Comunione: quando la proprietà spetta in comune a più persone

 

Comunione: quando la proprietà spetta in comune a più persone

 

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27 giugno 2019

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A) Introduzione

art. 1100    c.c.    norme regolatrici[1]: quando la proprietà o altro diritto reale spetta in comune a più persone se il titolo o la legge non dispone diversamente si applicano le norme seguenti.

 

Nel diritto civile, la comunione è la situazione per la quale la proprietà o un altro diritto reale spetta in comune a più persone.

È regolata dagli articoli 1100 e seguenti del codice civile.

Quando il diritto in comunione è quello di proprietà, si parla anche di comproprietà.

Se ne distinguono tre diverse categorie:

  • comunione volontaria (dipendente dalla volontà dei partecipanti; esempio: più persone comprano insieme un bene)
  • comunione incidentale[2] (non dipendente dalla volontà dei partecipanti; esempio: più persone ricevono un bene in eredità[3])
  • comunione forzosa (alla quale non ci si può sottrarre; esempio: condominio degli edifici)

Nel diritto romano il primo tipo di comproprietà si costituiva automaticamente alla morte del pater familias tra i più heredes sui, per il fatto stesso che il patrimonio ereditario restasse in comune tra di essi (consortium ercto non cito).

Ogni consorte poteva infatti da solo non soltanto compiere atti di godimento e di gestione di cose comuni ma poteva anche disporne per l’intero. Ovviamente a ciascuno era fatta la possibilità di interporre veto. A porre fine a questo stato di indivisione interveniva l’actio familiae erciscundae.

In seguito si sviluppa come contitolarità del diritto di proprietà, nell’ambito dei diritti reali, ammissibile anche in presenza di un mero accordo tra più soggetti, come nel caso di una società (cd. societas omnium bonorum).

Rispetto al consortium, la “communio” classica è però governata dalla “quota” che, quale frazione ideale dell’intero, è il parametro per stabilire tutti i doveri di ogni partecipante (o comunista).

Questa tipologia di comunione (detta “ordinaria”) può avere ad oggetto i diritti reali di godimento ed il pegno, ma occorre precisare che la sua disciplina è innanzitutto quella dettata dalla volontà delle parti, in mancanza della quale si applicano le regole contenute negli articoli 1101 e seguenti del codice civile, aventi in generale carattere dispositivo, sebbene alcune di esse appaiono inderogabili, come per esempio il patto contenuto nell’articolo 1111 che fissa in dieci anni il limite massimo di durata del patto di non scioglimento della comunione ordinaria.

          Ultima considerazione è che nell’ambito della comunione si applicano per analogia molte pronunce della S.C. in materia di condominio essendo, logicamente molto più ampia la casistica per la litigiosità constante che contraddistingue i rapporti di vicinato condominiali.

B) Natura giuridica del diritto di comunione

A)   Teorie[4] che negano l’inquadramento della comunione nello schema della proprietà – 

1) Tale teoria ravvisa nell’ente comunione il titolare del diritto di proprietà; i singoli non avrebbero la proprietà della cosa comune dato che non possono mutarne la destinazione né, tantomeno, gestirla o disporre di essa in pregiudizio degli altri. E’ all’ente comunione che spetterebbero i poteri di gestione e disposizione della cosa comune.

2) Tali autori[5] negano ugualmente la proprietà del singolo compartecipante, ma non la attribuiscono alla comunione; ai partecipanti spetterebbe, piuttosto, una sorta di proprietà collettiva.

Contra

tali teorie non sono condivisibili poiché:

1)   in primo luogo la norma prevede che ai compartecipi spetti il diritto di proprietà;

2)   inoltre tali teorie non stabiliscono quale diritto spetti precisamente ai compartecipi, ed in quale rapporto si ponga con la proprietà del gruppo.

B)   Teorie[6] che affermano l’inquadramento della comunione nello schema della proprietà–

Ciascun compartecipe è contitolare della proprietà, ed è, cioè comproprietario

1) la comunione non limiterebbe il diritto del partecipante, bensì il suo oggetto, assegnando così a quest’ultimo un diritto assoluto su una parte ideale della cosa.

Contra

1) tale teoria non è condivisibile poiché la parte ideale di un bene non è suscettibile di proprietà e, se pure lo fosse, resterebbe priva di titolarità la proprietà della cosa intera.

2) tale teoria[7] sostiene che ciascun compartecipe ha una quota ideale di proprietà sul bene intero (c.d. teoria della proprietà plurima parziaria).

Il singolo compartecipe, però, in tal modo, non può alienare la cosa comune, poiché tale atto comporterebbe la disposizione di diritti non propri, ma dei compartecipi; può, invece, disporre liberamente della proprietà della sua quota.

Il diritto di proprietà si ripartisce per quote tra i singoli compartecipi e ciascuno di essi è titolare di una quota del diritto di proprietà o del diverso diritto in comunione; tale quota è normalmente disponibile ed espropriabile.

Il diritto del singolo soggetto incontra i limiti derivanti dal diritto degli altri contitolari, che, però, non annullano la proprietà del singolo, m la comprimono nella misura necessaria a non pregiudicare gli altri compartecipi.

C) Figure di comunioni

 

Comunioni speciali

1 – Comunione ereditaria

2 – Condominio

3 – Comunione legale e convenzionale tra i coniugi

Comunione legale e comunione ordinaria

La comunione fra coniugi si presenta come una fattispecie che opera su un piano dinamico, poiché riguarda gli acquisti futuri che i coniugi effettueranno, insieme o separatamente, fin quando non intervenga lo scioglimento del matrimonio e del regime di comunione (art. 1919 c.c.).

      La comunione ordinaria, invece, è un istituto che opera su un piano statico, in quanto attiene a diritti, che fanno già parte di un determinato patrimonio e si costituisce mediante un atto negoziale come un contratto o un testamento.

Inoltre, l’amministrazione dei beni in comunione legale è disciplinato da uno speciale regime giuridico (artt. 180 e ss. del c.c.) per cui le norme previste per la comunione ordinaria (artt. 1105 e ss. del c.c.) non potranno trovare applicazione.

Nella comunione legale tra coniugi vige l’inderogabile principio dell’assoluta uguaglianza delle quote (art. 194 e 210 c.c.), mentre nella comunione ordinaria le quote dei partecipanti possono essere diseguali.

La particolarità della comunione legale emerge soprattutto nel regime degli acquisti regolato dal 1° co. dell’art. 177 del c.c. il quale prevede che costituiscono oggetto della fattispecie gli acquisti compiuti dai due coniugi, insieme o separatamente durante il matrimonio, ad esclusione di quelli relativi ai beni personali.

Alla luce della disciplina giuridica vigente, gli acquisti effettuati dai coniugi entrano automaticamente in comunione tutte le volte in cui non ricorra una delle eccezioni alla regola generale posta dall’art. 177 del c.c., cosi com’è previsto nell’art. 179 del c.c.La regola generale, dunque, è quella dell’indisponibilità degli effetti della comunione legale quale regime a cui il nostro ordinamento ricollega interessi di natura pubblicistica.

Riguardo all’oggetto, la comunione ha carattere generale ma non universale, poiché non comprende I beni personali anteriori o successivi al matrimonio.

4 – Comunione forzosa del muro ex artt. 874 e 875 c.c.[8]

art. 874 c.c.  comunione forzosa del muro sul confine: il proprietario di un fondo contiguo al muro altrui può chiederne la comunione (2932) per tutta l’altezza o per parte di essa, purché lo faccia per tutta l’estensione della sua proprietà. Per ottenere la comunione deve pagare la metà del valore del muro, o della parte di muro resa comune, e la metà del valore del suolo su cui il muro è costruito. Deve inoltre eseguire le opere che occorrono per non danneggiare il vicino.

art. 875 c.c.  comunione forzosa del muro che non è sul confine: quando il muro si trova a una distanza dal confine minore di un metro e mezzo ovvero a distanza minore della metà di quella stabilita dai regolamenti locali, il vicino può chiedere la comunione del muro soltanto allo scopo di fabbricare contro il muro stesso, pagando, oltre il valore della metà del muro, il valore del suolo da occupare con la nuova fabbrica, salvo che il proprietario preferisca estendere il suo muro sino al confine.

Il vicino che intende domandare la comunione deve interpellare preventivamente il proprietario se preferisca di estendere il muro al confine o di procedere alla sua demolizione. Questi deve manifestare la propria volontà entro il termine (2964) di giorni quindici e deve procedere alla costruzione o alla demolizione entro sei mesi dal giorno in cui ha comunicato la risposta.

5 – La contitolarità di usufrutto[9]

Non vi è dubbio che l‘usufrutto possa spettare a più soggetti ed il fenomeno viene ricondotto al quadro generale, per appunto, della comunione.

Ciascun partecipe è titolare di quota indivisa di usufrutto e può disporre della cosa compatibilmente con l‘uso degli altri partecipanti; può percepire una parte di frutti corrispondente alla sua quota; può concorrere all‘amministrazione della cosa (amministrazione che dipende dalla volontà della maggioranza dei partecipanti); può, infine, far cessare l‘usufrutto mediante la divisione, salve le eccezioni espressamente stabilite per ogni comunione ordinaria o ereditaria.

6 – Presunzione di comunione del muro divisorio

articolo 880 c.c.  Presunzione di comunione del muro divisorio

Il muro che serve di divisione tra edificisi  presume comune fino alla sua sommità e, in caso di altezze ineguali, fino al punto in cui uno degli edifici comincia ad essere più alto.

Si presume parimenti commune il muro che serve di divisione tra cortili, giardini e orti o tra recinti nei campi.

art. 882 c.c.    Riparazioni del muro comune

Le riparazioni e le ricostruzioni necessarie del muro comune sono a carico di tutti quelli che vi hanno diritto e in proporzione del diritto  di ciascuno, salvo che la spesa sia stata cagionata dal fatto di uno dei partecipanti.

Il comproprietario di un muro comune può esimersi dall’obbligo di contribuire nelle spese di riparazione e ricostruzione, rinunziando al diritto di comunione, purché il muro comune non sostenga un edificio di sua spettanza.

La rinunzia non libera il rinunziante dall’obbligo delle riparazioni e ricostruzioni a cui abbia dato causa col fatto proprio.

In tema da ultimo è intervenuta la S.C.

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 23 novembre 2012, n. 20733

stabilendo che in base alla speciale disciplina dettata dall’art. 882 comma 1 c.c., le riparazioni e le ricostruzioni necessarie del muro comune sono a carico di tutti i comproprietari in proporzione alle rispettive quote di comproprietà, salvo che la spesa sia stata cagionata dal fatto di uno dei partecipanti, nel qual caso l’obbligo di riparare il muro comune è posto per l’intero a chi abbia cagionato il fatto che ha dato origine alla spesa. L’obbligo sancito dall’ultima parte della norma in esame, secondo l’opinione prevalente, rappresenta un eccezionale criterio di imputazione, che prescinde dal dolo o dalla colpa dell’autore, e che si basa esclusivamente sul nesso causale tra il fatto del compartecipe e il danneggiamelo del muro.

In senso generale, inoltre, la stessa Cassazione ha affermato che in tema di responsabilità extracontrattuale, qualora il danno subito dalla cosa comune sia causalmente imputabile ad uno dei comproprietari, il comproprietario del bene danneggiato può agire nei confronti del danneggiante per il risarcimento dei danni per equivalente solo pro-quota, e non per intero. Il pregiudizio patrimoniale subito dal comproprietario, infatti, corrisponde alla spesa posta a suo carico per la riparazione del bene comune; sicché in favore del predetto può essere liquidato solo l’importo su lui gravante in proporzione al suo diritto di comproprietà, e non anche la parte di esborso dovuta dal comproprietario danneggiante.

7 – Le vie vicinali agrarie e pubbliche

Le strade si distinguono a seconda del soggetto proprietario, potendo avere natura “demaniale”,“vicinale” o “privata”.

Sono private le vie cosiddette agrarie o vicinali private costituite da passaggi in comunione incidentale tra i proprietari dei fondi latistanti serviti da quei medesimi passaggi.

