infinita di atti di vario tipo che possono essere funzionali all’esercizio di una determinata attivita’ e, dall’altro, anche l’espressa previsione statutaria di un atto tipico, in particolare di garanzia, non assicura che lo stesso sia, in concreto, rivolto allo svolgimento di quell’attivita’ (in tal senso, Cass., sez 1, 4 agosto 2006, n. 17696; sez. 1, 21 novembre 2002, n. 16416).
Sotto il secondo profilo, ove la societa’ sia altresi’ inserita in un gruppo d’imprese, anche con riguardo all’inerenza all’oggetto sociale esso puo’ assumere rilievo, dovendo in tal caso l’estraneita’ dell’atto essere ragguagliata non all’oggetto statutario della societa’ monade, ma al programma imprenditoriale complessivo del gruppo ed ai vantaggi che, anche indirettamente, ne scaturiscano per la societa’ agente (cfr., in tema, fra le altre Cass., sez. 1, 14 ottobre 2010, n. 21250; sez. 1, 4 agosto 2006, n. 17696; sez. 1, 24 febbraio 2004, n. 3615; sez. 1, 15 giugno 2000, n. 8159), dovendosi sempre operare tale valutazione alla stregua della causa in concreto della complessiva operazione gestoria o nell’ambito dell’intera gestione imprenditoriale e della realizzazione delle strategie economiche del gruppo.
In definitiva, la deliberazione assembleare che abbia autorizzato un atto estraneo all’oggetto sociale e’ annullabile per violazione dell’atto costitutivo e come tale potra’ essere impugnata; ma, ove non lo sia, scaduti i termini per impugnare si opera il c.d. consolidamento dei suoi effetti (con conseguenze gia’ sull’adempimento degli amministratori ai propri doveri con diligenza, ai fini degli articoli 2383, 2392, 2409 c.c.).

Dall’altro lato, quanto al profilo dei rapporti esterni, l’orientamento della Corte, comporta che, se la societa’ agisce a mezzo dei suoi amministratori, l’integrazione del potere statutario di rappresentanza – delimitato dall’oggetto sociale – puo’ pervenire dall’assemblea dei soci.

Sebbene questa non si identifichi con la societa’, tuttavia resta titolare del potere di assumere le decisioni concernenti la vita sociale, eventualmente sottoposte ad essa dagli amministratori (articolo 2364 c.c., comma 1, n. 4, nel testo all’epoca vigente), perche’ l’assemblea e’ l’organo capace di esprimere le scelte dell’impresa sociale, onde la sua determinazione non puo’ restare irrilevante ai fini del valore verso i terzi dell’atto poi compiuto dagli amministratori che quel volere eseguano. Ancora piu’ arduo risulta distinguere – a danno della sicurezza dei traffici – il volere della societa’ da quello dei soci, quando la deliberazione (o la decisione) sia assunta all’unanimita’ dei consensi di tutti i soci.
Ne’, a tal fine, e’ necessaria una deliberazione modificativa dell’oggetto sociale previsto nell’atto costitutivo, in quanto e’ sufficiente l’autorizzazione senza riserve dell’assemblea dei soci (e tanto piu’ dell’assemblea totalitaria all’unanimita’ o di ciascuno dei soci anche al di fuori di una riunione assembleare).
Si aggiunga che il terzo, il quale contratti con la societa’ dopo l’autorizzazione assembleare, appare – seppur a conoscenza dell’estraneita’ dell’atto – legittimato a riporre un ragionevole affidamento circa la validita’ ed efficacia dello stesso; e che il principio dell’esecuzione di buona fede nei rapporti negoziali, di cui la regola del divieto di venire cantra factum proprium costituisce una specifica espressione, riguarda anche l’agire della societa’ per il tramite dei suoi organi sul mercato.
Occorre concludere, pertanto, riportando nuovamente il principio di diritto secondo cui, nel regime anteriore alla riforma di cui al Decreto Legislativo 17 gennaio 2003, n. 6, ancorche’ l’oggetto sociale costituisca l’ambito dell’attivita’ programmata dai soci nell’intrapresa comune, l’organo amministrativo puo’ efficacemente porre in essere un atto che non risulti direttamente volto a perseguire quel programma, purche’ sussista una deliberazione espressa in tal senso dell’assemblea (sebbene non assunta necessariamente con l’unanimita’ dei consensi di tutti i soci, ma con le maggioranze dell’assemblea ordinaria, e salvo il diritto dei soci assenti o dissenzienti e degli altri legittimati attivi ad impugnarla), onde l’atto in questione impegna la societa’ e resta ad essa opponibile.

La tutela della società nel caso di atti  estranei al potere di rappresentanza

      La società non può opporre ai terzi la circostanza che l’atto compiuto sia estraneo all’oggetto sociale, ma può solo agire verso gli amministratori che l’hanno posto in essere, con un’eventuale azione di responsabilità, al fine di ottenere il risarcimento dei danni subiti e può revocarli dall’incarico per giusta causa.

      L’atto, quindi, rimane valido ed efficace (vincola la società), a meno che la stessa non provi l’esistenza di un accordo fraudolento  fra amministratore e terzo (ex art. 2384, II co)  diretto a danneggiarla (c.d. exceptio doli).

art. 2383 5 co  c.c.  nomina e revoca degli amministratori: ………….
Le cause di nullità o di annullabilità della nomina degli amministratori che hanno la rappresentanza della società non sono opponibili ai terzi dopo l’adempimento della pubblicità di cui al quarto comma, salvo che la società provi che i terzi ne erano a conoscenza
( in altri termini, la mancanza del potere rappresentativo dovuta ad invalidità dell’atto di nomina non può essere opposta ai terzi dopo l’avvenuta iscrizione).

      La rappresentanza degli amministratori nelle società di capitali può riassumersi nelle seguenti regole sopra sintetizzate, evidenziate dalla dottrina[61]:

a)        la mancanza di potere rappresentativo per invalidità dell’atto di nomina è inopponibile ai terzi di buona fede (ex art. 2383, 7° comma c.c.);

b)        se l’atto compiuto dall’amministratore eccede l’oggetto sociale, la società resta vincolata nei confronti dei terzi di buona fede (ex art. 2384-bis c.c.);

c)        se gli amministratori hanno agito oltre i limiti posti dall’atto costitutivo ai loro poteri, l’atto è valido nei confronti dei terzi, salvo che si provi che questi hanno agito intenzionalmente a danno della società (ex art. 2384, 2° comma c.c.).

      In questo modo basta la buona fede del terzo per riparare l’atto compiuto dagli amministratori privi di potere o al di fuori dei limiti posti dall’oggetto sociale; se le limitazioni al potere degli amministratori è stabilito nell’atto costitutivo o nello statuto (e quindi portato a conoscenza dei terzi per effetto della pubblicità commerciale) per invalidare l’atto occorre dimostrare che il terzo ha agito intenzionalmente a danno della società.

      Per la Cassazione[62], preliminarmente, ai fini dell’accertamento se gli amministratori abbiano il potere di rappresentare la società a norma dell’articolo 2384 del c.c. e di impegnarne conseguentemente la responsabilità nei rapporti con il terzo contraente, l’atto compiuto dagli amministratori in nome della società deve essere considerato, nella concretezza dei suoi elementi costitutivi, e specificamente della sua causa e dell’oggetto dell’accordo delle parti, con esclusione di criteri di convenienza per la società, e di motivi propri degli amministratori, ma non comuni al terzo contraente; l’atto medesimo deve poi essere confrontato con la formulazione delle norme dell’atto costitutivo e dello statuto della società concernenti l’oggetto sociale, senza tener conto di elementi estranei all’atto e non conosciuti di fatto dal terzo contraente, attribuendo, in ogni caso, valore preminente alla manifestazione di volontà espressa al riguardo dai soci costituenti.

      Inoltre[63] l’eccedenza dell’atto rispetto ai limiti dell’oggetto sociale, ovvero il suo compimento al di fuori dei poteri conferiti, non integra un’ipotesi di nullità dell’atto medesimo, ma, al più, di inefficacia e di inopponibilità nei rapporti con i terzi; e posto che è rimesso alla società, e solo ad essa, di respingere gli effetti dell’atto, deve correlativamente essere riconosciuto alla società il potere di assumere ex tunc quegli effetti, attraverso la ratifica, ovvero di farli preventivamente propri, attraverso una delibera autorizzativa, capace di rimuovere i limiti del potere rappresentativo dell’amministratore.

      Ne deriva che ogni questione relativa alla estraneità dell’atto compiuto dall’amministratore rispetto all’oggetto sociale è da ritenersi irrilevante a seguito e per effetto dell’adozione di una delibera di autorizzazione preventiva adottata dalla società, posto che tale delibera impegna la società medesima alla condotta di essa esecutiva e ad essa conforme posta in essere dall’organo di gestione, idonea o meno che sia rispetto al perseguimento dell’oggetto sociale.

Profili processuali

Secondo la S.C.[64] il potere di rappresentanza processuale, con la relativa facoltà di nomina dei difensori, può essere conferito soltanto a colui che sia investito anche di un potere rappresentativo di natura sostanziale in ordine al rapporto dedotto in giudizio.

Nelle società di capitali, peraltro, il presidente del consiglio di amministrazione designato dallo statuto quale legale rappresentante dell’ente, non perde il potere di rappresentanza sostanziale (e, conseguentemente, processuale) per effetto della nomina di un amministratore delegato, perché oggetto di tale delega, da parte del consiglio di amministrazione, ai sensi dell’art. 2381 c.c., possono essere soltanto poteri gestori che spettano collegialmente a tale organo e non anche competenze o prerogative attribuite dalla legge o dallo statuto ad un organo diverso, come, appunto, il presidente del consiglio di amministrazione (la cui figura era specificamente prevista dal cod. civ., all’art. 2380, ult. comma, nel testo — nella fattispecie applicabile ratione temporis — anteriore alla riforma attuata con il d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6), e, del resto, la delega non ha effetti traslativi, in quanto il consiglio non si spoglia dei suoi poteri e conserva una competenza concorrente ad amministrare, che rimane integra ed anzi sovraordinata a quella degli organi delegati, ai quali può pertanto sostituirsi nel compimento di atti inerenti alle funzioni delegate (arg. ex art. 2392, ult. comma, c.c.).