La via agraria, cioè la strada privata che i proprietari dei fondi latistanti aprono e mantengono per transitarvi secondo le esigenze della coltivazione, viene formata mediante conferimento di suolo (cd. “collatio agrorum privatorum”) o di altro apporto dei vari proprietari, in modo da fondare una comunione (“communio incidens”), per la quale il godimento della strada non è “iure servitutis” ma “iure proprietatis” e, pur avendo di regola, fondi fronteggianti, può essere utilizzata, in relazione alla necessità del tracciato, da più fondi in consecuzione, fermo restando il principio che essa possa servire a tutti i proprietari dei fondi in tutte le direzioni, onde ciascuno ne abbia per tutta la sua lunghezza la proprietà “pro indiviso”). Tribunale Chieti, 15/10/2009, n. 748

Sono vicinali pubbliche le vie di proprietà privata, soggette a pubblico transito. In concreto, il sedime della vicinale, compresi accessori e pertinenze, è privato, di proprietà dei titolari dei terreni latistanti, mentre l’ente pubblico è titolare di un diritto reale di transito a norma dell’art. 825 c.c..

Tale diritto può essersi costituito nei modi più diversi, ossia mediante un titolo negoziale, per usucapione o attraverso gli istituti dell’ “immemorabile”, cioè dell’uso della strada da parte della collettività da tempo, appunto, immemorabile o della “dicatio ad patriam”, che si configura quando i proprietari mettono a disposizione del pubblico la strada, assoggettandola all’uso collettivo.

La natura pubblica della strada, dipende dalla coesistenza effettiva di tre condizioni, quali:

1) il passaggio esercitato iure servitutis pubblicae, da una collettività di persone qualificate dall’appartenenza ad un gruppo territoriale;

2) la concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di carattere generale, anche per il collegamento con la pubblica via;

3) un titolo valido a sorreggere l’affermazione del diritto di uso pubblico, che può anche identificarsi nella protrazione dell’uso da tempo immemorabile

( Cons. di Stato, Sez. IV, n. 1155/2001; Cons. di Stato, Sez. V, n. 5692/2000; Cass. civ., Sez. II, n. 7718/1991).

Da ultimo la medesima Corte

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 5 luglio 2013, n. 16864

ha ribadito il concetto, affermando che  i requisiti in base ai quali una strada puo’ rientrare nella categoria delle vie vicinali pubbliche sono costituiti dal passaggio esercitato “jure servitutis publicae” da una collettivita’ di persone qualificate dall’appartenenza ad una comunita’ territoriale, dalla concreta idoneita’ della strada a soddisfare (anche per il collegamento con la pubblica via) esigenze di generale interesse, e da un titolo valido a sorreggere l’affermazione del diritto di uso pubblico (Cass. 2-1-1998 n. 10932; Cass. 13-2-1999 n. 1205), nella fattispecie insussistenti.

Per la S.C.[10] le vie vicinali agrarie[11] formate ex collatione privatorum agrorum traggono la loro origine da situazioni giuridiche obiettive di diversa natura, le quali possono essere determinate dalla volontà coincidente, anche se non concorde, di tutte le parti, manifestata attraverso il fatto materiale del conferimento in relazione all’effettiva esigenza dei fondi; manifestazione che, non avendo natura negoziale, produce effetti giuridici, anche in mancanza di qualsiasi forma scritta, e vale a costituire una comunione, avente le caratteristiche di una “communio incidens“, onde il transito attraverso la strada avviene non “iure servitutis“, ma “iure proprietatis“.

Inoltre[12] la formazione di una via agraria “ex collatione privatorum agrorum” – cioè il fatto che il suo sedime facesse parte in origine dei fondi dei proprietari latistanti e sia stato da essi distaccato e conferito, appunto, allo scopo di creare una strada –  può essere dimostrata, al pari di ogni altra “communio incidens“, anche con testimoni o con presunzioni desumibili dal prolungato uso pacifico della strada da parte di tutti i proprietari di detti fondi, dalle caratteristiche dei luoghi, dalle esigenze di comunicazione e coltura dei fondi attraversati.

7 – Sopraelevazione in zona comune in caso di mancata contestazione

Ad esempio – secondo la S.C.[13] – la colonna d’aria, configurandosi come proiezione, verso l’alto, dell’area sottostante, appartiene al proprietario di questa, con la conseguenza che lo spazio aereo, che sovrasta una determinata costruzione, deve ritenersi comune se l’area sottostante è comune: in tal caso, ciascun proprietario può utilizzarlo secondo i principi della comunione.

Comunioni atipiche

 Che sono quelle che non rientrano in alcun modello normativo

1 –  comunioni di diritto di credito

È il diritto che hanno i soggetti attivi del rapporto di ottenere l’esecuzione della prestazione dovuta.

Il diritto di credito si qualifica come diritto soggettivo relativo in contrapposizione ai diritti assoluti (la proprietà) in cui il termine passivo del rapporto è costituito, genericamente ed astrattamente, da tutti i consociati; il diritto relativo, invece, attribuisce al creditore il potere di pretendere la prestazione solo nei confronti di un soggetto determinato.

Ad esempio nel caso di offerta al pubblico[14], in via di principio al momento dell’accettazione si applica il criterio della priorità temporale (prior in tempore potior in iure), ma se c’è contemporaneità non è possibile un potere di scelta dell’offerente, ma si avrà o un’attribuzione pro-quota o si ipotizza la costituzione di un diritto comune se il bene oggetto del contratto è indivisibile.

 2 –  comunioni di diritti personali di godimento

Alle quali si applicano in via analogica le norma della comunione ereditaria

3 –  comunione di godimento

È caratterizzata dallo coesistenza, sulla cosa, di differenti diritti di godimento.

In questo caso i diritti non sono in comune, ma è in comune il godimento della cosa, che rende applicabili le norme della comunione ordinaria.

Ad esempio secondo la Corte di Legittimità[15] nelle vicende del rapporto di locazione, l’eventuale pluralità di locatori integra una parte unica, al cui interno i diversi interessi vengono regolati secondo i criteri che presiedono alla disciplina della comunione; sugli immobili oggetto di comunione concorrono, quindi, in difetto di prova contraria, pari poteri gestori da parte di tutti i comproprietari[16] in virtù della presunzione che ognuno di essi operi con il consenso degli altri o quanto meno della maggioranza dei partecipanti alla comunione.

Compossesso

Si ha compossesso quando più soggetti esercitano congiuntamente il possesso sulla cosa. Il compossessore può esercitare nei confronti dei terzi l’azione di reintegrazione e l’azione di manutenzione quale che sia la sua quota di partecipazione. A sua volta il compossessore può esercitare queste stesse azioni anche nei confronti degli altri compossessori tutte le volte in cui uno di questi sopprima o turbi il possesso degli altri a meno che questi atti non vengono tollerati e non costituiscono atti univocamente idonei a rivelare un mutamento del titolo del proprio possesso.

Principio estratto da ultima sentenza della S.C.

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 22 novembre 2012, n. 20704

4 –  I consorzi di urbanizzazione

Secondo il Tribunale capitolino[17] i consorzi di urbanizzazione, preordinati alla sistemazione ed al miglior godimento di uno specifico comprensorio attraverso la realizzazione e fornitura di opere e servizi assai complessi e onerosi, costituiscono figure atipiche che, per essere caratterizzate dall’esistenza di una stabile organizzazione di soggetti funzionale al raggiungimento di uno scopo non lucrativo, presentano i caratteri delle associazioni non riconosciute.

Il problema della normativa ad essi applicabile va, peraltro, risolto alla luce della considerazione che, accanto all’innegabile connotato associativo, essi si caratterizzano anche per un forte profilo di realità – in quanto il singolo associato, inserendosi, al momento dell’acquisto dell’immobile, nel sodalizio, onde beneficiare dei vantaggi offertigli, assume una serie di obblighi ricollegati in via immediata e diretta alla proprietà dei singoli cespiti e di quelli eventualmente comuni, legittimamente qualificabili in termini di “obligationes propter rem” con riferimento non solo alla gestione delle cose e dei servizi consortili, ma anche della realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria – sicché, insoddisfacenti risultando tanto le teorie che propugnano l’applicazione generalizzata delle norme sulle associazioni, quanto quelle che propendono per il ricorso alle sole disposizioni in tema di comunione e condominio, è d’uopo rivolgere l’attenzione, in primo luogo, alla volontà manifestata nello statuto e, ove questo nulla disponga al riguardo, passare all’individuazione della normativa più confacente alla regolamentazione degli interessi implicati dalla controversia.

 

Esula, invece, dal concetto di comunione la servitù; difatti secondo giurisprudenza consolidata[18] sebbene la formula di cui all’art. 1100 c.c. lasci intendere che le norme in tema di comunione si applicano quando spetti in comune a più persone la titolarità di un diritto reale, tuttavia con riferimento alla servitù deve concludersi per l’inapplicabilità delle regole della comunione, stante l’impossibilità di frazionare tale diritto che non permette una spettanza per quote.

Ciò, tanto più ove la servitù sia costituita a vantaggio di più fondi autonomi, ricorrendo in tal caso un semplice concorso di diritti sul medesimo bene.

Va poi aggiunto che anche la dottrina minoritaria che ha ritenuto di poter ammettere una comunione del diritto di servitù, ha ritenuto di dover distinguere l’ipotesi in cui il diritto sia costituito a vantaggio di più fondi, da quello in cui la costituzione sia a vantaggio di un fondo in comunione. Solo in quest’ultima situazione sarebbe possibile infatti discorrere di comunione, in quanto vi sarebbe un’unica servitù in comune[19], mentre nella prima fattispecie, ogni diritto di servitù sarebbe autonomo, essendovi un semplice concorso di diritti sul medesimo bene.

D) Regolamento della Comunione

 

art. 1106 c.c.      regolamento della comunione e nomina di amministratore: con la maggioranza calcolata nel modo indicato dall’articolo precedente, può essere formato un regolamento per l’ordinaria amministrazioneper il miglior godimento della cosa comune.

Nello stesso modo l’amministrazione può essere delegata ad uno o più partecipanti, o anche a un estraneo, determinandosi i poteri e gli obblighi dell’amministratore.

Il regolamento – entro i limiti di contenuto fissati dalla legge – si configura sotto il profilo funzionale come negozio normativo, in quanto pone una seria di regole di condotta concernenti l’uso, l’amministrazione delle cose comuni, nonché l’organizzazione necessaria per un ordinato svolgimento dei rapporti condominiali.

I maggiori dissensi in dottrina, peraltro, non concernono la funzione del negozio regolamentare, bensì la sua struttura.

1)   secondo un parte della dottrina, la delibera di approvazione del regolamento ha  i caratteri dell’atto collettivo – essa risulta, infatti, composta da più atti di volizione di eguale contenuto e provenienti da più persone, per il conseguimento di comuni interessi – negozio unilaterale pluripersonale, nel quale le dichiarazioni di più soggetti si dispongono tutte da un lato per la soddisfazione di interessi comuni, di guisa che i diversi soggetti formano una sola parte.

2)   secondo altri autori, invece, il regolamento non può configurarsi come negozio unilaterale, perché le manifestazioni di volontà dei singoli condomini, anche se dirette al conseguimento di uno scopo comune, provengono da più parti, ossia da distinti centri autonomi d’interessi. Il negozio medesimo non sarebbe né negozio unilaterale né contratto, ma integrerebbe la figura tipica dell’accordo.

3)   Per la S.C.[20] non ha natura contrattuale il regolamento che, avendo ad oggetto l’ordinaria amministrazione e il miglior godimento della cosa comune (art. 1106 c.c.), rientra nelle attribuzioni dell’assemblea e, come tale, seppure sia stato approvato con il consenso di tutti i partecipanti alla comunione, può essere modificato dalla maggioranza dei comunisti; ha invece natura di contratto normativo plurisoggettivo, che deve essere approvato e modificato con il consenso unanime dei comunisti, il regolamento quando – contenendo disposizioni che incidono sui diritti del comproprietario ovvero stabiliscono obblighi o limitazioni a carico del medesimo o ancora determinano criteri di ripartizione delle spese relative alla manutenzione diversi da quelli legali – lo stesso esorbita dalla potestà di gestione delle cose comuni attribuita all’assemblea.

Sempre per quanto riguarda la natura di contratto, per la S.C., con ultima pronuncia

Corte di Cassazione, II sezione, sentenza 30 giugno 2011 n. 14460,

regolamento di condominio (applicabile per analogia a quello della comunione) si interpreta secondo il senso letterale delle parole in virtù del principio generale sull’interpretazione dei contratti.

Il regolamento della comunione determina il sorgere di rapporti obbligatori e più precisamente di obbligazioni propter rem (o secondo alcuni autori di oneri reali), che data la loro natura – ossia in quanto ambulatorie – si trasmettono a tutti i successivi acquirenti.

Così, ad esempio, colui che subentra all’originario comunista è tenuto a contribuire alle spese comuni di manutenzione della cosa così come è tenuto all’osservanza del regolamento della comunione, purché – quanto al suo contenuto – il regolamento medesimo rispetti l’ambito di competenza indicato dalla legge.