È stato oramai superato, grazie all’intervento delle sezioni Unite, il principio della  medesima Suprema Corte[65] secondo cui l’autenticazione, apposta dal difensore in calce alla procura alle liti, faceva fede della provenienza dell’atto da colui che ne appariva l’autore, ma non della legittimazione processuale di quest’ultimo. Ne conseguiva che era invalida la costituzione in un giudizio di una società commerciale, ove – a fronte di specifica eccezione in tal senso – non veniva dimostrata la sussistenza di potere rappresentativo in capo alla persona che aveva conferito il mandato alle liti per conto della società stessa, a nulla rilevando che la suddetta persona sia indicata nella procura alle liti come “dirigente”.

Difatti le Sezioni Unite[66] investite per risolvere l’annoso problema hanno affermato che in tema di rappresentanza processuale delle persone giuridiche, la persona fisica che ha conferito il mandato al difensore non ha l’onere di dimostrare tale sua qualità, neppure nel caso in cui l’ente si sia costituito in giudizio per mezzo di persona diversa dal legale rappresentante e l’organo che ha conferito il potere di rappresentanza processuale derivi tale potestà dall’atto costitutivo o dallo statuto, poiché i terzi hanno la possibilità di verificare il potere rappresentativo consultando gli atti soggetti a pubblicità legale e, quindi, spetta a loro fornire la prova negativa. Solo nel caso in cui il potere rappresentativo abbia origine da un atto della persona giuridica non soggetto a pubblicità legale, incombe a chi agisce l’onere di riscontrare l’esistenza di tale potere a condizione, però, che la contestazione della relativa qualità ad opera della controparte sia tempestiva, non essendo il giudice tenuto a svolgere di sua iniziativa accertamenti in ordine all’effettiva esistenza della qualità spesa dal rappresentante, dovendo egli solo verificare se il soggetto che ha dichiarato di agire in nome e per conto della persona giuridica abbia anche asserito di farlo in una veste astrattamente idonea ad abilitarlo alla rappresentanza processuale della persona giuridica stessa.

Dimostrazione che non deve essere fatta valere ad esempio, anche, nel caso della proposizione di una querela. Infatti secondo la S.C.[67] in tema di querela, l’amministratore di una società di capitali, avendo la fonte dei suoi poteri nell’art. 2384 c.c., è legittimato a proporre querela in nome e per conto della società, senza essere gravato dall’onere di documentare la titolarità del potere di rappresentanza.

Ancora, riguardo ai profili prettamente processuali, il ricorso per cassazione proposto da una società per azioni è inammissibile se la procura speciale ex art. 365 c.p.c. non risulti conferita dall’organo al quale, in base al combinato disposto degli articoli 2380 e 2384 c.c. o a specifica norma statutaria è attribuito il potere di rappresentanza della società; e tale potere, poi, non è riconoscibile in capo a soggetto interdetto, nel periodo che rileva, dai pubblici uffici, poiché, ai sensi dell’art. 2382 c.c., la condanna a tale interdizione costituisce causa di decadenza dalla carica d’amministratore delle società di capitali, e comporta l’immediata ed automatica cessazione del rapporto organico tra questo e la società[68].

G) Le deliberazioni consiliari

      È rimessa all’autonomia statutaria la determinazione dei modi di convocazione (mediante mezzi di comunicazione che permettano di lasciare tracce probatorie; è previsto un congruo preavviso, di solito di 1 settimana, con indicazione dell’o.d.g., del luogo e della data di convocazione – inoltre è stabilita  dal presidente quando egli lo ritenga opportuno o quando ne facciano richiesta un certo numero di amministratori o di sindaci), discussione, deliberazione (ed eventuale verbalizzazione), per le riunioni del consiglio di amministrazione.

      In particolare, la necessità della convocazione.

      Difatti secondo la Corte di Piazza Cavour[69] nell’ipotesi in cui la deliberazione consiliare di convocazione dell’assemblea di una società di capitali sia stata assunta all’esito di una riunione, alla quale un suo componente non sia stato convocato, il medesimo può impugnare la deliberazione consiliare per la mancata convocazione nei suoi confronti, ma, in mancanza di tale impugnazione, la deliberazione assunta dall’assemblea in seguito convocata non può essere impugnata dall’amministratore che deduca il vizio di convocazione, in quanto egli è privo di legittimazione attiva al riguardo, posto che il potere di impugnare le deliberazioni assembleari che non siano state prese in conformità della legge o dell’atto costitutivo, riconosciuto agli amministratori della società per azioni dall’art. 2377, II comma, c.c., spetta al consiglio di amministrazione e non agli amministratori individualmente considerati, salvo che il consigliere di amministrazione sia stato immediatamente leso in un suo diritto dalla deliberazione stessa. (Fattispecie anteriore al d. lgs. 17 gennaio 2003, n. 6).

      Oltre che discendere, in generale, dal carattere collegiale dell’organo, è testimoniata anche da accenni contenuti espressamente nel codice.

art. 2381 c.c.   presidente, comitato esecutivo e amministratori delegati: salvo diversa previsione dello statuto, il presidente convoca il consiglio di amministrazione, ne fissa l’ordine del giorno, ne coordina i lavori e provvede affinché adeguate informazioni sulle materie iscritte all’ordine del giorno vengano fornite a tutti i consiglieri.

 

      Inoltre l’art. 2405 c.c., dal canto suo, prevede, l’obbligo di presenza dei sindaci, presupponendo, quindi, che essi debbano essere invitati, ma senza precisare il modo.

art. 2388  c.c.   validità delle deliberazioni del consiglio: per la validità delle deliberazioni del consiglio di amministrazione è necessaria la presenza della maggioranza  (50% + 1) degli amministratori in carica (collegio reale – e non in base la collegio legale, cioè dal numero degli amministratori disposto in astratto nello statuto), quando lo statuto non richiede un maggior numero di presenti. Lo statuto può prevedere che la presenza alle riunioni del consiglio avvenga anche mediante mezzi di telecomunicazione.
Le deliberazioni del consiglio di amministrazione sono prese a maggioranza assoluta dei presenti, salvo diversa disposizione dello statuto.
Il voto non può essere dato per rappresentanza.
Le deliberazioni che non sono prese in conformità della legge o dello statuto possono essere impugnate solo dal collegio sindacale  e dagli amministratori assenti o dissenzienti  (non è prevista l’impugnazione da parte degli amministratori astenuti, a differenza di quanto previsto con riguardo alle delibere dell’assemblea da parte dei soci entro novanta  (90) giorni dalla data della deliberazione; si applica in quanto compatibile l’articolo 2378. Possono essere altresì impugnate dai soci le deliberazioni lesive dei loro diritti; si applicano in tal caso, in quanto compatibili, gli articoli 2377 e 2378.
In ogni caso sono salvi i diritti acquistati in buona fede dai terzi in base ad atti compiuti in esecuzione delle deliberazioni.

 

      Il codice nulla prevede sulla verbalizzazione della deliberazione del consiglio.

      La dottrina confermata dalla giurisprudenza, ritiene che la verbalizzazione non costituisca un requisito di validità delle delibere consiliari, ma abbia piuttosto una funzione meramente certificativa di quanto deliberato.

Fanno eccezione i casi in cui è la legge a prescrivere che le delibere del consiglio di amministrazione siano verbalizzate per atto pubblico; ciò avviene nei casi:

A)   di emissione di obbligazioni ordinarie art. 2410 c.c. –

B)   di delibera di aumento a pagamento del capitale sociale – art 2443 co. IV c.c.

C)   di emissioni convertibili – art 2402 ter c.c. –

D)  di delega all’organo amministrativo di competenze normalmente proprie dell’assemblea straordinaria – art. 2365, co II, c.c.

      Per quanto riguarda l’annullabilità delle delibere consiliari valgono le argomentazioni già svolte nel saggio

L’invalidità delle deliberazioni assembleari nella s.p.a.; Inesistenza – nullità – irregolarità – annullabilità

NULLITA’ DELLE DELIBERE CONSILIARI –

      Nulla il legislatore ha previsto con riguardo alla possibilità di impugnare le delibere consiliari per motivi di nullità, ma è possibile applicare analogicamente, anche alle delibere consiliari, la disciplina in tema di nullità dettata per le delibere assembleari dagli artt. 2379[70] ss.

A)   per ragioni di coerenza sistematica impongono anche alle delibere consiliari che si applichi la disciplina dell’invalidità dettata in sede di deliberazioni assembleari;

B)   negare che le delibere consiliari possano esser impugnate anche per nullità creerebbe il presupposto per realizzare gravi abusi agirando le norme di legge: l’assemblea potrebbe delegare al consiglio il compito di adottare deliberazioni che, se prese dall’organo assembleare, sarebbero impugnabili per nullità; se, invece, adottate dal consiglio di amministrazione dovrebbero considerarsi solo annullabili con evidenti vantaggi per la società (decadenza di 3 mesi per proporre l’azione, legittimazione attiva ristretta) con il rischio di  gravi danni  per i terzi;

C)   l’ampliamento del novero delle competenze assegnate al consiglio di amministrazione, le quali riguardano anche poteri tradizionalmente assembleari rende necessario il controllo di legalità delle loro attribuzioni.

D)  Infine, se si escludesse la possibilità di impugnativa per nullità, la tutela della minoranza verrebbe meno, posto che, per proporre l’azione per far dichiarare l’annullamento delle delibere è necessario il possesso delle percentuali minime di cui all’art. 2377 c.c.

In ultimo è interessante anche sottolineare che secondo una pronuncia di merito[71] ante riforma essendo le delibere del consiglio di amministrazione di una società per azioni contrarie alla legge o all’atto costitutivo sono impugnabili secondo le norme dettate in tema di invalidità delle delibere assembleari, deve ritenersi inammissibile, per difetto del requisito della residualità, l’istanza di sospensione di una delibera consiliare proposta ai sensi dell’art. 700 c.p.c, data la presenza della misura cautelare tipica disciplinata dall’art. 2378, comma IV, c.c.

Tra le possibili cause d’invalidità delle deliberazioni del consiglio, il legislatore menziona particolarmenteIL CONFLITTO D’INTERESSI

 

art. 2391 c.c.   interessi degli amministratori: l’amministratore deve dare notizia (PER ISCRITTO) agli altri amministratori e al collegio sindacale di ogni interesse che, per conto proprio o di terzi, abbia in una determinata operazione della società, precisandone la natura, i termini, l’origine e la portata; se si tratta di amministratore delegato, deve altresì astenersi dal compiere l’operazione, investendo della stessa l’organo collegiale.
Nei casi previsti dal precedente comma
la deliberazione del consiglio di amministrazione  deve adeguatamente motivare le ragioni e la convenienza per la società dell’operazione.
Nei casi di inosservanza a quanto disposto nei due precedenti commi del presente articolo ovvero nel caso di deliberazioni del consiglio o del comitato esecutivo adottate con il voto determinante dell’amministratore interessato
(quando cioè la deliberazione non ha superato la prova di resistenza[72]), le deliberazioni medesime, qualora possano recare danno alla società (REQUISITO ULTIMO MA NECESSARIO), possono essere impugnate dagli amministratori (assenti – dissenzienti o astenuti) e dal collegio sindacale  (non è prevista la possibilità di impugnazione da parte dei soci; tuttavia se la delibera consiliare risulti lesiva del diritto individuale del socio, egli conserva la possibilità di agire ai sensori dell’art 2388, co IV) entro novanta giorni dalla loro data; l’impugnazione[73] non può essere proposta da chi ha consentito con il proprio voto alla deliberazione se sono stati adempiuti gli obblighi di informazione previsti dal primo comma. In ogni caso sono salvi i diritti acquistati in buona fede dai terzi in base ad atti compiuti in esecuzione della deliberazione.
L’amministratore risponde dei danni
(danno emergente e lucro cessante) derivati alla società dalla sua azione od omissione.

L’amministratore risponde altresì dei danni che siano derivati alla società dalla utilizzazione a vantaggio proprio o di terzi di dati, notizie o opportunità di affari appresi nell’esercizio del suo incarico.

 

La disciplina sottesa determina una regola generale che risponde al criterio della diligenza, in virtù della quale appunto chi si trova a gestire fiduciariamente un interesse altrui, qualora versi in conflitto di interessi con riferimento ad una data operazione, deve astenersi dal compierla e darne immediata comunicazione al fiduciante rimettendo a lui la decisione.

La ratio della regola dettata dal primo comma dell’art. 2391 c.c. è dunque quella di prevenire il compimento di atti in conflitto di interessi da parte degli amministratori che possano causare danni alla società.

Secondo la dottrina maggioritaria il conflitto deve essere riferito ad una determinata operazione.

Pertanto la situazione di conflitto deve essere valutata in concreto, con riferimento all’esame della singola operazione che il consiglio si trova in quel momento ad affrontare e non può essere valutata in astratto, come mera possibilità.

L’interesse, che per rilevare deve avere natura patrimoniale, può essere un interesse che l’amministratore ha in proprio o che si trova a curare per conto di terzi.

Subito nell’immediato dell’entrata in vigore della riforma societaria, per la dottrina maggioritaria, non essendovi né prassi applicativa né l’interpretazione giurisprudenziale che davano indicazioni più chiare, pareva possibile ritenere che, qualora si fosse manifestato un conflitto d’interessi tra l’amministratore unico (a differenza dell’organo collegiale per il quale è previsto l’art 2391 c.c.)  e la società, salvo gli obblighi della comunicazione posti dallo stesso articolo, non esistendo un organo collegiale in grado comunque di deliberare, fornendone adeguata motivazione, avrebbe potuto trovare applicazione la disciplina generale di cui all’art. 1394 c.c.

art. 1394 c.c.   conflitto d’interessi: il contratto concluso dal rappresentante in conflitto d’interessi col rappresentato può essere annullato su domanda del rappresentato, se il conflitto era conosciuto o riconoscibile dal terzo.

 

      Difatti, successivamente – con una prima pronuncia – secondo la Corte di Piazza Cavour[74] in tema di società per azioni, quando il singolo amministratore ponga in essere, in mancanza di una delibera del consiglio di amministrazione, un atto con il terzo che rientri, invece, nella competenza di tale organo, l’incidenza del conflitto di interessi sulla validità del negozio deve essere regolata sulla base, non già dell’art. 2391 c.c (il quale, riferendosi al conflitto che emerge in sede deliberativa, concerne l’esercizio del potere di gestione, in un momento, quindi, anteriore a quello in cui l’atto viene posto in essere, in nome della società, nei confronti del terzo), ma della disciplina generale di cui all’art. 1394 c.c.

      Al riguardo, costituendo il divieto di agire in conflitto di interessi con la società rappresentata un limite derivante da una norma di legge, la sua rilevanza esterna non è subordinata ai presupposti stabiliti dal secondo comma dell’art. 2384 c.c., il cui ambito di applicazione è riferito alle limitazioni del potere di rappresentanza derivanti dall’atto costitutivo o dallo statuto, che abbiano, cioè, la propria fonte (non nella legge, ma) nell’autonomia privata.

      Ciò significa rimettere alla correttezza e al senso etico dell’amministratore la scelta relativa al compimento dell’atto.

      Naturalmente applicando la disciplina prevista dall’art. 1394 c.c. la delibera approvata in conflitto d’interessi con l’amministratore unica sarà annullabile, soltanto nel caso in cui si riuscirà a dimostrare che il conflitto era conoscibile o riconoscibile dal terzo, inoltre nel termine di 5 anni[75] e il soggetto legittimato sarà il rappresentato, ossia la società.

          Altro Tribunale[76] ha specificato che il conflitto di interessi emergente in sede deliberativa ex art. 2391 c.c., riguarda l’esercizio del potere gestorio, il quale si estrinseca in deliberazioni collegiali, non del potere rappresentativo che si esprime nella spendita del nome della società verso i terzi. Ne consegue che se il compimento dell’atto contestato non è stato preceduto da una fase procedimentale concretatasi nell’adozione di una delibera consiliare, non può essere invocata la norma dell’art. 2391 c.c. agli effetti del suo annullamento.

Da ultimo la Cassazione

Corte di Cassazione, sezione I, sentenza 3 febbraio 2014, n. 2320

con una pronuncia già richiamata in precedenza ha avuto modo di affermare che nell’ambito , degli atti in conflitto di interessi dell’amministratore con la societa’ ex articolo 1394 c.c. – fattispecie affine a quella degli atti estranei, che sono sovente in conflitto, sebbene i concetti di interesse ed oggetto sociale siano ovviamente non coincidenti (l’interesse consiste nell’utilita’ che la societa’ ricavi da un determinato atto, mentre l’oggetto sociale e’ l’attivita’ economica statutariamente definita, sicche’ puo’ ricorrere la contrarieta’ all’uno e non all’altro: Cass., sez. 1, 12 dicembre 2007, n. 26011) – parimenti la Corte ha affermato che, allorche’ la garanzia sia concessa da societa’ di capitali a ristrettissima base personale ad imprenditore socio della stessa e legato da vincoli familiari con il legale rappresentante, non sussiste il rapporto di incompatibilita’ tra gli interessi del rappresentato e quelli del rappresentante (Cass., sez. 3, 8 novembre 2007, n. 23300, in tema di fideiussione; sez. 1, 20 febbraio 2004, n. 3385, sulla concessione di ipoteca; sez. 1, 26 agosto 1998, n. 8472, in tema di fideiussione concessa da societa’ personale; v. pure sez. 1, 17 ottobre 2008, n. 25361, in tema di fideiussione ed in presenza di societa’ amministrate dallo stesso soggetto).

H) Obblighi e diritti

art. 2389 c.c.   compensi degli amministratori: i compensi[77] spettanti ai membri del consiglio di amministrazione e del comitato esecutivo sono stabiliti all’atto della nomina o dall’assemblea.
Essi possono essere costituiti in tutto o in parte da partecipazioni agli utili o dall’attribuzione del diritto di sottoscrivere a prezzo predeterminato azioni di futura emissione (
le c.d. stok option plains – piani di azionariato)
La rimunerazione degli amministratori investiti di particolari cariche in conformità dello statuto è stabilita dal consiglio di amministrazione, sentito il parere del collegio sindacale. Se lo statuto lo prevede, l’assemblea può determinare un importo complessivo per la remunerazione di tutti gli amministratori, inclusi quelli investiti di particolari cariche.

 

Riguardo ai compensi secondo le Sezioni Unite[78] ai sensi dell’art. 2389 I comma c.c., (nel testo vigente prima delle modifiche, non decisive sul punto, di cui al d.lgs. n. 6 del 2003), qualora non sia stabilita nello statuto, è necessaria una esplicita delibera assembleare, che non può considerarsi implicita in quella di approvazione del bilancio, attesa: la natura imperativa e inderogabile della previsione normativa, discendente dall’essere la disciplina del funzionamento delle società dettata, anche, nell’interesse pubblico al regolare svolgimento dell’attività economica, oltre che dalla previsione come delitto della percezione di compensi non previamente deliberati dall’assemblea (art. 2630 secondo comma c.c., abrogato dall’art. 1 del d.lgs. n. 61 del 2002); la distinta previsione delle delibera di approvazione del bilancio e di quella di determinazione dei compensi (art. 2364 n. 1 e 3 c.c.); la mancata liberazione degli amministratori dalla responsabilità di gestione, nel caso di approvazione del bilancio (art. 2434 c.c.); il diretto contrasto delle delibere tacite ed implicite con le regole di formazione della volontà della società (art. 2393 II comma, c.c.). Conseguentemente, l’approvazione del bilancio contenente la posta relativa ai compensi degli amministratori non è idonea a configurare la specifica delibera richiesta dall’art. 2389 cit., salvo che un’assemblea convocata solo per l’approvazione del bilancio, essendo totalitaria, non abbia espressamente discusso e approvato la proposta di determinazione dei compensi degli amministratori.