Oltre questo ambito e cioè quando il regolamento intendesse porre norme particolari relative alla disponibilità del diritto di ciascuno comunista, non si avrà un regolamento di condominio, ma una figura diversa (c.d. regolamento contrattuale).

Nel caso poi, ai sensi del II comma ex art. 1106 l’amministrazione venga delegata ad uno o più partecipanti oppure da un estraneo con ultimo intervento la S.C.

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 21 febbraio 2014, n. 4209

ha stabilito che l’amministratore della comunione non può agire in giudizio (e, quindi, neanche con azione monitoria) in rappresentanza dei partecipanti contro uno o più comunisti quando non gli viene attribuito specificamente il potere nella delega prevista dall’art. 1106, comma 2, c.c. (cfr. Cass. n. 31 del 1977 e Cass. n. 2170 del 1995). In altre parole l’amministratore della comunione non può agire in giudizio in rappresentanza dei partecipanti contro uno dei comunisti, se tale potere non gli sia stato attribuito nella delega di cui al secondo comma dell’art. 1106 c.c., non essendo applicabile analogicamente – per la presenza della disposizione citata, che prevede la determinazione dei poteri delegati – la regola contenuta nel primo comma dell’art. 1131 c.c., la quale attribuisce all’amministratore del condominio il potere di agire in giudizio sia contro i condomini che contro terzi.

Principio ribadito anche da altra recente Cassazione

Corte di Cassazione, sezione seconda civile, sentenza 12 dicembre 2017, n. 29747

Ambito di efficacia del regolamento

La dottrina si è posta un ulteriore problema: determinare l’ambito di efficacia del regolamento della comunione per stabilire se la normativa che il regolamento medesimo pone abbia effetto tra le sole parti ovvero sia opponibile anche ai terzi (efficacia obbligatoria o reale).

art. 1107 c.c.      impugnazione del regolamento:  ciascuno dei partecipanti dissenzienti può impugnare davanti all’autorità giudiziaria il regolamento della comunione entro trenta giorni dalla deliberazione che lo ha approvato. Per gli assenti il termine decorre dal giorno in cui è stata loro comunicata la deliberazione. L’autorità giudiziaria decide con unica sentenza sulle opposizioni proposte.

Decorso il termine indicato dal comma precedente senza che il regolamento sia stato impugnato, questo ha effetto anche per gli eredi e gli aventi causa dai singoli partecipanti.

A tale quesito la Corte di legittimità ha formulato alcuni principi, ovvero:

  • L’omessa trascrizione del regolamento di condominio — che ai sensi dell’art. 1138 cod. civ. deve effettuarsi nel registro di cui all’art. 1129 cod. civ. — rende inopponibili le clausole limitative della proprietà soltanto ai terzi acquirenti e non già a coloro che pattuirono direttamente con l’originario unico proprietario e venditore le limitazioni stesse, mediante richiamo del regolamento condominiale nei singoli atti di acquisto[21].
  • Il regolamento di condominio edilizio predisposto dall’originario unico proprietario dell’edificio è vincolante, purché richiamato ed approvato nei singoli atti di acquisto, sì da far parte per relationem del loro contenuto, solo per coloro che successivamente acquistano le singole unità immobiliari, ma non per coloro che abbiano acquistato le unità immobiliari prima della predisposizione del regolamento stesso, ancorché nell’atto di acquisto sia posto a loro carico l’obbligo di rispettare il regolamento da redigersi in futuro, mancando uno schema definitivo, suscettibile di essere compreso per comune volontà delle parti nell’oggetto del negozio; pertanto, in questa ultima ipotesi, il regolamento può vincolare l’acquirente solo se, successivamente alla sua redazione, quest’ultimo vi presti adesione. Tale adesione — e quindi la volontà del condomino di accettare le disposizioni del regolamento condominiale limitative del diritto di proprietà sulle parti esclusive del suo immobile — deve risultare per iscritto, in modo chiaro ed inequivocabile e non per fatti concludenti, non potendo pertanto costituire adesione, con i conseguenti effetti vincolanti, l’«applicazione» e la «presa di cognizione» del regolamento stesso[22].
  • La clausola di regolamento condominiale non trascritto, la quale preveda limitazioni ai diritti dominicali dei singoli condomini, come l’obbligo o il divieto di dare a taluni locali una determinata destinazione, in tanto è opponibile al terzo acquirente di tali beni, in quanto sia esplicitamente riportata nel contratto d’acquisto, ovvero il terzo acquirente abbia espressamente dichiarato di essere a conoscenza del vincolo suddetto, senza che siano ammessi equipollenti e che il terzo acquirente sia tenuto a svolgere indagini per conoscere aliunde l’esistenza di vincoli, oneri o servitù non risultanti chiaramente dall’atto trascritto[23].
  • Per l’acquirente di unità in immobile condominiale l’obbligo di attenersi alle disposizioni regolamentari, limitative del suo diritto di proprietà esclusiva, qualora il regolamento risulti predisposto dall’unico originario proprietario dell’immobile condominiale, sorge se al momento della stipulazione del contratto di acquisto il regolamento condominiale risulta già predisposto e richiamato nell’atto di compravendita; e sempre che l’acquirente abbia manifestato nel contesto dell’atto o, successivamente, per iscritto, in modo chiaro ed inequivocabile (e non per fatti concludenti) la volontà di accettare quelle disposizioni del regolamento condominiale limitative del diritto di proprietà sulle parti esclusive del suo immobile[24].
  • La trascrizione non è richiesta per il regolamento condominiale convenzionale, salvo che questo contenga clausole limitatrici dei diritti sui beni comuni e dell’uso della cosa propria di proprietà esclusiva, da qualificarsi oneri reali e servitù prediali, allo scopo di renderle opponibili ai terzi ed agli aventi causa[25].
    • Il regolamento di condominio non può disciplinare, in quanto tale, le situazioni di diritto reale dei compartecipi in ordine alle parti comuni dell’edificio ed a quelle di proprietà esclusiva, salvo che sia stato predisposto dall’unico originario proprietario dell’edificio ed accettato con i singoli atti d’acquisto, ovvero adottato con il consenso unanime dei partecipanti manifestato nelle debite forme. Pertanto la clausola contenuta nel regolamento unilateralmente predisposto dall’unico proprietario dell’edificio vale a costituire detta proprietà comune solo con il primo atto di trasferimento di porzione dell’edificio, di modo che se questo sia successivo alla trascrizione del diritto di un terzo, la clausola stessa non è opponibile al terzo medesimo, indipendentemente dall’eventuale priorità della trascrizione del regolamento[26].

 

E) Contenuto del diritto della comunione

 

art. 1101 c.c.     quote dei partecipanti: le quote dei partecipanti alla comunione si presumono eguali.

Il concorso dei partecipanti, tanto nei vantaggi quanto nei pesi della comunione, è in proporzione delle rispettive quote.

 

I singoli partecipanti hanno la facoltà di godere della cosa, facoltà che si realizza concretamente,

A)   Nella presunzione relativa della parità di quote;

In tema, secondo la S.C.[27], ad esempio, nel caso di rivendicazione di una quota indivisa di un bene, la presunzione di parità delle quote stabilita dall’articolo 1101 del c.c., resta superata dall’accertamento che la quota rivendicata è inferiore alla metà, non rilevando che eventualmente non risulti individuato il proprietario di una parte del bene, poiché il convenuto in rivendica, anche rispetto a tale parte, può limitarsi ad avvalersi del principio possideo quia possideo.

Inoltre, è bene anche riportare due casi particolari di applicazione del principio di parità di quota ex art. 1101 c.c., ovvero, per la Corte del Palazzaccio in forza del rinvio contenuto nell’articolo 20 della legge n. 1127 del 1939 alle norme del codice civile sulla comunione, nel caso di invenzione industriale dovuta a più autori, salvo convenzione contraria, opera la presunzione di parità delle quote di cui all’articolo 1101 c.c. e si applica il criterio della libera cedibilità delle stesse ai sensi dell’articolo 1103 c.c. Poichè il comunista non può ai sensi dell’articolo 1102 c.c. alterare la destinazione della cosa comune o impedirne agli altri il godimento, ne consegue però che, ove non sia stato a ciò autorizzato dagli altri comunisti, egli non può sfruttare unilateralmente l’invenzione e non può cedere a terzi la licenza di sfruttamento del brevetto, in quanto quest’ultima implica la facoltà tipica del titolare del brevetto di vietare ad altri l’utilizzazione della stessa idea inventiva, il che priverebbe, pertanto, i contitolari del diritto di esclusiva. Di tale licenza può disporre, infatti, la comunità dei contitolari secondo le regole della comunione.

Altro caso[28] è quello secondo il quale la stipulazione con il Comune di una convenzione di lottizzazione implica che i proprietari dei terreni interessati alla urbanizzazione pongano in essere un negozio (interno) di costituzione di un consorzio urbanistico volontario – con assunzione delle obbligazioni a fini organizzativi e con costituzione degli effetti reali necessari per conferire al territorio l’assetto giuridico conforme al progetto approvato dalla Amministrazione – da ritenersi assoggettato alla disciplina della comunione dettata dal codice civile, ivi compreso l’art. 1101, secondo comma, con la conseguenza che, in difetto di espressa deroga convenzionale, giusta la regola da tale norma imposta, le spese per la lottizzazione (quali quelle afferenti, fra l’altro, al progetto, alle opere di urbanizzazione primaria e secondaria) ed i pesi alla medesima inerenti (quali la cessione al Comune delle opere di urbanizzazione e la destinazione di talune aree, con vincolo permanente, a vantaggio dell`intera lottizzazione o di singoli lotti) si ripartiscono e si distribuiscono in proporzione alle quote dei partecipanti.

Infine con una recente sentenza la Cassazione[29] ha precisato che l’assemblea dei comunisti non ha il potere di determinare in via provvisoria le singole quote di contribuzione dei partecipanti alla comunione alle spese comuni, giacché la misura di tale contribuzione, ove non stabilita dal titolo, è prevista, in via paritaria, dall’art. 1101 c.c.

Infatti anche se è vero che la possibilità di una determinazione provvisoria delle quote (millesimi) è stata affermata dalla S.C. in tema di condominio, ma occorre considerare che in tema di condominio, prima della formazione delle tabelle millesimali, non esiste un criterio legale o convenzionale per determinare la misura della partecipazione alle spese, per cui la giurisprudenza in questione trova una sua giustificazione logica. In tema di comunione, invece, la misura della partecipazione in mancanza del titolo, è stabilita dalla legge, nel senso della parità delle quote (art. 1001 c.c.), per cui non vi è alcun bisogno di una determinazione provvisoria da parte dell’assemblea.

B)   Nell’acquisto di frutti civili e naturali, che spettano ai compartecipi,  in proporzione alla loro quote.

C)   In terzo luogo la facoltà di godimento si specifica mediante l’uso della cosa comune.

art.  1102  c.c.     uso della cosa comune: ciascun partecipante può servirsi della cosa comune (quando non è possibile l’utilizzo parziario di essa si può utilizzare la soluzione dell’uso turnario), purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto.

A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa.

Il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso.

 

      Quando il bene non permette a tutti i partecipanti la libera utilizzazione, è possibile regolamentare l’uso della cosa con un contratto (avente efficacia meramente obbligatoria) oppure con un regolamento, come già analizzato, deliberato dall’assemblea.

      Il compartecipe utilizza la cosa a titolo di proprietario ed è pertanto possessore della stessa insieme agli altri partecipanti ed è, precisamente, un compossessore.

      Il singolo proprietario, inoltre, può esperire le azioni a difesa della proprietà[30].

      Ottima interpretazione della natura dell’utilizzo comune viene fornita da un Giudice[31] di merito, secondo cui la facoltà d’ogni condomino di usare della cosa comune, secondo la previsione dell’art. 1102 c.c., discende direttamente dal diritto di proprietà spettante al condomino stesso, e non può trovare limiti se non nel titolo dell’acquisto o in successivo atto di valore contrattuale, con effetti reali, sicché al fine di stabilire se la condotta del condomino rientri o no in detta facoltà è irrilevante la mera deliberazione assembleare in tema di regolamento, priva dei requisiti di cui sopra.

      Inoltre, sempre, per una sentenza di merito[32] in materia di comunione, la sottrazione di una parte della cosa comune alla possibilità di uso collettivo realizza una vera e propria appropriazione di parte della cosa comune che può essere reso legittimo unicamente a seguito di consenso prestato dagli altri comunisti, consenso che, avendo la comunione ad oggetto un bene immobile, deve essere prestato in forma scritta ad substantiam.