Sentenza ripresa totalmente dal Tribunale[79] Barese, la cui massima prevede che la determinazione dei compensi degli amministratori di una società può essere validamente predisposta nell’ambito di una delibera recante l’approvazione del bilancio solo ove la relativa assemblea, totalitaria, sia stata convocata esclusivamente per eseguire detta incombenza e, nell’ambito della stessa sia stata espressamente discussa ed approvata, appunto, la proposta di determinazione della retribuzione degli organi amministrativi. Detta circostanza, ai fini della validità del relativo capo della delibera, deve essere allegata e dimostrata da chi ne abbia interesse giacché, in linea di principio (specialmente nel caso in cui, come avvenuto nella specie, lo Statuto Societario espressamente stabilisca che gli amministratori non hanno diritto alla retribuzione salvo delibera dell’assemblea), salva l’ipotesi testé delineata, la semplice approvazione del bilancio non è apprezzabile quale implicita deliberazione di determinazione dei compensi degli amministratori. In tale ultima ipotesi, quindi, deve essere annullata, perché illegittima, la deliberazione di approvazione del bilancio relativamente alla voce inerente il compenso in parola.

La medesima Corte di legittimità[80], antecedentemente alla presa di posizione delle Sezioni Unite prevedeva che la deliberazione dell’assemblea di una società di capitali di approvazione del bilancio che includeva nel bilancio medesimo, come debito della società, il compenso che l’amministratore si era attributo, aveva valore di ratifica dell’operato dell’amministratore posto in essere senza averne il potere, costituendo detta delibera, non mera presa d’atto dell’attività dell’amministratore, ma atto con il quale la società faceva proprio il rapporto, idoneo a costituire fonte di obbligazione della società stessa nei confronti del proprio amministratore per ciò che attiene ai compensi in tal modo deliberati.

Il compenso può essere corrisposto una tantum o mensilmente – può essere stabilito in misura fissa o essere sostituito o integrato dalla corresponsione di gettoni di presenza.

Inoltre può essere determinato anche dal Giudice, difatti secondo una pronuncia di merito[81] la pretesa dell’amministratore di società di capitali al compenso per l’opera prestata ha natura di diritto soggettivo perfetto, mentre la onerosità del mandato gestorio costituisce elemento naturale del rapporto negoziale tra amministratore e società. Qualora la misura di tale compenso non sia determinata dall’atto costitutivo o dall’assemblea a norma degli artt. 2369 e 2389 c.c. e salvo che lo statuto non preveda una espressa gratuità dell’incarico – circostanze che non risultano ricorrere nella specie – la determinazione del compenso spettante all’amministratore per quanto sopra, può essere effettuata dal Giudice, ricorrendo all’applicazione analogica del disposto di cui all’art. 1709 c.c. (fattispecie relativa all’accertamento dell’obbligo del terzo ex art. 548 c.p.c., laddove il debitore esecutato è l’amministratore di due società di capitali, dalle quali dichiarava di non dovere alcunché quale compenso per l’opera presso le medesime prestata. Il creditore ricorreva all’odierno giudicante al fine di ottenere la determinazione delle somme dovute dalle società all’amministratore-debitore esecutato quale compenso per il mandato svolto).

Sempre per la Corte di Cassazione[82] – sezione lavoro – in tema di compenso in favore dell’amministratore di una società di capitali, che abbia agito come organo legato da rapporto interno alla società, la facoltà dell’amministratore di insorgere avverso una liquidazione effettuata dall’assemblea della società in misura inadeguata, per chiedere al giudice la quantificazione delle proprie spettanze, viene meno, trattandosi di diritti disponibili, qualora detta delibera assembleare sia stata accettata e posta in esecuzione senza riserve.

È possibile che tali incarichi, inoltre, possano essere svolti gratuitamente.

Difatti per il Tribunale Meneghino[83], ad esempio, l’incarico di presidente del consiglio di amministrazione di una società di capitali ben può essere svolto gratuitamente, atteso che i compensi degli amministratori sono disciplinati dall’atto costitutivo, ovvero da delibera di assemblea ordinaria. La gratuità dell’incarico infatti è perfettamente legittima, non costituendo l’onerosità un presupposto imprescindibile dell’incarico fiduciariamente conferito, né un presupposto della prestazione di lavoro autonomo.

Ma per la Corte di Legittimità[84] non possono essere attribuiti compensi aggiuntivi se sono stati già previsti nello statuto.

Nella sentenza infatti si legge che in base al combinato disposto degli artt. 2364, comma primo, n. 3, e 2389, comma I, c.c. (nel testo anteriore alla riforma attuata dal d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6 applicabile nella specie ratione temporis), la determinazione del compenso degli amministratori di società per azioni è rimessa in primo luogo all’atto costitutivo e, solo ove esso non provveda, all’assemblea ordinaria. Resta di conseguenza escluso che l’assemblea possa accordare agli amministratori un compenso ulteriore rispetto a quello già previsto dallo statuto sociale, a nulla rilevando che quest’ultimo sia eventualmente stabilito nella forma aleatoria della partecipazione agli utili.

 Inoltre, è possibile anche la rinuncia al compenso:

per la Cassazione

Corte di Cassazione, sezione prima civile, Ordinanza 13 febbraio 2020, n. 3657

la rinuncia al compenso da parte dell’amministratore può trovare espressione in un comportamento concludente del titolare che riveli in modo univoco una sua volontà dismissiva del relativo diritto; a tal fine è pertanto necessario che l’atto abdicativo si desuma non dalla semplice mancata richiesta dell’emolumento, quali che ne siano le motivazioni, ma da circostanze esteriori che conferiscano un preciso significato negoziale al contegno tenuto.

Le c.d. stok option plains

Le modalità attraverso le quali questi piani possono essere realizzati  sono essenzialmente 2 –

A)  aumenti di capitale con emissione di azioni riservate agli amministratori (con esclusione, quindi del diritto di opzione);

B)  vendita di azioni proprie o di società controllate o controllanti.

Divieto di concorrenza

art. 2390 c.c.   divieto di concorrenza: gli amministratori non possono assumere la qualità di soci illimitatamente responsabili in società concorrenti, né esercitare un’attività concorrente per conto proprio o di terzi, né essere amministratori o direttori generali in società concorrenti, salvo autorizzazione dell’assemblea. Per l’inosservanza di tale divieto l’amministratore può essere revocato dall’ufficio e risponde dei danni.

      Bisogna subito evidenziare – supportata da giurisprudenza di merito[85] – che rappresenta una violazione del divieto di concorrenza sancito dall’art. 2390 c.c., da parte degli amministratori di società di capitali, solo quell’attività che in concreto sia concorrenziale e che determini un concreto danno alla società. Non è sufficiente, invece, la mera potenzialità delle azioni eventualmente concorrenziali poste in essere.

Inoltre –

A)  obbligo in caso d’interessi in un’operazione della società vedi par.fo predente;

B)  obbligo dall’astenersi di concedere prestiti o garanzie – ai sensi dell’art. 2358 c.c.;

C)  obblighi inerenti all’organizzazione della società –

1)   aventi per oggetto adempimenti pubblicitari;

–        provveder al deposito dell’atto costitutivo – art. 2330 c.c.;

–        di depositare nell’ufficio del registro delle imprese per l’iscrizione  le deliberazione di modifica dello statuto – art. 2436 c.c.;

–        nonché l’eventuale atto di fusione con altre società – art. 2504, co II c.c.;

–        ad effettuare talune pubblicazioni nella Gazzetta Ufficiale (artt. 2344 e 2366 c.c.);

2)   aventi per oggetto attività strettamente inerenti all’organizzazione sociale

–        la tenuta dei libri sociali (2421, co2);

–        il potere dovere di convocare l’assemblea (artt. 2364, co 2- 2401, co 2 – 2446 – 2447 – 2367 – 2376 – 24159 c.c.);

–        l’obbligo di conservazione dei beni sociali;

D)  obblighi inerenti all’esercizio dell’impresa sociale –

art. 2392 2 co  c.c.  responsabilità verso la società: ………………………….
In ogni caso gli amministratori, fermo quanto disposto dal comma terzo dell’articolo 2381, sono solidalmente responsabili[86] se, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose.

     Sul tema, pur non volendo dilungare in quanto è stato già oggetto di un analitico saggio[87], è bene sottolineare che secondo la S.C.[88] in tema di responsabilità degli amministratori di società, occorre distinguere tra obblighi gravanti sugli amministratori che hanno un contenuto specifico e già determinato dalla legge o dall’atto costitutivo — tra i quali rientra quello di rispettare le norme interne di organizzazione relative alla formazione e alla manifestazione della volontà della società, e obblighi definiti attraverso il ricorso a clausole generali, quali l’obbligo di amministrare con diligenza e quello di amministrare senza conflitto di interessi. Mentre per questi ultimi la responsabilità dell’amministratore deve essere collegata alla violazione del generico obbligo di diligenza nelle scelte di gestione, sicché la diligente attività dell’amministratore è sufficiente ad escludere direttamente l’inadempimento, a prescindere dall’esito della scelta, rilevante a diversi fini, per gli obblighi specifici, costituendo la diligenza la misura dell’impegno richiesto agli amministratori, la responsabilità può essere esclusa solo nel caso, previsto dall’art. 1218 c.c., quando cioè l’inadempimento sia dipeso da causa che non poteva essere evitata né superata con la diligenza richiesta al debitore.

     Su tali principi da ultimo si è espresso anche il Tribunale Milanese[89] secondo il quale l’inadempimento da parte degli amministratori di società di capitali ai doveri imposti dalla legge o dall’atto costitutivo ha luogo sia per omissione parziale o totale della condotta doverosa, sia per il conseguimento di risultati insoddisfacenti, quando questi derivino direttamente dalla qualità della condotta posta in essere. L’amministratore, tuttavia, non risponde della bontà delle scelte gestionali e delle modalità della loro conduzione, nel senso che non è sindacabile il merito gestorio se non nella misura in cui si riscontri l’omissione di quelle cautele, verifiche ed informazioni preventive normalmente richieste per una scelta di quel determinato tipo, operata in quelle circostanze e con quelle modalità, secondo un criterio di prevedibilità e prevenibilità delle conseguenze insoddisfacenti e pregiudizievoli correlato alla ordinaria diligenza professionale cui ogni buon amministratore è obbligato

E)   Obbligo di dare esecuzione alle delibere assembleari.