E’ cosa giusta già specificare che secondo la S.C.

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 11 luglio 2011-n. 15203

in materia di comunione, l’art. 1102 c.c., fonda il criterio in base al quale l’uso della res communis avviene, di regola e finchè ciò sia possibile e ragionevole, in maniera promiscua, di guisa che ciascun partecipante ha il diritto di utilizzare il bene come può, e non già in qualunque modo voglia, dato il duplice limite derivante dal rispetto della destinazione della cosa e della pari facoltà di godimento spettante agli altri comunisti. Pertanto, ove il godimento pregresso, sia esso promiscuo o regolamentato in via autonoma tramite delibera dell’assemblea dei condomini adottata a maggioranza, non sia più possibile per taluno soltanto dei partecipanti, a causa del mutamento puramente elettivo delle sue condizioni personali, questi non può esigere potestativamente nei confronti degli altri una diversa modalità di utilizzazione della cosa comune, in senso turnario ovvero mediante altre soluzioni che impegnino ulteriori e/o differenti parti oggetto di comunione, sia perchè il godimento promiscuo è per sua natura modale, di talchè il singolo condomino ha l’onere di conformare ai limiti anche quantitativi del bene le proprie aspettative di utilizzo, sia in quanto differenti opzioni di godimento comune possono essere realizzate in via autonoma, ma non già imposte tramite l’intervento eteronomo del giudice, che nello specifico dispone soltanto di poteri interdittivi.

La Suprema Corte ha precisato che nel caso in cui la cosa comune sia già goduta nel modo statuito dall’assemblea, il condomino che ha acquistato un’auto di dimensioni maggiori rispetto alla precedente, non può reclamare una differente modalità di divisione e di godimento della res condominiale. Pertanto, l’acquisto di una nuova autovettura, di notevoli dimensioni, rappresenta un atto di “libera scelta” del ricorrente, che pertanto, “non può provocare cambiamenti nell’uso della cosa comune attraverso l’imposizione giudiziale di un diverso tipo di godimento diretto, vuoi frazionato temporalmente, vuoi realizzato mediante apposite nuove opere”.

Per ultima Cassazione

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 24 agosto 2015, n. 17072

l’uso particolare che il comproprietario faccia del bene comune non può considerarsi estraneo alla destinazione normale dell’area, a condizione però che si verifichi in concreto che, per le dimensioni del manufatto o per altre eventuali ragioni di fatto, tale uso non alteri l’utilizzazione del cortile praticata dagli altri comproprietari, né escluda per gli stessi la possibilità di fare del bene medesimo un analogo uso particolare.

Ad esempio, nel caso dispecie, la sentenza impugnata da conto proprio della inesistenza di tale condizione ed in particolare della alterazione della destinazione naturale dell’area occupata con la struttura contenente la canna fumaria e per tale ragione ha ritenuto commettere molestia la società che aveva immutato lo stato di fatto degradando gravemente l’estetica dell’edificio ed alterando precedenti facoltà di utilizzazione da parte degli altri condomini.

Modalità d’uso

1)  Pari uso

A mente di una nota sentenza della Cassazione[33] la nozione di pari uso della cosa comune cui fa riferimento l’art. 1102 cod. civ. – che in virtù del richiamo contenuto nell’art. 1139 cod. civ. è applicabile anche in materia di condominio negli edifici – non va intesa nel senso di uso identico e contemporaneo, dovendo ritenersi conferita dalla legge a ciascun partecipante alla comunione la facoltà di trarre dalla cosa comune la più intensa utilizzazione, a condizione che questa sia compatibile con i diritti degli altri, essendo i rapporti condominiali informati al principio di solidarietà, il quale richiede un costante equilibrio fra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione. Ne consegue che, qualora sia prevedibile che gli altri partecipanti alla comunione non faranno un pari uso della cosa comune, la modifica apportata alla stessa dal condomino deve ritenersi legittima, dal momento che in una materia in cui è prevista la massima espansione dell’uso il limite al godimento di ciascuno dei condomini è dato dagli interessi altrui, i quali pertanto costituiscono impedimento alla modifica solo se sia ragionevole prevedere che i loro titolari possano volere accrescere il pari uso cui hanno diritto.

Casistica

In tema di condominio di edifici, l’apposizione di targhe e tende nel prospetto dell’edificio condominiale costituisce espressione del diritto di comproprietà dei condomini su detta parte comune, corrispondendo alla normale destinazione di questa; ne consegue che l’esercizio di tale facoltà non può essere assoggettato a divieto o subordinato al consenso dell’amministratore condominiale[34].

Sempre in tema di condominio negli edifici, ma applicabile per analogia alla comunione, la costruzione di balconi e pensili sul cortile comune è consentita al singolo condomino, purché, ai sensi dell’art. 1102 c.c., non risulti alterata la destinazione del bene comune e non sia impedito agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. Nella fattispecie, la Suprema Corte[35] ha rigettato il ricorso avverso la sentenza con cui il giudice di merito aveva ritenuto che l’edificazione, nel cortile comune, di due balconi alterasse la destinazione del cortile medesimo, diminuendo l’utilizzazione dell’aria e della luce che il bene era destinato ad assicurare.

2)  Uso diverso e/o indiretto

Per la Corte Suprema[36] se la natura del bene di proprietà comune non ne permette il simultaneo godimento da parte di tutti i comproprietari, l’uso comune può realizzarsi o in maniera indiretta, oppure mediante avvicendamento; ma fino a quando non vi sia richiesta di uso turnario da parte degli altri comproprietari il semplice godimento esclusivo ad opera di taluno non può provocare un danno ingiusto nei confronti di coloro che hanno mostrato acquiescenza all’altrui uso esclusivo, quando non risulti provato che i beneficiari del godimento esclusivo del bene ne avessero anche tratto un vantaggio patrimoniale.

Principio ripreso pedissequamente da altra ultima pronuncia

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 17 marzo 2014, n. 6178

In merito la stessa Cassazione,

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 5 settembre 2013, n. 20394

ha ribadito (come si avrà modo successivamente di specificare) il principio secondo cui in materia di comunione del diritto di proprietà, allorché per la natura del bene o per qualunque altra circostanza non sia possibile un godimento diretto tale da consentire a ciascun partecipante alla comunione di fare parimenti uso della cosa comune, secondo quanto prescrive l’art. 1102 c.c., i comproprietari possono deliberarne l’uso indiretto. Tuttavia, prima e indipendentemente da ciò, nel caso in cui la cosa comune sia potenzialmente fruttifera, il comproprietario che durante il periodo di comunione abbia goduto l’intero bene da solo senza un titolo che giustificasse l’esclusione degli altri partecipanti alla comunione, deve corrispondere a questi ultimi, quale ristoro per la privazione dell’utilizzazione pro quota del bene comune e dei relativi profitti, i frutti civili, con riferimento ai prezzi di mercato correnti, frutti che, identificandosi con il corrispettivo del godimento dell’immobile che si sarebbe potuto concedere ad altri, possono – solo in mancanza di altri più idonei criteri di valutazione – essere individuati nei canoni di locazione percepibili per l’immobile

3)  Uso ridotto

In merito, c’è stata una sentenza del Tribunale Etneo[37] secondo la quale, ad esempio, l’assemblea di condominio di un edificio ha il potere di disciplinare ed eventualmente – nel concorso di giustificate ragioni ed interessi comuni – di ridurre l’uso della cosa comune da parte dei singoli partecipanti, ma non anche quello di sopprimere totalmente un determinato uso, quando tale uso sia conforme alla destinazione del bene, non ne alteri la consistenza e non modifichi la possibilità degli altri condomini di usare dello stesso bene in modi e misure analoghe. Una delibera di tal fatta verrebbe, infatti, ad essere in contrasto con l’art. 1120 c.c., che vieta le innovazioni (tra cui vanno ricomprese tutte le modificazioni della destinazione del bene) che rendano talune parti comuni inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino. Fattispecie in cui, nel riformare la sentenza di primo grado, il tribunale ha condannato il condominio convenuto a mantenere il condomino attore nel compossesso di una stradella, il cui accesso carrabile era stato impedito dall’amministratore che, in esecuzione di una delibera assembleare, aveva fatto apporre un paletto di ferro all’imbocco del tratto di stradella.

4)  Uso esclusivo

Per la Corte di Legittimità[38], a norma dell’art. 1102 cod. civ., la utilizzazione della cosa comune da parte di uno dei partecipanti alla comunione, anche se più intensa o diversa da quella degli altri, non vale di per sé sola a mutare il titolo del possesso, e, quindi, ad attrarre la cosa comune o parte di essa nella sfera della disponibilità esclusiva del singolo comunista, il quale, ove intenda espandere il suo possesso in via esclusiva sul bene, pur non dovendo necessariamente compiere gli atti di interversio possessionis, previsti dagli art. 1141[39] e 1164[40] cod. civ., rispettivamente per il mutamento della detenzione in possesso, e del possesso di un diritto reale su cosa altrui, in possesso corrispondente all’esercizio della proprietà, deve tuttavia concretarsi in atti integranti un comportamento durevole, tali da evidenziare un possesso esclusivo ed animo domini sulla cosa, incompatibile con il permanere del compossesso altrui.

In tema è bene sottolineare e ribadire, anche in virtù di una pronuncia della S.C.

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza n. 14599 del 27 agosto 2012

che il condividente di un immobile che durante il periodo di comunione abbia goduto del bene in via esclusiva senza un titolo giustificativo, deve corrispondere agli altri i frutti civili, quale ristoro della privazione dell’utilizzazione pro quota del bene comune e dei relativi profitti, con riferimento ai prezzi di mercato correnti dal tempo della stima per la divisione a quella della pronuncia.

5)  Uso frazionato

È un principio pacifico[41] che, in tema di comunione, l’uso frazionato della cosa a favore di uno dei comproprietari può essere consentito per accordo fra i partecipanti solo se l’utilizzazione, concessa nel rispetto dei limiti stabiliti dall’art. 1102 c.c. rientri tra quelle cui è destinato il bene e non alteri od ostacoli il godimento degli altri comunisti, trovando l’utilizzazione da parte di ciascun comproprietario un limite nella concorrente ed analoga facoltà degli altri. Pertanto, qualora la cosa comune sia alterata o addirittura sottratta definitivamente, alla possibilità di godimento collettivo nei termini funzionali originariamente praticati, non si rientra più nell’ambito dell’uso frazionato consentito, ma nell’appropriazione di parte della cosa comune, per legittimare la quale è necessario il consenso negoziale di tutti i partecipanti che – trattandosi di beni immobili – deve essere espresso in forma scritta “ad substantiam“.

6)  Uso più intenso

Secondo una sentenza del tribunale Meneghino[42],  a contrario, il passaggio carrabile ed il passaggio pedonale su aree comuni costituiscono servitù distinte ed autonome, tale che le relative utilità non possono intendersi ricomprese una nell’altra, né, pertanto, essere ricondotte soltanto ad un diverso grado di intensità nell’uso dei beni comuni.

In tal senso, la richiesta del condomino diretta ad ottenere il passaggio con automezzi su aree condominiali da sempre unicamente destinate a passaggio pedonale costituisce non già un uso più intenso della cosa comune, rientrante, in quanto tale, nel disposto di cui all’art. 1102 c.c., ma un vero e proprio mutamento di destinazione di parti comuni, stante la finalità di creare una utilità puramente individuale, recante i caratteri tipici della servitù prediale (servitù di passaggio esercitabile con automezzi).

Inoltre per la Cassazione[43] in applicazione del principio secondo il quale, in tema di comunione, ciascun comproprietario ha diritto di trarre dal bene comune un’utilità maggiore e più intensa di quella tratta eventualmente in concreto dagli altri comproprietari, purché non ne venga alterata la destinazione o compromesso il diritto al pari uso – e senza che tale uso più intenso sconfini nell’esercizio di una vera e propria servitù – deve ritenersi che l’apertura di due porte su muri comuni per mettere in comunicazione l’unità immobiliare in proprietà esclusiva di un condomino con il garage comune rientra pur sempre nell’ambito del concetto di uso (più intenso) del bene comune, e non esige, per l’effetto, l’approvazione dell’assemblea dei condomini con la maggioranza qualificata, senza determinare, a più forte ragione, alcuna costituzione di servitù.

Infine, per la medesima Corte[44], ciascun comproprietario ha diritto di trarre dal bene comune una utilità maggiore e più intensa di quella che ne viene tratta dagli altri comproprietari, purché non venga alterata la destinazione del bene o compromesso il diritto al pari uso da parte di quest’ultimi.