      Ottima disamina della fattispecie è stata effettuata dal Tribunale Felsineo[90] secondo il quale il divieto di concorrenza, posto nella legislazione del 1942 dall’art. 2390 c.c. – e recentemente ribadito e specificato dalla recente riforma del diritto societario (D.lgt. n. 6/2003) – mira a favorire il perseguimento dello scopo sociale da parte dell’amministratore in forza della rimozione preventiva di ogni situazione di conflitto potenziale, laddove l’ art. 2391 c.c. impone una regola di condotta positiva, incentrata sull’obbligo di informazione, qualora l’amministratore sia in conflitto per lo svolgimento di una attività concorrente.

      In tale ultima ipotesi, a far sorgere il conflitto di interessi tra l’amministratore e società non basta che da parte di quest’ultimo si compia una operazione da cui la società non possa ricavare utilità o beneficio alcuno, ma occorre che da quella operazione l’amministratore abbia ricavato una utilità per sé o per altri, arrecando un danno alla società amministrata.

      Quanto agli elementi costitutivi della domanda, ai fini degli estremi concorrenziali, deve aversi riguardo:

a) all’esistenza di una effettiva posizione concorrenziale, ovvero che le attività considerate siano svolte da soggetti operanti sullo stesso mercato ed in posizione di concorrenza per identità totale o parziale dei prodotti o servizi offerti;

b) all’esistenza di un danno arrecato alla società amministrata, quale conseguenza diretta del comportamento concorrenziale realizzato dall’amministratore infedele.

 

Deroga

      In ambito generale per il Tribunale Milanese[91] le disposizioni contenute nell’art. 2390 c.c. possono essere derogate nello statuto societario. In particolare nel caso affrontato il primo motivo di illegittimità allegato da parte attrice era che l’amministratore avrebbe svolto attività vietata dalla legge ex articolo 2390 c.c. assumendo partecipazioni anche per il tramite di altra persona in un’altra società avente oggetto concorrente. Orbene il tribunale osservava che questo comportamento non era illegittimo di per sé perché l’articolo 2390 del codice civile è norma derogabile ed una siffatta deroga era contenuta nello statuto sociale.

      La presenza di una simile clausola esclude che sia di per sé illegittimo il comportamento di prendere interesse ad altra società con oggetto analogo[92] a quella amministrata, ma chiaramente non può valere a consentire all’amministratore una attività lesiva della società: occorre dunque esaminare se l’amministratore abbia dedotto condotte lesive e il discendere da queste di concreto danno.

      Inoltre per quanto riguarda le autorizzazioni dell’assemblea secondo la S.C.[93] – ante riforma – l’art. 2390 c.c., nel consentire all’assemblea di esonerare gli amministratori dall’osservanza del dovere di non concorrenza, non pone alcuna condizione, neppure implicita, alla prevista autorizzazione, rimessa all’apprezzamento insindacabile della maggioranza assembleare, pur con i limiti, invalicabili, posti dall’art. 2391 c.c.

I)  Sistema dualistico

Accanto al modello Tradizionale con la riforma del 2003 sono stati inseriti altri modelli di gestione e di controllo ovvero il sistema dualistico ed il sistema monistico.

Per quanto riguarda il primo innanzitutto è prevista una riduzione delle funzioni dell’assemblea ordinaria, inoltre, questo sistema, prevede 4 organi necessari:

A)  ASSEMBLEA DEI SOCI;

B)  CONSIGLIO DI SORVEGIANZA; di nomina ASSEMBLEARE, il quale nell’intento di alleggerire le attribuzioni normalmente spettanti all’organo assembleare gli sono attribuite alcune delle funzioni che, nel sistema tradizionale, spettano all’assemblea dei soci.

HA FUNZIONE DELIBERATIVA – (es. approvazione del bilancio e nomina dei componenti del consiglio di gestione) – e DI CONTROLLO sull’amministrazione; per conseguenza è previsto che ad esso si applichino, nei limiti della compatibilità, anche norme dettate per il collegio sindacale.

C)  CONSIGLIO DI GESTIONE; nominato dal CONSIGLIO DI SORVEGLIANZA (eccezion fatta per i primi che vengono nominati con l’atto costitutivo) – HA FUNZIONE AMMINISTRATIVA –  può disporre di amministratori delegati o di un comitato esecutivo.

D)  REVISORE DEI CONTI o SOCIETA’ DI REVISIONE – di nomina ASSEMBLEARE –  che ha il controllo contabile della società.

In sintesi, si può affermare che con questo sistema si attua una vera e propria separazione tra i soci (che rappresentano la proprietà della società e sui quali incombe in definitiva, il rischio d’impresa) e il potere gestorio (ovverosia gli organi che gestiscono l’attività d’impresa).

Bisogna ricordare che la scelta di adottare il sistema dualistico di amministrazione e di controllo può essere effettuata in occasione della costituzione della società (artr. 2329, co II, n.9), oppure nel corso della sua vita (con apposita assemblea straordinaria) ex art. 2380, co II, parte prima.

art. 2409 novies c.c.   consiglio di gestione: la gestione dell’impresa spetta esclusivamente al consiglio di gestione, il quale compie le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale. Può delegare proprie attribuzioni ad uno o più dei suoi componenti; si applicano in tal caso il terzo, quarto e quinto comma dell’articolo 2381 (consiglio di amministrazione – con esclusione della previsione di un comitato esecutivo –  e amministratore delegato) .
É costituito da un numero di componenti, anche non soci, non inferiore a due.
Fatta eccezione per i primi componenti, che sono nominati nell’atto costitutivo, e salvo quanto disposto dagli articoli 2351, 2449 e 2450, la nomina dei componenti il consiglio di gestione spetta al consiglio di sorveglianza, previa determinazione del loro numero nei limiti stabiliti dallo statuto.
I componenti del consiglio di gestione non possono essere nominati consiglieri di sorveglianza, e restano in carica
per un periodo non superiore a tre esercizi, con scadenza alla data della riunione del consiglio di sorveglianza convocato per l’approvazione del bilancio relativo all’ultimo esercizio della loro carica.
I componenti del consiglio di gestione
sono rieleggibili, salvo diversa disposizione dello statuto, e sono revocabili dal consiglio di sorveglianza in qualunque tempo, anche se nominati nell’atto costitutivo, salvo il diritto al risarcimento dei danni se la revoca avviene senza giusta causa.

Se nel corso dell’esercizio vengono a mancare uno o più componenti del consiglio di gestione, il con.lio di sorve.nza provvede senza indugio alla loro sostituzione.

 

art. 2381  3 – 4 e 5 co  c.c.   presidente, comitato esecutivo e amministratori delegati…….Il consiglio di amministrazione  (I consiglio di gestione ) (2 A fase – DELIBERA)  determina il contenuto, i limiti e le eventuali modalità di esercizio della delega (3 A fase – ACCETTAZIONE – della carica da parte del consigliere  o dei consiglieri delegati) ; (LIMITI VOLONTARI)  può sempre impartire direttive  agli organi delegati e avocare a sé operazioni rientranti nella delega (da ciò si evince che, al tempo stesso, con la delega il consiglio non si spoglia dei suoi poteri ma conserva una competenza concorrente ad amministrare la società). Sulla base delle informazioni ricevute valuta l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società; quando elaborati, esamina i piani strategici, industriali e finanziari della società; valuta, sulla base della relazione degli organi delegati, il generale andamento della gestione.

(LIMITI LEGALI) Non possono essere delegate le attribuzioni indicate negli articoli  1) 2420 ter l’emissione di obbligazioni convertibili, 2) 2423 redazione del bilancio,  3) 2443 l’aumento del capitale sociale,  4) 2446 , 2447 la promozione dei provvedimenti prescritti nell’ipotesi di riduzione del patrimonio sociale a meno di 2/3 del capitale, 5)  2501 ter progetto di fusione e 2506 bis progetto di scissione.

 

 

art. 2409 decies c.c.  azione sociale di responsabilità: l’azione di responsabilità contro i consiglieri di gestione è promossa dalla società o dai soci, ai sensi degli articoli 2393 e 2393 bis.
L’azione sociale di responsabilità può anche essere proposta a seguito di deliberazione del consiglio di sorveglianza. La deliberazione è assunta dalla maggioranza dei componenti del consiglio di sorveglianza e, se è presa a maggioranza dei due terzi dei suoi componenti, importa la revoca dall’ufficio dei consiglieri di gestione contro cui è proposta, alla cui sost.one provvede conte.nte lo stesso consiglio di sorveglianza.
L’azione può essere esercitata dal consiglio di sorveglianza entro cinque anni dalla cessazione dell’amministratore dalla carica.
Il consiglio di sorveglianza può rinunziare all’esercizio dell’azione di responsabilità e può transigerla, purché la rinunzia e la transazione siano approvate dalla maggioranza assoluta dei componenti del consiglio di sorveglianza e purché non si opponga la percentuale di soci indicata nell’ultimo comma dell’articolo 2393.
La rinuncia all’azione da parte della società o del consiglio di sorveglianza non impedisce l’esercizio delle azioni previste dagli articoli 2393 bis, 2394 e 2394 bis
.

art. 2409 undecies c.c.  norme applicabili: al consiglio di gestione si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni degli articoli 2380 bis, quinto comma, 2381, sesto comma, 2382, 2383, quarto e quinto comma, 2384, 2385, 2387, 2390, 2392, 2394, 2394 bis, 2395.
Si applicano alle deliberazioni del consiglio di gestione gli articoli 2388 e 2391, e la legittimazione ad impugnare le deliberazioni spetta anche al consiglio di sorveglianza.

 

art. 2381 6 co  c.c.   presidente, comitato esecutivo e amministratori delegati: ………… Gli amministratori sono tenuti ad agire in modo informato; ciascun amministratore può chiedere agli organi delegati che in consiglio siano fornite informazioni relative alla gestione della società.

Il procedimento di impugnazione delle deliberazioni del consiglio di gestione è regolato dagli artt. 2377 e 2378, richiamati dallo stesso art. 2388.

art. 2409 octies c.c.   sistema basato su un consiglio di gestione e un consiglio di sorveglianza: lo statuto può prevedere che l’amministrazione ed il controllo siano esercitati da un consiglio di gestione e da un consiglio di sorveglianza in conformità alle norme seguenti.

J)  Sistema monistico

UNICO ORGANO:  accanto ALL’ASSEMBLEA ORDINARIA è previsto un

A)    CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE organo con funzioni amministrative svolte necessariamente collegialmente – poiché se fosse possibile attribuire le funzioni gestorie ad un amministratore unico, non si potrebbe più distinguere tra soggetti titolari della funzione di gestione e soggetti titolari della funzione di controllo –

B)    e al suo interno un  COMITATO DI CONTROLLOil quale esercita le funzioni di controllo sull’attività di gestione dell’organo amministrativo analogamente a quanto, nel sistema tradizionale, svolto dal collegio sindacale.

 

art. 2409 sexiesdecies c.c.   sistema basato sul consiglio di amministrazione e un comitato costituito al suo interno: lo statuto può prevedere che l’amministrazione ed il controllo siano esercitati rispettivamente dal consiglio di amministrazione e da un comitato costituito al suo interno.

art. 2409 septiesdecies c.c.   consiglio di amministrazione: la gestione dell’impresa spetta esclusivamente al consiglio di amministrazione.
Almeno un terzo dei componenti del consiglio di amministrazione deve essere in possesso dei requisiti di indipendenza stabiliti per i sindaci dall’articolo 2399, primo comma, e, se lo statuto lo prevede, di quelli al riguardo previsti da codici di comportamento redatti da associazioni di categoria o da società di gestione di mercati regolamentati.

 

art. 2409 noviesdecies c.c.  norme applicabili e controllo contabile: al consiglio di amministrazione si applicano, in quanto compatibili, gli articoli da 2380 bis, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7,8, ,9, ,90, 91, 92, 93, bis, 94, bis, 95.
Il cont.llo contabile è esercitato a norma degli articoli 2409 bis primo e secondo comma, 2409 ter, 2409 quater, 2409 quinquies, 2409 sexies, 2409 septies, in quanto compatibili.

art. 2409 octiesdecies c.c.   comitato per il controllo sulla gestione: salvo diversa disposizione dello statuto, la determinazione del numero e la nomina dei componenti del comitato per il controllo sulla gestione spetta al consiglio di amministrazione. Nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio il numero dei componenti del comitato non può essere inferiore a tre.

Il comitato è composto da amministratori in possesso dei requisiti di onorabilità e professionalità stabiliti dallo statuto e dei requisiti di indipendenza di cui all’articolo 2409 septiesdecies, che non siano membri del comitato esecutivo ed ai quali non siano attribuite deleghe o parti.ri cariche e comunque non svolgano, anche di mero fatto, funzioni attinenti alla ges.ne dell’imp. Soc. o di soci. che la contr.ano o ne sono contro.te.
Almeno uno dei componenti del comitato per il controllo sulla gestione deve essere scelto fra gli iscritti nel registro dei revisori contabili.
In caso di morte, rinunzia revoca o decadenza di un componente del comitato per il controllo sulla gestione, il consiglio di amministrazione provvede senza indugio a sostituirlo scegliendolo tra gli altri amministratori in possesso dei requisiti previsti dai commi precedenti; se ciò non è possibile, provvede senza indugio a norma dell’articolo 2386 scegliendo persona provvista dei suddetti requisiti.
Il comitato per il controllo sulla gestione:
a) elegge al suo interno, a maggioranza assoluta dei suoi membri, il presidente;
b) vigila sull’adeguatezza della struttura organizzativa della società, del sistema di controllo interno e del sistema amministrativo e contabile, nonché sulla sua idoneità a rappresentare correttamente i fatti di gestione;
c)svolge gli ulteriori compiti affidatigli dal consiglio di amministrazione con particolare riguardo ai rapporti con i soggetti incaricati del controllo contabile.
Al comitato per il controllo sulla gestione si applicano altresì, in quanto compatibili, gli articoli 2404, primo, terzo e quarto comma, 2405, primo comma, e 2408.

Sorrento, 14 luglio, 2011.

Avv. Renato D’Isa

 

NOTE


[1] Corte di Cassazione Sezione Lavoro civile, sentenza 28 giugno 2004, n. 11978. Conforme Corte di Cassazione Sezione Lavoro civile, sentenza 21 maggio 2002, n. 7465. La qualità di socio ed amministratore di una società di capitali composta da due soli soci, entrambi amministratori, è compatibile con la qualifica di lavoratore subordinato, anche a livello dirigenziale, ove il vincolo della subordinazione risulti da un concreto assoggettamento del socio – dirigente alle direttive ed al controllo dell’organo collegiale amministrativo formato dai medesimi due soci.

[2] Di Sabato

[3] art.  2222  c.c.    contratto d’opera: quando una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente, si applicano le norme di questo capo, salvo che il rapporto abbia una disciplina particolare nel libro IV .

[4] Corte di Cassazione, sentenza n. 1081 dell’8 febbraio 1999. Nella specie, il giudice di merito, con la sentenza confermata dalla S.C., aveva escluso l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato — e quindi la validità dell’inerente rapporto assicurativo-previdenziale con l’INPDAI — relativamente ad amministratore delegato di società di ridotte dimensioni, titolare di amplissimi poteri di ordinaria e straordinaria amministrazione e assoggettato solo ad una normale attività di controllo da parte del consiglio di amministrazione

[5] Corte di Cassazione, sentenza n. 1639 del 16 febbraio 1991. Nella specie la sentenza dei giudici di merito, confermata dalla S.C., aveva escluso la continuazione del preesistente rapporto di lavoro subordinato dopo la nomina del dipendente ad amministratore unico, negando anche la configurabilità in concreto di un accordo tra le parti per la sospensione del rapporto stesso durante il periodo di espletamento dell’incarico

[6] Corte di  Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 329 del 12 gennaio 2002.

[7] A parere di chi scrive

[8] Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 2861 del 26 febbraio 2002. Conforme, Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 12 settembre 2008, n. 23557

[9] Santoro – Passatelli – Minervini –  Capozzi

[10] Vedi pag. 15

[11] Tribunale di Milano Sezione VIII civile, sentenza 24 maggio 2010, n. 6836

[12]Corte di Cassazione, sezione I, sentenza n. 10355 del 17 maggio 2005

[13] Corte di Cassazione, sentenza n. 12820 del 14 dicembre 1995. Nella specie, una clausola dello statuto stabiliva che «sono eleggibili alla carica di amministratori, oltre che i legali rappresentanti di ciascun socio, anche coloro che a ciò sono stati espressamente delegati con il rispetto delle forme statutarie vigenti per ciascun socio» ed altra clausola prevedeva che «decadono dalla carica gli amministratori che abbiano perduto la qualità di rappresentanti legali dei soci o rispetto ai quali sia stata revocata nelle forme proprie di ciascun socio la delega ad amministrare»

[14] È legittima la clausola statutaria di spa o srl che preveda la possibilità di nominare alla carica di amministratore una o più persone giuridiche o enti diverse dalle persone fisiche («amministratore persona giuridica»), salvi i limiti o i requisiti derivanti da specifiche disposizioni di legge per determinate tipologie di società. Ogni amministratore persona giuridica deve designare, per l’esercizio della funzione di amministratore, un rappresentante persona fisica appartenente alla propria organizzazione, il quale assume gli stessi obblighi e le stesse responsabilità civili e penali previsti a carico degli amministratori persone fisiche, ferma restando la responsabilità solidale della persona giuridica amministratore. Le formalità pubblicitarie relative alla nomina dell’amministratore sono eseguite nei confronti sia dell’amministratore persona giuridica sia della persona fisica da essa designata

Le funzioni di amministrazione dovranno essere esercitate da un rappresentante persona fisica che sarà soggetto ai medesimi obblighi e responsabilità previsti dalla legge nei confronti dell’amministratore persona fisica, in solido con la persona giuridica amministratore.

Nei confronti del rappresentante persona fisica si applicheranno le relative formalità pubblicitarie e in primis le regole di pubblicità legale dettate in tema di rappresentanza delle società di capitali in relazione per esempio all’opponibilità e ai limiti di rilevanza dei vizi della nomina.

Ai fini dell’iscrizione della nomina e della designazione, il notariato distingue precisa che due ipotesi:

1)    se l’amministratore persona giuridica è una società o un ente di diritto italiano, è plausibile pensare che entrambe le deliberazioni, quella dell’assemblea della società amministrata (nomina) e quella dell’organo amministrativo dell’amministratore persona giuridica (designazione della persona fisica) siano depositate per l’iscrizione nel registro delle imprese (anche con un’unica domanda) nelle consuete forme (ossia per estratto autentico);

2)    se invece l’amministratore persona giuridica è una società straniera, si deve ritenere che l’atto di designazione della persona fisica, anch’esso da depositarsi in forma di estratto autentico o di scrittura privata autenticata, debba rispettare le norme previste per l’efficacia in Italia degli atti esteri (legalizzazione o a postille, salvi i casi di diretta efficacia dell’atto notarile estero, nonché deposito in atti di notaio ai sensi dell’art. 106 l.not.

[15] Corte di Cassazione, sezione I, sentenza n. 6928 del 22 maggio 2001.

[16] Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 7799 del 15 aprile 2005.

[17] Corte di Cassazione Sezione Lavoro civile, sentenza 29 marzo 2001, n. 4662. In applicazione del principio di cui in massima, la S.C. ha ravvisato la ratifica implicita nell’approvazione, da parte dell’assemblea della società di capitali, dei due bilanci successivi alla nomina dell’amministratore

[18]Corte di  Cassazione, sezione I, sentenza n. 6898 del 22 marzo 2010.

[19] Corte di Cassazione, sentenza n. 1100, 14 febbraio 1990

[20] Corte di Cassazione, sezione I, sentenza n. 16496 del 4 novembre 2003.