In particolare, per stabilire se l’uso più intenso da parte del singolo sia da ritenere consentito ai sensi dell’art. 1102 c.c., non deve aversi riguardo all’uso concreto fatto della cosa dagli altri condomini in un determinato momento, ma a quello potenziale in relazione ai diritti di ciascuno; l’uso deve ritenersi in ogni caso consentito, se l’utilità aggiuntiva, tratta dal singolo comproprietario dall’uso del bene comune, non sia diversa da quella derivante dalla destinazione originaria del bene e sempre che detto uso, non dia luogo a servitù a carico del suddetto bene comune. Nella specie, la Corte ha confermato la sentenza di merito, secondo la quale la realizzazione di un passo carraio tra un fondo di proprietà esclusiva e la strada comune costituiva un uso consentito al condomino, in quanto non snaturava la funzione cui la strada era destinata, ne impediva l’uso della stessa da parte dell’altro comproprietario.

Ad esempio, secondo ultima cassazione

Corte di Cassazione, sezione sesta civile, ordinanza 18 gennaio 2018, n. 1235

Si configura, in astratto, peraltro, non una violazione dell’articolo 1120 c.c., comma 2, (testo antecedente alle modifiche introdotte con la L. n. 220 del 2012, qui operante ratione temporis), ma dell’articolo 1102 c.c., disposizione invero applicabile a tutte le innovazioni che, come nella specie, non comportano interventi approvati dall’assemblea e quindi spese ripartite fra tutti i condomini; dovendosi del pari riaffermare che, in tema di condominio, e’ illegittimo l’uso particolare o piu’ intenso del bene comune, ai sensi dell’articolo 1102 c.c., ove si arrechi pregiudizio al decoro architettonico dell’edificio condominiale.

7)  Abuso

Per una recente sentenza di merito[45] si verifica abuso della cosa comune, ai sensi della disposizione di cui all’art. 1102 c.c., quando vi sia alterazione della sua destinazione ovvero l’impedimento del pari uso di essa da parte degli altri partecipanti alla comunione. Pertanto nessuno deve impedire agli altri di fare uso della cosa secondo la sua destinazione e quando tale destinazione sia quella propria di una pertinenza di un’abitazione e, contemporaneamente, di una attività commerciale è normale solo l’uso che non alteri anche l’estetica, la tranquillità, il decoro e l’ordine esterno del fabbricato. Sulla base di tale principio la Corte ha escluso che l’appellante potesse utilizzare la corte esterna del fabbricato, nella contitolarità dell’appellante medesimo e dell’appellato, come sala all’aperto della propria attività di ristorazione.

Secondo altra interpretazione[46] sussiste violazione dell’articolo 1102 c.c. (applicabile a tutte le innovazioni che non comportano ripartizione della relativa spesa fra tutti i condomini ma solo a carico del singolo condomino che se ne sia assunto l’onere), quando l’uso particolare o più intenso del bene comune da parte del condomino si configura come illegittimo in quanto ne risulta impedito l’altrui paritario uso e sia alterata la destinazione del bene comune, dovendosi escludere che l’utilizzo da parte del singolo della cosa comune possa risolversi nella compressione quantitativa o qualitativa di quella, attuale o potenziale, di tutti i comproprietari.

Modifiche alla cosa comune

In via generale, prima di affrontare i singoli casi è bene sottolineare che in tema di decoro architettonico secondo la S.C.[47] alle modificazioni consentite al singolo condomino ex art. 1102, primo comma, cod. civ. si applica anche, in via analogica, per la identità di “ratio“, il divieto di alterare il decoro architettonico del fabbricato previsto in materia di innovazioni dall’ art. 1120 , secondo comma, dello stesso codice.

Orbene per decoro architettonico del fabbricato — il cui rispetto costituisce limite al potere del singolo condomino di apportare le modificazioni necessarie per il migliore godimento della cosa comune — deve intendersi l’estetica data dall’insieme delle linee e delle strutture ornamentali che costituiscono la nota dominante, ed imprimono alle varie parti dell’edificio, nonché all’edificio stesso nel suo insieme, una sua determinata armonica fisionomia, senza che occorra che si tratti di edificio di particolare pregio artistico[48].

Sempre in ambito generale, secondo alcune pronunce del T.A.R.[49],qualora l’intervento edilizio comporta modificazioni della consistenza e della destinazione di parti comuni dell’edificio esso necessita, ai sensi dell’art. 1102 c. c., del previo assenso dell’assemblea del condominio; pertanto se l’assemblea condominiale nega l’assenso per la realizzazione delle suddette modificazioni alle parti comuni esterne all’edificio, al Comune, ai sensi dell’art. 4 della L. n. 10/1977, è precluso concedere l’autorizzazione edilizia al condomino richiedente poiché, nel caso di realizzazione di opere edilizie concernenti modifiche di parti condominiali dell’immobile, è illegittimo il rilascio della concessione di costruzione non preceduto dall’assenso del condominio.

Casistica

1)  Ascensore

Secondo la S.C.[50], anche nel condominio degli edifici trova applicazione, relativamente ai beni comuni, il principio, desumibile dall’art. 1102 cod. civ., che consente al singolo condomino di usare della cosa comune anche per un suo fine particolare, con conseguente possibilità di ritrarre dal bene una specifica utilità aggiuntiva rispetto a quelle generali ridondanti a favore degli altri condomini, con il solo limite che non ne derivi una lesione del pari diritto spettante a questi ultimi. Da tanto consegue che in difetto di specifiche limitazioni stabilite dal regolamento di condominio, l’uso dell’ascensore per il trasporto di materiale edilizio può essere legittimamente inibito al singolo condomino solo qualora venga concretamente e specificatamente accertato che esso risulti dannoso, sia compromettendo la buona conservazione delle strutture portanti e del relativo abitacolo, sia ostacolando la tempestiva e conveniente utilizzazione del servizio da parte degli altri condomini, in relazione alle frequenze giornaliere, alla durata e all’eventuale orario di esercizio del suddetto uso particolare, alle cautele adoperate per la custodia delle cose trasportate, tenendo conto di ogni altra circostanza rilevante per accertare le eventuali conseguenze pregiudizievoli che, in ciascun caso concreto, possono derivare del suddetto uso particolare dello ascensore.

2)  Muri perimetrali e comuni

Orbene per la Corte di Legittimità[51], in senso generale, l’utilizzazione, da parte del singolo condomino, del muro perimetrale dell’edificio per le sue particolari esigenze è legittima purché non alteri la natura e la destinazione del bene, non impedisca agli altri condomini di farne un uso analogo e non arrechi danno alle proprietà individuali dei medesimi altri condomini.

In particolare sempre per la medesima Corte:

a)   il condomino di un edificio non può, eseguendo una costruzione in aderenza al muro perimetrale comune, chiudere un’apertura destinata a dare luce ad un vano di proprietà di altro condomino, giacché l’art. 1102 cod. civ. gli vieta di attrarre nella sua sfera esclusiva un elemento comune dell’edificio, con correlativo impedimento per un altro condomino di continuare a farne uso in conformità alla sua destinazione[52].

b)   L’apertura di un vano nel muro perimetrale di edificio condominiale, eseguita dal singolo condomino per accedere in altra sua proprietà esclusiva, estranea al condominio, costituisce un indebito uso di tale muro, in quanto ne altera la destinazione e la funzione di recinzione del fabbricato condominiale, assoggettandolo a quel passaggio in favore di un bene non compreso in detto fabbricato, suscettibile di tradursi nel corrispondente diritto reale a carico dell’immobile condominiale[53].

c)    con riguardo al muro perimetrale di un edificio condominiale, il quale è oggetto di comunione per tutta la sua estensione, ivi comprese le parti corrispondenti a piani e ad appartamenti di proprietà individuale, l’utilizzazione del singolo partecipante deve ritenersi preclusa non solo quando ne alteri la destinazione od impedisca agli altri condomini un pari uso (art. 1102 cod. civ.), ma anche quando implichi una lesione del diritto di altro partecipante sul bene di sua proprietà esclusiva. Nella specie, trattandosi di una scala esterna che toglieva luce ed aria ad un sottostante appartamento[54].

d)   I muri perimetrali degli edifici in cemento armato (cosiddetto pannelli di rivestimento o di riempimento) delimitanti un edificio in condominio rispetto ad altro edificio condominiale costruito in aderenza, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 934 e 1117 c.c. appartengono a tutti i comproprietari del suolo, in quanto costruiti su suolo comune, e pertanto, costituendo un elemento strutturale dell’immobile di cui beneficiano tutti i condomini, a tutti i proprietari dei piani o delle porzioni di piano facenti parte del fabbricato in regime di condominio, che ne sono conseguentemente compossessori. Nell’affermare il suindicato principio, la S.C.[55] ha cassato la sentenza del giudice di merito che, in ordine a due locali terranei dello stesso proprietario facenti parte di una costruzione ad «elle» includente due distinti condomini edificati l’uno in appoggio all’altro, aveva escluso la natura condominiale del muro che li delimitava e separava, negandone il relativo compossesso in capo ai condomini.

e)   Il condomino non può innestare sul muro perimetrale dell’edificio comune una costruzione di sua esclusiva proprietà se non ottiene il consenso di tutti i condomini, perché tale muro è destinato al servizio esclusivo di detto edificio, di cui costituisce parte organica, e perciò ciascun condomino può usarne, ai sensi dell’ art. 1102 cod. civ., per il miglior godimento della parte di fabbricato di sua proprietà esclusiva, ma non a favore di un’immobile distinto dall’edificio comune, non essendo applicabile l’art. 884 cod. civ. che consente al comproprietario del muro comune di appoggiarvi la costruzione di sua proprietà esclusiva[56].

È bene riportare anche alcune pronunce di merito.

Per la Corte Capitolina[57] la comproprietà del muro condominiale implica, in applicazione dell’art. 1102 c.c., la facoltà per ciascun condomino di procedere anche all’apertura di un varco di accesso in esso, al fine di consentire, evidentemente, un migliore utilizzo di tale cosa comune. Tale apertura, tuttavia, non può realizzare una diretta comunicazione con altro immobile attiguo di proprietà del medesimo condomino che ha proceduto ad effettuare l’apertura e ricompresso in un diverso e distinto edificio condominiale. Pretendere la legittimità di siffatto operato, invero, comporterebbe la creazione, a favore dell’immobile estraneo ed a carico del Condominio proprietario del muro un diritto reale di servitù di passaggio, inammissibilmente gravoso e pregiudizievole, non considerando che, comunque, sarebbe necessaria l’adesione di ogni singolo comproprietario.

Con altra sentenza di merito[58] il giudicante ha ritenuto, in particolare, condotta illegittima la realizzazione di una recinzione in muratura e di un accesso carraio in corrispondenza del confine tra la proprietà del comproprietario realizzatore e la corte comune che, secondo le emergenze processuali, aveva limitato e modificato il precedente utilizzo della medesima corte.

3)  Canna fumaria

Per la Corte del Palazzaccio[59] l’uso particolare o più intenso del bene comune ai sensi dell’art. 1102 cod. civ. — dal quale esula ogni utilizzazione che si risolva in un’imposizione di limitazioni o pesi sul bene comune — presuppone, perché non si configuri come illegittimo, che non ne risultino impedito l’altrui paritario uso né modificata la destinazione né arrecato pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza o al decoro architettonico dell’edificio. Ne consegue che l’inserimento di una canna fumaria all’interno del muro comune -costituente anche muro di delimitazione della proprietà individuale- ad esclusivo servizio del proprio immobile non può considerarsi utilizzazione in termini di mero «appoggio» della stessa al muro comune, secondo quello che, a determinate condizioni, può costituire uso consentito del bene comune ai sensi della norma in questione, stante il suo peculiare carattere di invasività della proprietà altrui (qual è anche quella non esclusiva bensì comune), anche sotto i meri profili delle immissioni di calore e della limitazione rispetto ad altre possibili e diverse utilizzazioni della cosa che ne derivano.

Anche se in precedenza con una sentenza[60] meno recente si affermava il contrario, ovvero l’inserimento di una canna fumaria entro un muro comune, da parte di un partecipante alla relativa comunione, rappresenta utilizzazione della cosa comune a norma dell’art. 1102 cod. civ.

Inoltre[61], l’appoggio di una canna fumaria (come, del resto, anche l’apertura di piccoli fori nella parete) al muro comune perimetrale di un edificio condominiale individua una modifica della cosa comune conforme alla destinazione della stessa, che ciascun condomino — pertanto — può apportare a sue cure e spese, sempre che non impedisca l’altrui paritario uso, non rechi pregiudizio alla stabilità ed alla sicurezza dell’edificio, e non ne alteri il decoro architettonico; fenomeno — quest’ultimo — che si verifica non già quando si mutano le originali linee architettoniche, ma quando la nuova opera si rifletta negativamente sull’insieme dell’armonico aspetto dello stabile.

Con altra sentenza la Corte[62] ha affermato che in tema di condominio, nel caso in cui un condomino utilizzi la canna fumaria dell’impianto centrale di riscaldamento – nella specie per lo scarico dei fumi da una pizzeria – dopo che questo sia stato disattivato dal condominio, sussiste violazione dell’articolo 1102 c.c., trattandosi non di uso frazionato della cosa comune, bensì della sua esclusiva appropriazione e definitiva sottrazione alle possibilità di godimento collettivo, nei termini funzionali praticati, per legittimare le quali è necessario il consenso negoziale (espresso in forma scritta “ad substantiam“) di tutti i condomini.

Con ultimo adagio, già richiamato in precedenza,

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 24 agosto 2015, n. 17072

l’apposizione della canna fumaria e della struttura di copertura della stessa immuta lo stato della cosa comune eccedendo i limiti segnati dalle concorrenti facoltà dei compossessori ex art. 1102 c.c., impedendo un analogo uso da parte di questi ultimi ed anzi sottraendo al loro uso, assicurato dal possesso, il relativo beneficio derivante dalla libertà da ingombri della porzione del bene comune.

4)  Tubi di scarico

L’utilizzazione del muro comune con l’inserimento di elementi ad esso estranei e posti a servizio esclusivo della porzione di uno dei comproprietari, deve avvenire nel rispetto delle regole dettate dall’art. 1102 c.c., e in particolare del divieto di alterare la destinazione della cosa comune, impedendo l’uso del diritto agli altri proprietari, e di quelle dettate in materia di distanze, allo scopo di non violare il diritto degli altri condomini esercitabile sulle porzioni immobiliari di loro proprietà esclusiva In applicazione di tale principio, la Corte[63] ha considerato corretta la valutazione di illegittimità, data dal giudice di merito, con riguardo all’inserimento – nel muro comune – di alcuni tubi di scarico, oltre la linea mediana, osservando che in tal modo veniva impedito al comproprietario di fare un uso del muro, nella metà di sua pertinenza, pari a quello fatto dall’altro proprietario.

5)  Strada vicinale

In merito la Corte di Piazza Cavuor[64], con un’unica pronuncia, ha avuto modo di stabilire che il comproprietario di una stradella comune, posta al servizio dei singoli fondi appartenenti in proprietà esclusiva a ciascun partecipante alla comunione, può legittimamente aprirvi l’accesso ad un locale costruito sul proprio suolo e destinato ad autorimessa, ai sensi dell’art. 1102 c.c., qualora non ne derivi un mutamento dell’originaria destinazione della stradella né un impedimento per gli altri condomini di farne pari uso.

6)  Cortili

In tema secondo la Cassazione[65] i balconi di un edificio condominiale prospicienti sul cortile comune appartengono in via esclusiva, assieme alla colonna d’aria, soprastante a ciascuno di essi, ai proprietari dei singoli appartamenti ai quali accedono, in qualità di pertinenza. Ne consegue che ciascun condomino ha il diritto di trasformare in veranda il balcone di sua proprietà senza dover richiedere l’autorizzazione degli altri compartecipi imposta dal regolamento del condominio soltanto per le innovazioni delle parti comuni dell’edificio.

Ancora, con altra pronuncia[66], quando un cortile sia comune a due edifici, ciascuno costituente un autonomo condominio, e manchi al suo riguardo una disciplina contrattuale vincolante per tutti i comproprietari dei due edifici, l’uso del cortile da parte di questi ultimi non è assoggettato sia al regolamento dell’uno che a quello dell’altro condominio, essendo, invece, applicabili le norme sulla comunione in generale, e, in particolare, l’art. 1102 cod. civ., in base al quale ciascun partecipante alla comunione può servirsi della cosa comune, sempre che non ne alteri la sua destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto.

7)  Pianerottolo

Per la S.C.[67] sempre però in tema di condominio negli edifici – poiché la casistica in ambito della comunione tout court è scarna –  i pianerottoli quali componenti essenziali delle scale comuni e così avendo funzionale destinazione al migliore godimento dell’immobile da parte di tutti i condomini, non possono essere trasformati, dal proprietario dell’appartamento che su di essi si affacci, in modo da impedire l’uso comune, mediante l’incorporazione nello appartamento, comportando una alterazione della destinazione della cosa comune ed una utilizzazione esclusiva di essa, lesiva del concorrente diritto degli altri condomini nonché — in sede possessoria — lesiva del compossesso degli stessi.

8)  Cancelli

Con un ultima sentenza in merito secondo la Cassazione[68], ciascun comproprietario ha diritto di trarre dal bene comune un’utilità maggiore e più intensa di quella tratta eventualmente in concreto dagli altri comproprietari, purché non ne venga alterata la destinazione o compromesso il diritto al pari uso, e senza che tale uso più intenso sconfini nell’esercizio di una vera e propria servitù. Pertanto, l’installazione, nel muro di confine comune, di un meccanismo fotocellulare per l’apertura automatica del cancello inserito nel muro, non sporgente all’interno del fondo prospiciente il lato opposto del muro stesso, non viola l’art. 1102 cod. civ., trattandosi di utilizzo più intenso della cosa comune, secondo la sua naturale destinazione (delimitazione perimetrale e protezione-isolamento dell’esterno delle proprietà), che ne consente il pari uso.

Con altra sentenza del 2003[69], è stato raffigurato un uso più ampio della cosa comune – ricompreso nelle facoltà attribuite ai condomini dall’art. 1102 primo comma, cod. civ. – l’apertura di un varco nella recinzione comune (con apposizione di un cancello) effettuata per mettere in comunicazione uno spazio condominiale con una strada aperta al passaggio pubblico, sia pedonale che meccanizzato.

In precedenza, la medesima Corte[70] ha avuto modo di affermare che in tema di uso della cosa comune, non può ritenersi consentita l’installazione, da parte di un condomino, per suo esclusivo vantaggio ed utilità, di un cancello in un certo punto di un viottolo comune, destinato fin dalla costituzione del condominio al passaggio dei condomini, per l’accesso, tra l’altro, a vani di proprietà esclusiva dei medesimi (nei quali sono sistemate e custodite, nella specie, le utenze domestiche di ciascuno di essi), in quanto detta installazione costituisce, anche in caso di messa a disposizione degli altri condomini delle chiavi del cancello, una modificazione delle modalità di uso e di godimento della cosa comune, che interferisce sul «pari uso» della stessa spettante agli altri condomini.

In tema è intervenuta da ultimo la S.C.

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 21 febbraio 2013 n. 4419

stabilendo che il comunista/condomino proprietario dell’immobile posto al piano superiore non può chiudere con una porta la scala di accesso al piano anche se è l’unico che deve accedervi. Il fatto che le parti di essa destinate a raggiungere i piani superiori non siano normalmente usate dai condomini dei piani inferiori non può assumere alcun significato per escludere la proprietà comune dell’intera unitaria struttura in capo a questi ultimi.  La presunzione dell’articolo 117 del codice civile può essere vinta solo dalla prova del titolo

9)  Condizionatore

La Corte[71] di Piazza Cavour in tema ha affermato che l’installazione da parte di alcuni condomini di un voluminoso condizionatore sul muro perimetrale comune non integra un’innovazione ai sensi dell’art. 1120 c.c., ma una modifica all’uso del muro comune, in quanto tale soggetta non solo alle limitazioni di cui all’art. 1102 primo comma, c.c., ma anche al divieto di alterare il decoro architettonico del fabbricato. Tale divieto infatti per quanto previsto in materia di innovazioni dall’art. 1120 secondo comma, c.c. si estende in via analogica anche alle modificazioni, essendo informato alla medesima ratio legis.

Sul punto è tornata la Cassazione

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 6 ottobre 2014, n. 20985

affermando che nella sentenza impugnata, premesso che il fabbricato aveva struttura e linee architettoniche residenziali ed era inserito in un ambito paesaggistico protetto, è stato condiviso l’affermazione del primo giudice secondo la quale era facilmente evincibile dalle fotografie prodotte la lesione al decoro architettonico dell’edificio derivante dalle dimensioni delle due apparecchiature (condizionatori) e dalla loro collocazione quasi “aggrappati” alla gronda del tetto, di cui rompevano la continuità.

La Corte capitolina ha così fatto corretta applicazione dell’art. 1120 c.c., tenuto conto che costituisce innovazione lesiva del decoro architettonico del fabbricato condominiale, come tale vietata, non solo quella che ne alteri le linee architettoniche, ma anche quella che comunque si rifletta negativamente sull’aspetto armonico di esso, a prescindere dal pregio estetico che possa avere l’edificio e che la relativa valutazione spetta al giudice di merito, ed è insindacabile in sede di legittimità ove non presenti vizi di motivazione (v. Cass., sent. n. 10350 del 2011).

Deve aggiungersi, si continua a leggere nella sentenza in commento, a ciò che i rapporti tra l’esecutore delle opere e la pubblica autorità investita della tutela urbanistica non possono interferire negativamente sulle posizioni soggettive attribuite agli altri condomini dall’art. 1120 c.c., comma 2, per la preservazione del decoro architettonico dell’edificio.

Ne consegue che, al fine di accertare la legittimità, ai sensi del citato art. 1120 c.c., comma 2, della innovazione eseguita dal proprietario di un piano o di una porzione di piano, in corrispondenza della sua proprietà esclusiva, è irrilevante che l’autorità preposta alla indicata tutela abbia autorizzato l’opera.

10)  Sottosuolo

Per la S.C.[72], l’uso particolare che il condomino faccia del cortile comune, interrando nel sottosuolo di esso un serbatoio per gasolio, destinato ad alimentare l’impianto termico del suo appartamento condominiale, è conforme alla destinazione normale del cortile, a condizione che si verifichi in concreto che, per le dimensioni del manufatto in rapporto a quelle del sottosuolo, o per altre eventuali ragioni di fatto, tale uso non alteri l’utilizzazione del cortile praticata dagli altri condomini, nè escluda per gli stessi la possibilità di fare del cortile medesimo analogo uso particolare.

Ancora[73], è violato il disposto dell’art. 1102 c.c., quando la costruzione nel sottosuolo del fabbricato condominiale di un vano destinato esclusivamente al soddisfacimento di esigenze personali e familiari di un condomino, impedisce agli altri condomini di fare del sottosuolo e del relativo sedime un pari uso, soprattutto in considerazione della vastità della superficie interessata e della destinazione del vano ad un uso esclusivo incompatibile con la natura condominiale del bene utilizzato.

11)  Trasformazione tetto

Nell’ipotesi in cui uno o più condomini trasformino una parte del tetto a falde di copertura dell’edificio condominiale in superfici destinate a loro uso esclusivo (non eliminando l’assolvimento della funzione originariamente svolta dal tetto stesso, ma imprimendo ai nuovi manufatti, per le loro caratteristiche strutturali, anche una destinazione ad uso esclusivo degli autori delle opere) non si configura un’innovazione ex art. 1120 c.c., né è invocabile la previsione dell’art. 1122 c.c. dettata per le opere attuate nel piano (o porzione di piano) di proprietà solitaria, riscontrandosi bensì una violazione del divieto posto dall’art. 1102 c.c. di alterare la destinazione della cosa comune e di impedire agli altri proprietari di farne parimenti uso secondo il loro diritto: il che presuppone la proposizione di specifica domanda avente propria causa petendi.

Ma in forza di una nuova lettura dell’articolo 1102 del c.c.

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza n. 14107 del 3 agosto 2012

tale orientamento è stato ripensato sotto più profili. Attraverso una rilettura delle applicazioni dell’articolo 1102 del codice civile che sia quanto più favorevole possibile allo sviluppo delle esigenze abitative, con uno sviluppo che mira soprattutto a moderare le istanze egoistiche che sono sovente alla base degli ostacoli frapposti a modifiche delle parti comuni.

Da qui il nuovo principio di diritto per cui il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune, può effettuare la trasformazione di una parte del tetto dell’edificio in terrazza ad uso esclusivo proprio, a condizione che sia salvaguardata, mediante opere adeguate, la funzione di copertura e protezione delle sottostanti strutture svolta dal tetto preesistente, restando così complessivamente mantenuta, per la non significativa portata delle modifica, la destinazione principale del bene.