[21] Tribunale di Catania civile, decreto 26 novembre 2001

[22] Tribunale di Lodi, sentenza 27 gennaio 2009, n. 32

[23] Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 19 novembre 2008, n. 27512

[24] Un caso, invece, che non prevede  la revoca implicita è stato affrontato dalla Corte d’Appello di Roma civile, sentenza 14 marzo 2000. Ovvero, in caso di trasformazione dell’organo amministrativo da monocratico a collegiale, la privazione della carica di amministratore unico può ipotizzarsi solo ove l’amministratore cessi dalla stessa per effetto sia della modificazione dell’organo amministrativo che della sua mancata riconferma; non è, infatti, configurabile una revoca – implicita – lesiva di diritti soggettivi altrui allorquando l’amministratore unico venga inserito nell’organo di amministrazione collegiale attraverso una ribadita investitura gestoria e senza soluzione di continuità temporale dell’affidamento dell’incarico.

[25] Corte di Cassazione Sezione III civile, sentenza 24 ottobre 2006, n. 22822

[26] Corte di Cassazione, sezione I, sentenza n. 6526 del 7 maggio 2002.

[27] Corte di Cassazione, sezione I, sentenza n. 16526 del 5 agosto 2005. Sulla base dell’enunciato principio, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che aveva escluso che potesse costituire giusta causa oggettiva di revoca l’opposizione ad un progetto di fusione, manifestata dall’amministratore revocato nel corso di una riunione del consiglio di amministrazione, che aveva poi approvato a maggioranza il progetto stesso.

Conforme, Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 15322 del 7 agosto 2004. La giusta causa di revoca dell’amministratore societario, quale ragione di disconoscimento al mandatario del danno prodotto dall’anticipato scioglimento del rapporto (art. 2383, III comma c.c.), può derivare anche da fatti non integranti inadempimento, ma richiede pur sempre un quid pluris, rispetto al mero dissenso (alla radice di ogni recesso ad nutum), ossia esige situazioni sopravvenute (provocate o meno dall’amministratore stesso) che minino il pactum fiduciae, elidendo l’affidamento inizialmente riposto sulle attitudini e le capacità dell’organo di gestione.

[28] Corte di Cassazione, sezione I, sentenza n. 23557 del 12 settembre 2008. Inoltre dalla medesima sentenza si estrapola un’ulteriore massima secondo la quale il rapporto di immedesimazione organica fra l’amministratore ed una società di capitali esclude che le funzioni connesse alla carica, siano riconducibili ad un rapporto di lavoro subordinato ovvero di collaborazione coordinata e continuativa; ne consegue che in caso di revoca senza giusta causa, per la liquidazione dei relativi danni, deve procedersi secondo i criteri generali di cui agli artt. 1223 e c.c., trattandosi di vicenda non equiparabile alla risoluzione di un contratto di lavoro subordinato.

art. 1223 c.c.   risarcimento del danno  il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta.

[29] Tribunale di Napoli civile, sentenza 21 maggio 2001

[30] Tribunale di Napoli civile sentenza 10 maggio 2001

[31] Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 19 novembre 2008, n. 27512

[32]Tribunale di Milano Sezione VIII civile, sentenza 22 febbraio2006, n. 2265. Nel caso in esame il tribunale ha dichiarato inammissibile, per sopravvenuto difetto di interesse ad agire dovuto alla presentazione delle dimissioni dalla carica ricoperta, la domanda con cui il consigliere del c.d.a. della società convenuta aveva chiesto l’annullamento della delibera consiliare con la quale gli era stata revocata anzitempo la delega conferitagli per le funzioni di amministratore delegato. Nella motivazione il giudice lombardo ha richiamato il principio secondo il quale l’interesse ad agire e ad impugnare deve sussistere nel momento in cui il giudice pronuncia la decisione ed il suo difetto è rilevabile d’ufficio (sul punto, vedi, Cassazione civile, Sez. II, sentenza 6 aprile 1983, n. 2406.

[33]Tribunale di Milano Sezione VIII civile sentenza 25 ottobre 2006, n. 11631. Nel caso di specie, il Tribunale ha ritenuto pertanto legittimo l’operato del consiglio di amministrazione di una s.p.a. il quale aveva revocato le deleghe operative già conferite all’amministratore in difetto del requisito fiduciario da parte degli altri consiglieri circa la conduzione amministrativa della società. Secondo il collegio, infatti, non esiste alcuna limitazione posta dalla lettera della legge al libero esercizio di tale autonomo diritto: nulla infatti viene detto nella disciplina normativa in merito all’eventuale ricorrere di una giusta causa, né ai possibili effetti della sua mancanza.

[34] Tribunale di Milano Sezione VIII civile, sentenza 12 maggio 2010, n. 6137

[35] Tribunale di Napoli civile, sentenza 09 gennaio 2002

[36] Tribunale di Foggia Sezione 2 civile, sentenza 04 luglio 2005, n. 1077. Si continua a leggere nella sentenza che essendo la suddetta s.p.a., nel caso di specie, frutto della trasformazione di un’azienda municipalizzata, è illegittima la delibera di revoca degli amministratori assunta dal Sindaco come unico azionista in assenza di una delle fattispecie di revoca per giusta causa individuate tipicamente dal Consiglio Comunale sulla base di quanto previsto dal TUEL, determinando, per l’effetto, in capo alla società l’obbligo di risarcire il danno in favore degli amministratori ingiustamente revocati.

[37] Corte d’Appello di Napoli Sezione I civile, sentenza 27 gennaio 2011, n. 165

[38] Tribunale di Milano civile, sentenza 02 agosto 2010

[39] Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 28 aprile 1997, n. 3652

[40] Vedi pag. 29

[41] Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 13 agosto 2008, n. 21563

[42] Si ritiene che il numero dei consiglieri possa essere composto anche in cifra pari o addirittura da 2 amministratori – nel caso in cui ad uno di questi (il presidente) è attribuita una prevalenza nell’espressione del voto rispetto al voto del consigliere, si violerebbe il metodo collegiale, in quanto l’amministrazione sostanzialmente sarebbe rimessa ad un solo soggetto) è invece legittima la clausola statutaria che attribuisca prevalenza al voto del presidente in caso di parità di voti nell’ambito del consiglio, pur con un numero dispari di amministratori (il c.d. casting vote)

[43] vi possono essere deleghe atipiche, ovvero senza autorizzazione, interne o c.d. di fatto, che hanno rilievo solo interno al consiglio

[44]Corte di Cassazione Sezione Tributaria civile, sentenza 08 febbraio 2005, n. 2488 E’ inammissibile, perché proveniente da soggetto privo della relativa legittimazione, il ricorso alla Commissione provinciale tributaria proposto, nel nome e nell’interesse di una società a responsabilità limitata, da parte di uno dei membri del consiglio di amministrazione, in forza di delega rilasciata dallo stesso consiglio, qualora si accerti, in linea di fatto, che lo statuto sociale attribuisce solo all’amministratore unico o al presidente del consiglio di amministrazione il potere di agire in giudizio e non al consiglio. A norma dell’articolo 2381 del Cc, infatti, il consiglio di amministrazione può delegare a un comitato esecutivo o a uno o più dei suoi membri le «proprie» attribuzioni e non le attribuzioni di altri organi sociali, quali il presidente.

[45] Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 15 febbraio 2005, n. 3032

[46] Vedi pag. 47

[47] Corte di Cassazione Sezione III penale, sentenza 01 aprile 2005, n. 12370 Nell’occasione la Corte ha ulteriormente precisato che nell’eventualità di una ripartizione di funzioni nell’ambito del consiglio di amministrazione ex art. 2381 cod. civ. gli altri componenti rispondono anch’essi del fatto illecito allorché abbiano dolosamente omesso di vigilare o, una volta venuti a conoscenza di atti illeciti o dell’inidoneità del delegato, non siano intervenuti

[48] Corte di Cassazione, sezione I, sentenza n. 12696 del 29 agosto 2003.

[49] Vedi pag. 47

[50] In particolare, ad esempio, in mancanza di un esplicito e specifico divieto da parte dell’assemblea di una società di capitale, l’esercizio del diritto di querela, pur trattandosi di un atto di straordinaria amministrazione, rientra tra i compiti dell’amministratore delegato o rappresentante legale e non richiede un apposito e specifico mandato. Corte di Cassazione Sezione II penale, sentenza 18 settembre 1991, n. 9714

[51] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 25 marzo 2005, n. 6468

[52] Corte di Cassazione, sezione Unite, sentenza n. 18331 del 6 agosto 2010

[53]Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 03 marzo 2010, n. 5152 In applicazione di tale principio, e con riferimento ad una fattispecie anteriore al d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che, nell’interpretare una clausola statutaria che limitava i poteri degli amministratori al compimento degli atti di ordinaria amministrazione, aveva ritenuto che essa si riferisse esclusivamente agli atti estranei all’oggetto sociale, in quanto essa sarebbe risultata priva di senso logico e giuridico ove riferita agli atti ricompresi nell’oggetto sociale, che coincidono già con tutti quelli che l’amministratore ha il potere di compiere quali atti di ordinaria amministrazione

[54] Per una maggiore disamina dell’istituto della rappresentanza consultare il seguente documento:

La rappresentanza e La procura

[55] Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 04 agosto 2006, n. 17696

[56] Corte di Cassazione Sezione Lavoro civile, sentenza 20 agosto 2004, n. 16376

[57] Corte di Casazione, sezione III, sentenza n. 3848  del 17 febbraio 2011. Nella specie la S.C. ha cassato senza rinvio la sentenza con cui la corte di merito aveva disatteso l’eccezione di invalidità della procura dell’appellante società per azioni, perché rilasciata dal direttore generale e non dal legale rappresentante, unico soggetto legittimato a stare in giudizio per la società.

[58] Corte di Cassazione, Sezione II, sentenza n. 24298 del 15 novembre 2006

[59] Corte di Cassazione, sentenza n. 3305 del 17 aprile 1997. Nello stesso senso una pronuncia del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, Decreto 15 luglio 2003, n. 377. L’art. 2384 c.c. dispone che gli amministratori che hanno la rappresentanza della società possono compiere tutti gli atti che rientrano nell’oggetto sociale, salvo le limitazioni che risultano dalla legge o dall’atto costitutivo. L’oggetto sociale costituisce, quindi, un limite pienamente operante per gli amministratori in ordine al compimento di atti giuridici in nome e per conto della società, pur se, come disposto dall’art. 2384 bis, c.c. «l’estraneità all’oggetto sociale degli atti compiuti dagli amministratori in nome e per conto della società non può essere opposta ai terzi di buona fede». Quanto ai criteri per stabilire se un determinato atto rientri o meno nell’oggetto sociale, questi rilevano sia ai fini dell’opponibilità dell’atto ai terzi ex art. 2384 bis, c.c., nei rapporti esterni, sia per stabilire la responsabilità dell’amministratore verso la società (artt. 2392 e 2393 c.c.) ovvero la sussistenza di una giusta causa di revoca dell’amministratore (art. 2383 comma III, c.c.) ovvero di gravi irregolarità di gestione (art. 2409 c.c.). Al fine di verificare l’opponibilità dell’atto ai terzi si ritiene debba valere il criterio della potenziale strumentalità dell’atto rispetto all’attività economica prescelta dalla società, da valutarsi al momento del suo compimento, mentre, per stabilire la correttezza dell’operato dell’amministratore sul piano del rapporto interno di gestione, vale il criterio della utilizzazione effettiva dell’atto, pur se successivamente riscontrata, nel senso che possono ritenersi pertinenti all’oggetto sociale solo quegli atti che siano effettivamente preordinati alla realizzazione del programma economico della società. Tale accertamento deve essere compiuto caso per caso, attraverso l’esame dell’atto nella sua concretezza, verificando se l’atto, secondo un criterio di normalità, sia funzionalmente collegato all’attività statutariamente prevista.

[60] Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 16 maggio 2007, n. 11315

[61] Campobasso

[62] Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 12 dicembre 2007, n. 26011

[63] Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 15 aprile 2008, n. 9905. In termini, confronta, Cassazione civile, Sez. I, sentenza 2 settembre 2004, n. 17678 e Cassazione civile, Sez. I, sentenza 11 dicembre 2006, n. 26325.

[64] Corte di Cassazione, I sezione, sentenza n. 4787 del 4 marzo 2005

[65] Corte di Cassazione Sezione III civile, sentenza 02 aprile 2001, n. 4785

[66] Corte di Cassazione Sezioni Unite civili, Ordinanza 01 ottobre 2007, n. 20596. Nella specie, le Sezioni unite, con riferimento ad un ricorso per regolamento di competenza, hanno disatteso l’eccezione di inammissibilità avanzata dai controricorrenti relativa alla invalidità della procura rilasciata dalla società ricorrente per assunto difetto di legittimazione alla rappresentanza processuale della persona fisica che l’aveva conferita, siccome rimasta priva di prova e risultata comunque formulata solo con la memoria di cui all’art. 47 cod. proc. civ., depositata, però, tardivamente. Confr. Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 13 giugno 2006, n. 13669

[67] Corte di Cassazione Sezione V penale, sentenza 23 marzo 2010, n. 11074

[68] Corte di Cassazione, I sezione, sentenza n. 10355 del 17 maggio 2005

[69] Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 12 gennaio 2010, n. 259

[71] Tribunale di Como civile, decreto 11 febbraio 1999

[72] Tribunale di Udine civile, sentenza 08 ottobre 2001. La c.d. prova di resistenza – prevista espressamente per quanto riguarda il consiglio d’amministrazione e l’ipotesi di conflitto di interessi tra amministratore e società (art. 2391 III comma del codice civile) – costituisce un principio di più ampia applicazione in materia di funzionamento degli organi collegiali, estensibile anche alle delibere dell’assemblea dei soci.

[73] Tribunale di Roma civile, sentenza 11 marzo 2005. Ai fini dell’impugnazione della delibera del consiglio di amministrazione a norma dell’art. 2391 c.c. testo previdente e necessario non solo che la stessa sia stata adottata con il voto determinante di un amministratore in conflitto di interessi ma sia in grado anche, di per sè di arrecare danno alla società.

[74] Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 26 gennaio 2006, n. 1525. Conforme Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 21 novembre 2008, n. 27783. In tema di negozio concluso in conflitto di interessi dall’amministratore unico di società di capitali (nella specie, società a responsabilità limitata), non essendovi separazione tra potere deliberativo e potere rappresentativo della volontà sociale, è inapplicabile l’art. 2391 c.c., che riguarda il conflitto di interessi degli amministratori in presenza di un consiglio di amministrazione, trovando, invece, applicazione la disciplina generale della rappresentanza di cui agli art. 1394 e 1395 c.c., i quali costituiscono eccezione al principio generale dell’irrilevanza del rapporto interno tra rappresentante e rappresentato.

[75] Tribunale di Foggia civile, sentenza 14 gennaio 2003. La specialità dell’art. 2391 c.c. rispetto alla normativa dettata dall’art. 1394 c.c. non riguarda l’intera disciplina dell’esercizio dell’azione di annullamento del contratto concluso in conflitto di interessi, limitandosi il III comma dell’art. 2391 c.c. ad aggiungere (e non sostituire) all’ordinario termine quinquennale di prescrizione un termine preliminare di decadenza di tre mesi per l’impugnazione della delibera viziata da parte degli amministratori assenti o dissenzienti, ovvero da parte dei sindaci. Infatti, la norma sul conflitto di interessi nell’amministrazione pluripersonale non è articolata in funzione del regime giuridico del contratto concluso in tali condizioni, ma è incentrata sul profilo della responsabilità degli amministratori che hanno agito in conflitto di interessi, di tal che per la disciplina del negozio concluso in conflitto di interessi devono richiamarsi i principi generali di cui all’art. 1394 c.c. (conflitto di interessi e mancanza di buonafede dei terzi contraenti).

[76]Tribunale di Milano Sezione VIII civile, sentenza 13 novembre 2007, n. 12256. Sul punto vedi, Cassazione civile, Sez. I, sentenza 26 gennaio 2006, n. 1525 – citata anche nella decisione – la quale ha affermato che quando l’amministratore con rappresentanza, agendo in conflitto di interessi con la società, stipuli un negozio con un terzo, se la stipulazione non è stata preceduta da una fase procedimentale concretatasi nell’adozione di una delibera consiliare non può trovare applicazione l’art. 2391 c.c., a nulla rilevando che l’atto sia eventualmente ricompreso, sotto il profilo gestorio, nella competenza del consiglio di amministrazione, e deve applicarsi piuttosto la disciplina generale dell’art. 1394 c.c.

[77] Corte di Cassazione, sezione V, sentenza n.  24188 del 13 novembre 2006

In tema di imposte sui redditi e con riferimento alla determinazione del reddito d’impresa, l’art. 62 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, il quale esclude l’ammissibilità di deduzioni a titolo di compenso per il lavoro prestato o l’opera svolta dall’imprenditore, limitando la deducibilità delle spese per prestazioni di lavoro a quelle sostenute per lavoro dipendente e per compensi spettanti agli amministratori di società di persone, non consente di dedurre dall’imponibile il compenso per il lavoro prestato e l’opera svolta dall’amministratore unico di società di capitali: la posizione di quest’ultimo è infatti equiparabile, sotto il profilo giuridico, a quella dell’imprenditore, non essendo individuabile, in relazione alla sua attività gestoria, la formazione di una volontà imprenditoriale distinta da quella della società, e non ricorrendo quindi l’assoggettamento all’altrui potere direttivo, di controllo e disciplinare, che costituisce il requisito tipico della subordinazione.

[78] Corte di Cassazione Sezioni Unite civili, sentenza 29 agosto 2008, n. 21933

[79] Tribunale di Bari Sezione IV civile, sentenza 02 luglio 2010, n. 2451

[80] Corte di Cassazione, I sezione, sentenza n. 28243 del 20 dicembre 2005.

[81] Tribunale di Treviso civile, sentenza 03 giugno 2009, n. 1084. Conforme Tribunale di Milano Sezione VIII civile, sentenza 31 marzo 2004, n. 4252. L’amministratore di una società di capitali ha diritto al compenso per l’attività prestata, salvo che ne sia pattuita la gratuità, e, in mancanza di disposizioni al riguardo nell’atto costitutivo, può chiederne la determinazione al Giudice, ove l’assemblea non provveda

[82] Corte di Cassazione Sezione Lavoro civile, sentenza 24 maggio 2010, n. 12592

[83] Tribunale di Milano Sezione VIII civile, sentenza 22 maggio 2007, n. 6248

[84] Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 07 aprile 2006, n. 8230

[85] Tribunale di Milano Sezione VIII civile, sentenza 02 febbraio 2006, n. 1464

[86] Vedi pag. 22

[88] Corte di Cassazione, sezione I, sentenza n. 5718 del 23 marzo 2004. Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che, pur riconoscendo che un amministratore aveva violato lo specifico obbligo di rispettare le norme interne di organizzazione, ne aveva tuttavia escluso la responsabilità sulla base di una ritenuta assenza di colpa, argomentata con il riferimento all’esistenza di prassi societarie illegittime o al rilascio di una delega da un soggetto non legittimato).

[89] Tribunale di Milano Sezione VIII civile, sentenza 10 giugno 2004, n. 7333  Conformi Cass., Sez. I, sentenza 28 aprile 1997, n. 3652; Trib. Milano, 10 febbraio 2000.

[90] Tribunale di Bologna Sezione IV, sentenza 10 aprile 2007, n. 748

[91] Tribunale di Milano Sezione VIII civile, sentenza 28 novembre 2007, n. 13022

[92] Tribunale di Napoli Sezione VII civile, ordinanza 22 maggio 2002. La partecipazione dell’amministratore, quale socio, ad altra società di capitali, avente il medesimo oggetto sociale di quella amministrata, non è sufficiente a porlo con questa in conflitto di interessi e non implica di per sé la violazione del divieto di cui all’art. 2390 c.c.

[93] Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 17 gennaio 2001, n. 560

Avv. Renato D’Isa