12) Finestre e porte

Secondo il Tribunale Genovese[74] è infondata la domanda in forza della quale il condominio chieda dichiarare che le opere eseguite dal condomino, in assenza dell’autorizzazione dell’assemblea dei condomini, sono abusive e quindi, relativamente alle stesse, ordinarsi la demolizione e la rimessione in pristino, laddove, le opere eseguite, consistano nella trasformazione della finestra in una porta finestra nel muro perimetrale e nel posizionamento di una scala metallica che dalla porta finestra conduce al distacco di proprietà del condomino convenuto. Dette opere, costituendo un uso più intenso del muro perimetrale comune, devono intendersi legittimamente eseguite rientrando nei limiti dell’art. 1102 c.c. per cui, esse, anche laddove siano eseguite senza la specifica autorizzazione assembleare, non sono contestabili. In linea con il consolidato orientamento della giurisprudenza, difatti, è previsto che ciascun partecipante alla comunione ha diritto di trarre dal bene comune un’utilità maggiore e più intensa di quella tratta dagli altri comproprietari, purché non ne venga alterata la destinazione ovvero compromesso il diritto al pari uso degli altri condomini.

Con altra sentenza la S.C.[75] – in applicazione del principio secondo il quale negli edifici in condominio i proprietari esclusivi delle singole unità immobiliari possono utilizzare i muri comuni, nelle parti ad esse corrispondenti, sempre che l’esercizio di tale facoltà, disciplinata dagli artt. 1102 e 1122 c.c., non pregiudichi la stabilità ed il decoro architettonico del fabbricato – ha confermato la sentenza del giudice del merito che aveva giudicato legittima l’apertura di una porta eseguita da un condomino nel muro condominiale, dopo avere incensurabilmente accertato che da essa non era derivata alcuna sostanziale modifica dell’entità materiale del bene nè il mutamento di destinazione dell’androne comune, di cui il ricorrente poteva continuare a fare uso secondo il suo diritto; incontestata essendo ulteriormente rimasta l’insussistenza di alterazione del decoro architettonico del bene medesimo in conseguenza di detta apertura.

13)   Gazebo

In una vicenda affrontata dal tribunale Falsineo[76] è stato ravvisato un comportamento illecito di una condomina per aver occupato con un gazebo una porzione del marciapiede comune. Si legge nella sentenza che, in tema di condominio negli edifici, l’uso della cosa comune da parte di ciascun condomino è soggetto, ai sensi dell’art. 1102 c.c. al duplice divieto di alterarne la destinazione e di impedirne agli altri partecipanti di fare parimenti uso della cosa stessa secondo il loro diritto. Pertanto deve ritenersi che la condotta del condomino (della convenuta), consistente nella stabile occupazione – mediante il gazebo per cui è causa – di una porzione del marciapiede comune, configuri un abuso, poiché impedisce agli altri condomini (i.e. agli attori), di partecipare all’utilizzo dello spazio comune, ostacolandone il libero e pacifico godimento ed alterando l’equilibrio tra le concorrenti ed analoghe facoltà; non ignorando, per completezza, come la nozione di pari uso della cosa comune, cui la riferimento l’art. 1102 c.c. non vada intesa nel senso di uso identico e contemporaneo, dovendo ritenersi conferita dalla legge a ciascun partecipante alla comunione la facoltà di trarre dalla cosa comune la più intensa utilizzazione, a condizione che questa sia compatibile con i diritti degli altri, essendo i rapporti condominiali informati al principio di solidarietà il quale richiede un costante equilibrio traile esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione.

14)         Parcheggi

In un caso particolare la Suprema Corte[77], ha confermato la sentenza della corte di merito che, pur ritenendo valida, in assenza del regolamento di condominio, la deliberazione con la quale l’assemblea condominiale aveva introdotto e disposto il divieto di parcheggio di motocicli e ciclomotori nel cortile dell’edificio – divieto giustificato dalla circostanza che tale parcheggio rendeva assai difficoltoso l’uso del cortile da parte dei condomini – aveva tuttavia ritenuto infondata l’azione inibitoria e risarcitoria promossa dal Condominio stante il difetto di concreti elementi di prova tanto in ordine all’uso dei motocicli e ciclomotori in capo ai condomini convenuti, quanto in ordine al parcheggio di tali mezzi nell’area del cortile condominiale dopo l’adozione della delibera.

Innovazioni

[78]

In una rilevante sentenza della S.C.[79] si è stabilito che costituisce innovazione qualsiasi opera nuova che alteri, in tutto o in parte, nella materia o nella forma ovvero nella destinazione di fatto o di diritto, la cosa comune, eccedendo il limite della conservazione, dell’ordinaria amministrazione e del godimento della cosa, e che importi una modificazione materiale della forma o della sostanza della cosa medesima, con l’effetto di migliorarne o peggiorarne il godimento o, comunque, alterarne la destinazione originaria con conseguente implicita incidenza sull’interesse di tutti i condomini, i quali debbono essere liberi di valutare la convenienza dell’innovazione, anche se sia stata programmata a iniziativa di un solo condomino che se ne assuma tutte le spese. Non sono, invece, innovazioni tutti gli atti di maggiore e più intensa utilizzazione della cosa comune, che non importino alterazioni o modificazione della stessa e non precludano agli altri partecipanti la possibilità di utilizzare la cosa facendone lo stesso maggiore uso del condomino che abbia attuato la modifica. Lo stabilire se un’opera nuova integri gli estremi dell’innovazione prevista dall’art. 1120 cod. civ., oppure se gli atti e le opere dei singoli condomini costituiscano atti di maggior godimento della cosa comune, costituisce un’indagine di fatto insindacabile in cassazione, se sorretta da corretta e congrua motivazione.

Inoltre[80] il rispetto del principio generale di cui all’articolo 1102 e delle conseguenti regole, dettate dall’articolo 1120 del c.c., in tema di innovazioni di beni condominiali, nei casi in cui parti del bene comune siano di fatto destinate a uso e comodità esclusiva di singoli condomini, impone al giudice di merito un’indagine diretta all’accertamento di due condizioni e cioè che il bene, nelle parti residue, sia sufficiente a soddisfare anche le potenziali analoghe esigenze dei rimanenti partecipanti alla comunione e che lo stesso bene, qualora tutte tali esigenze venissero soddisfatte, non perderebbe la sua normale e originaria destinazione.

E’ stato specificato, con ultimo intervento della S.C.

Corte di Cassazione, sezione seconda civile, Ordinanza 16 maggio 2019, n. 13213.

configura mutamento di destinazione, rilevante ex art. 1102 c.c., nel senso di rendere illegittimo l’uso particolare di un comunista o condomino, la direzione della funzione della cosa comune – pur lasciata immutata nella sua natura (il passaggio, la presa di aria o luce, ecc.) – a vantaggio di beni esclusivi di un comunista o un condomino, rispetto ai quali i comproprietari non avevano inteso “destinare” il bene comune. (Nel caso di specie, la S.C. ha confermato la pronuncia della corte d’appello ritenendo che si fosse attenuta al principio di diritto nell’affermare che il passaggio su strada comune che venga effettuato da un comunista per accedere ad altro fondo a lui appartenente, non incluso tra quelli cui la collettività dei compartecipi aveva destinato la strada, configuri un godimento vietato, risolvendosi nella modifica della destinazione della strada comune e nell’esercizio di una illegittima servitù a danno del bene collettivo).

Deroga

In via di principio, come stabilito dalla stessa Corte di Cassazione[81], l’art. 1102 c.c. non pone una norma inderogabile i cui limiti non possano essere resi più severi da un predisposto regolamento condominiale (o dei comunisti), successivamente recepito nel contratto d’acquisto di beni compresi nel complesso condominiale.

Inoltre con una sentenza[82], alquanto più recente, è stato stabilito – a conferma della precedente statuizione –  che la norma dell’art. 1102 c.c., concernente la facoltà del condomino di apportare modifiche a sue spese per il migliore godimento della cosa comune, è derogabile per regolamento condominiale avente efficacia contrattuale, in quanto sottoscritto da tutti i condomini, ma tale deroga deve risultare in modo espresso, e non può ritenersi implicitamente disposta per la previsione nel regolamento dell’assoggettamento a delibera assembleare (a maggioranza qualificata) delle modificazioni alle cose comuni finalizzate al miglior godimento delle cose stesse, da parte della pluralità condominiale, dato che queste ultime comportano non solo l’incidenza della spesa su tutti i condomini, ma altresì la modifica in tutto o in, parte nella materia o nella forma, ovvero nella destinazione di fatto o di diritto della cosa comune, a differenza delle modificazioni apportabili dal singolo condomino, che non possono incidere che sul pari uso (anche potenziale) degli altri condomini.

Tutela

[83]

In linea generale in tema di tutela del diritto di comproprieta’, vige il principio della concorrenza di pari poteri gestori in capo a tutti i comproprietari, per cui ciascuno di essi e’ legittimato ad agire contro chi vanti  diritti di godimento sul bene, attesa la comunanza d’interessi tra tutti i contitolari del bene medesimo, tale da lasciar presumere il consenso di ciascuno all’iniziativa giudiziaria volta alla tutela degli interessi comuni, salvo che si deduca e si dimostri, a superamento di tale presunzione, il dissenso della maggioranza degli altri comproprietari.

Principio ripreso anche da ultimo adagio della Cassazione

Corte di Cassazione, sezione II civile, sentenza 14 novembre 2016, n. 23127

La medesima sentenza, poi. ha avuto modo di precisare anche che quando la domanda di rivendica di un bene e’ proposta da uno o piu’ soggetti, che assumono di essere i comproprietari, la necessita’ di integrare il contraddittorio nei confronti dei litisconsorti pretermessi deve essere valutata non secundum eventum litis, ma al momento in cui essa sorge, con la conseguenza che dipende dal comportamento del convenuto. Ed, infatti, se il convenuto si limiti a negare il diritto di comproprieta’ degli attori, non si richiede la citazione in giudizio di altri soggetti, non essendo in discussione la comunione del bene, mentre nel caso in cui eccepisca di essere il suo proprietario esclusivo, la controversia ha come oggetto la comunione di esso, cioe’ l’esistenza del rapporto unico plurisoggettivo, e il contraddittorio deve svolgersi nei confronti di tutti coloro dei quali si prospetta la contitolarita’ (litisconsorzio necessario), affinche’ la sentenza possa conseguire un risultato utile, che, invece, non avrebbe in caso di mancata partecipazione al giudizio di alcuni, non essendo essa a loro opponibile.

Secondo la S.C. – con una nota sentenza[84] – in senso universale, in applicazione dell’art. 1102 c.c., qualora il partecipante alla comunione, con l’esecuzione di nuove opere, renda impossibile o menomi l’esercizio del diritto degli altri partecipanti, frapponendovi un qualche ostacolo, che si traduca in un pregiudizio giuridicamente rilevante ed apprezzabile, ciascuno degli altri condomini può chiedere la rimozione dell’opera che altera e sconvolge il rapporto di equilibrio della comunione.

Mentre da un’altra sentenza[85] della Corte del Palazzaccio, in ambito condominiale, si evince che la modificazione di una parte comune e della sua destinazione, ad opera di taluno dei condomini, sottraendo la cosa alla sua specifica funzione e quindi al compossesso di tutti i condomini, legittima gli altri all’esperimento dell’azione di reintegrazione con riduzione della cosa stessa al pristino stato, tal che possa continuare a fornire quella utilitas alla quale era asservita anteriormente alla contestata modificazione, senza che sia necessaria specifica prova del possesso di detta parte.

Inoltre è possibile esperire anche le normali azioni possessorie.

Difatti, secondo la S.C.[86], costituisce turbativa del possesso, tutelabile con l’azione di manutenzione, il comportamento del compossessore che ponga in essere una innovazione nella cosa comune comportante una modificazione delle concrete modalità di godimento della cosa stessa dalla quale derivi ad altro compossessore una apprezzabile limitazione delle sue facoltà di godimento della cosa. Nel caso di specie, un compossessore aveva variato il congegno di apertura elettronica del cancello comune senza consegnare il nuovo telecomando ad uno dei compossessori, che era stato costretto per un lasso di tempo apprezzabile ad utilizzare l’apertura meccanica.

Ancora con altra sentenza si legge in una situazione di compossesso il godimento del bene da parte dei singoli compossessori assurge ad oggetto di tutela possessoria quando uno di essi abbia alterato e violato senza il consenso e in pregiudizio degli altri partecipanti lo stato di fatto o la destinazione della cosa oggetto del comune possesso, in modo da impedire o restringere il godimento spettante a ciascun compossessore sulla cosa medesima, o che in modo apprezzabile ne modifichi o turbi le modalità di esercizio. Nella specie, la S.C.[87], in forza del sopraenunciato principio, ha accolto il ricorso e cassato con rinvio la sentenza del giudice d’appello che aveva escluso che l’apposizione, da parte di alcuni dei comproprietari, di una lapide sulla facciata esterna di una cappella funeraria in aggiunta a quella preesistente e convenzionalmente accettata da tutti i compossessori potesse costituire turbativa o molestia del compossesso del bene comune in danno degli altri comproprietari del bene.

Infine, secondo ultima Cassazione,

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 4 agosto 2015, n. 16369

nel godimento della cosa comune e’ configurabile una posizione possessoria tutelabile con le azioni di reintegrazione e di manutenzione contro l’attivita’ del compossessore comproprietario che sopprima il godimento medesimo, ovvero ne turbi o ne renda piu’ gravose le modalita’ di esercizio. Piu’ precisamente, in una situazione di compossesso, il godimento del bene da parte dei singoli possessori assurge ad oggetto di tutela possessoria, quando uno di essi abbia alterato o violato, in pregiudizio degli altri partecipanti, lo stato di fatto o la destinazione della cosa oggetto del comune possesso, in modo da impedire o restringere il godimento spettante a ciascun compossessore sulla cosa medesima. Le concrete modalita’ di godimento della cosa comune – desumibili dagli articoli 1102, 1120, 1139 e 1121 c.c. – assurgono a possibile contenuto di una posizione possessoria tutelabile contro tutte le attivita’ con le quali uno dei compossessori comproprietari introduca unilateralmente una modificazione che sopprima o turbi il compossesso degli altri. Del pari, la violazione dei limiti alle modalita’ di esercizio del compossesso puo’ concretare una molestia possessoria tutelabile con l’azione di manutenzione contro l’attivita’ del compossessore che turbi o modifichi le dette i modalita’ di esercizio

F) Poteri ed obblighi dei contitolari

art. 1103 c.c.       disposizione della quota:  ciascun partecipante può disporre del suo diritto e cedere ad altri il godimento della cosa nei limiti della sua quota.

Per le ipoteche costituite da uno dei partecipanti, si osservano le disposizioni contenute nel capo IV del Titolo III del libro VI (artt. 2808, 2825.c.c.).

(2825 c.c.). Ipoteca su beni indivisi.

L’ipoteca (c.c. 2808) costituita sulla propria quota da uno dei partecipanti alla comunione produce effetto rispetto a quei beni o a quella porzione di beni che a lui verranno assegnati nella divisione.

Se nella divisione sono assegnati a un partecipante beni diversi da quello da lui ipotecato, l’ipoteca si trasferisce su questi altri beni, col grado derivante dall’originaria iscrizione e nei limiti del valore del bene in precedenza ipotecato, quale risulta dalla divisione, purché l’ipoteca sia nuovamente iscritta con l’indicazione di detto valore entro novanta giorni dalla trascrizione della divisione medesima .

Il trasferimento però non pregiudica le ipoteche iscritte contro tutti i partecipanti, né l’ipoteca legale spettante ai condividenti per i conguagli .

I creditori ipotecari e i cessionari di un partecipante, al quale siano stati assegnati beni diversi da quelli ipotecati o ceduti, possono far valere le loro ragioni anche sulle somme a lui dovute per conguagli o, qualora sia stata attribuita una somma di danaro in luogo di beni in natura, possono far valere le loro ragioni su tale somma, con prelazione determinata dalla data di iscrizione o di trascrizione dei titoli rispettivi, nel limite però del valore dei beni precedentemente ipotecati o ceduti.

I debitori delle somme sono tuttavia liberati quando le abbiano pagate al condividente dopo trenta giorni da che la divisione è stata notificata ai creditori ipotecari o ai cessionari senza che da costoro sia stata fatta opposizione.

      La disponibilità della quota della comunione va in ogni caso evidenziata, poiché rappresenta una delle principali caratteristiche della comunione di tipo romano, in contrapposizione con quella di tipo germanico, dove l’assenza di quote comporta l’indisponibilità del bene da parte del singolo partecipante.

      È comunque possibile sancire l’obbligo di non alienare le quote dal titolo di acquisto delle quote oppure mediante un accordo contrattuale tra i partecipanti, nell’ambito dei limiti stabiliti dal codice (art. 1379 c.c.).

      Ciascun compartecipe può, inoltre ipotecare la propria quota o gravarla di diritti reali di godimento; non può, invece alienare le quote degli altri partecipanti né, tantomeno, l’intera proprietà del bene comune.

      Per la giurisprudenza[88], infatti, concorrendo sui beni oggetto di comunione pari poteri gestori da parte di tutti i comproprietari, in virtù della presunzione, relativa, che ognuno di essi operi con il consenso degli altri, con la conseguenza che il singolo comunista può stipulare contratti aventi ad oggetto il godimento del bene comune.

La vendita

      La vendita dell’intera proprietà da parte di un singolo contitolare è stata considerata da un’autorevole opinione[89] quale vendita di cosa parzialmente altrui.

      E’ noto che, in tema di condominio, il singolo partecipante non può alienare separatamente la propria quota di comproprietà dei beni comuni, senza alienare la propria proprietà individuale a cui tali beni sono asserviti; se il bene comune ha determinate caratteristiche ed e’ suscettibile di godimento individuale, esso può essere alienato, ma solo per effetto della volontà di tutti i condomini[90]. La sottrazione del bene alla sua destinazione comune che consegue alla sua cessione comporta, infatti, una rinuncia che richiede il consenso unanime dei condomini.

      Nel caso di comunione ordinaria, vige, invece, la regola della libera disponibilità della quota, in forza della quale ciascun partecipante alla comunione può cedere ad altri il suo diritto di comproprietà (articolo 1103 c.c.).

      In materia di proprietà, secondo la S.C.[91], il principio generale che regola il regime giuridico della comunione “pro indiviso” è quello della libera disponibilità della quota ideale, sicché è ben possibile che ciascun comunista autonomamente venda o prometta di vendere la sua quota, valido essendo il contratto anche nell’ipotesi in cui il bene sia dalle parti considerato un “unicum” inscindibile, risultando in tal caso l’alienazione meramente inopponibile al comproprietario che non ha preso parte alla stipula dell’atto.

      Si e’ affermato[92], in particolare, che se la vendita di un bene e’ stipulata soltanto da uno o più ma non da tutti i comproprietari, il difetto del negozio, ravvisabile nella non coincidenza tra il bene ceduto ed il diritto che il cedente può trasferire, non e’ tale da determinare la nullità del contratto, ma solo un’inefficacia relativa. Tale divergenza, infatti, non può essere eccepita dalla parte alienante, che ovviamente e’ a conoscenza del fatto di poter trasferire solo la propria quota e non l’intera res ampia, ma soltanto dall’acquirente, che e’ il solo titolare dell’interesse a che la cosa indivisa sia venduta per intero e che può pertanto optare anche per la scelta di riconoscere validità ed efficacia al contratto limitatamente al trasferimento delle quote di comproprietà degli alienanti. Il contratto e’ così suscettibile di rettifica, su richiesta dell’acquirente, nel senso che esso spiega efficacia solo limitatamente alle quota del cedente. Si aggiunge, peraltro, che tale conclusione può trovare un unico sbarramento nella diversa volontà manifestata dai contraenti, nei casi in cui dal contratto risulti che essi hanno voluto vendere la cosa per intero e quindi escludere una cessione parziale.

      Inoltre è bene anche sottolineare che l’alienazione che il comproprietario faccia del suo diritto, ai sensi dell’art. 1103 c.c., determina l’ingresso dell’acquirente nella comunione soltanto nel caso in cui l’alienazione riguardi la quota o una frazione di questa, mentre se il comproprietario disponga di un singolo bene, avendo l’alienazione efficacia obbligatoria, della comunione continua a far parte il disponente, che, pertanto, resta titolare dell’azione di cui all’art. 1111 c.c. e deve essere chiamato ad integrare il contraddittorio nel relativo giudizio da altri promosso[93].

Preliminare

Orbene in caso di comproprietà, la parte è plurisoggettiva, tutti i contraenti dovrebbero sottoscrivere il preliminare. In difetto il contratto non si è concluso, laddove soltanto alcuni di essi l’hanno sottoscritto, e la sentenza costitutiva può essere ottenuta.

Diverso è il caso in cui uno solo dei comproprietari concluda il preliminare di vendita dell’intero bene e a tal proposito occorre distinguere alcune ipotesi.

A)   Il comproprietario prometta di vendere la propria quota e, contestualmente prometta il fatto di terzo; prometta, cioè che anche gli altri comproprietari sottoscrivano il definitivo di vendita. In caso d’inadempimento, il promissorio acquirente potrà agire ex art. 2932  per il trasferimento della quota (del comproprietario promissorio) promessa in vendita ed ex art. 1381 per la liquidazione dell’indennità.
B)    È possibile però, che uno solo dei  comproprietari prometta di vendere l’intero bene, ossia una cosa parzialmente altrui.
a)     la giurisprudenza in un primo momento ha ritenuto che ricorresse un’ipotesi di inefficacia relativa del preliminare, nel senso che soltanto il promissario acquirente avrebbe potuta farla valere, a meno che non avesse preferito richiedere il trasferimento della sola quota del comproprietario promettente venditore (salvo che l’efficacia del contratto non era sospensivamente condizionata al consenso degli altri comproprietari).
b)     Successivamente però la giurisprudenza ha mutato opinione (invalidità o inesistenza), negando la possibilità di trasferire una sola quota, con proporzionale riduzione del prezzo, quando fosse promesso in vendita l’intero bene da parte di un solo comproprietario – in base al principio della necessaria corrispondenza della sentenza al contenuto del preliminare
Attraverso un’indagine interpretativa bisogna capire se la volontà (quella di vendere soltanto una quota dell’intero bene – e soltanto in questa evenienza sarà possibile emanare la sentenza costitutiva  che trasferisca la sola  quota del promittente) di scomposizione manchi, il preliminare concluso da un solo comproprietario e relativo all’intero bene, considerato come un unicum scindibile, non sarà vincolante né – come è ovvio – per i comproprietari che non hanno stipulato il preliminare, né per il comproprietario promettente venditore, in quanto non è nato nessun contratto e, pertanto l’accordo non è vincolante per nessuno. Consegue da ciò che nessuna sentenza costitutiva sarà possibile, neanche limitatamente alla quota del comproprietario.

Nel caso di preliminare di vendita di un bene immobile, concluso da uno solo dei comproprietari “pro indiviso“, secondo la Corte di Piazza Cavour[94] si deve escludere la facoltà del promissario acquirente di richiedere ex art. 2932 c.c. il trasferimento coattivo, limitatamente alla quota appartenente allo stipulante, non essendo consentito, in via giudiziale, costituire un rapporto giuridico diverso da quello voluto dalle parti con il preliminare, in quanto l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere un contratto è ammessa, ex art. 2932 primo comma, c.c. solo qualora sia possibile.

Inoltre in senso più ampio, è stato affermato[95] che nel caso di contratto preliminare di vendita di un bene oggetto di comproprietà indivisa, si presume, salvo che risulti il contrario, che le parti lo abbiano considerato come un “unicum” inscindibile, e che le singole manifestazioni di volontà provenienti da ciascuno dei contraenti siano prive di specifica autonomia e destinate a fondersi in un’unica dichiarazione negoziale, in quanto i promittenti venditori si pongono congiuntamente come un’unica parte contrattuale complessa. Ne consegue che, qualora una di dette manifestazioni manchi o risulti viziata da invalidità originaria, o venga caducata per qualsiasi causa sopravvenuta, si determina una situazione che impedisce non soltanto la prestazione del consenso negoziale della parte complessa, ma anche la possibilità che quella prestazione possa essere sostituita dalla pronuncia giudiziale ai sensi dell’art. 2932 c.c., restando escluso che il promissario acquirente possa conseguire la sentenza ai sensi di detta norma nei confronti di quello tra i comproprietari promittenti dei quali esista e persista l’efficacia della relativa manifestazione negoziale.

Secondo ultimissima sentenza di Cassazione

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza n. 5207 dell’1/3/2011

nel caso di preliminare di vendita di un bene oggetto di comproprietà indivisa si deve ritenere che i promittenti venditori si pongano congiuntamente come un’unica parte contrattuale complessa e che, dunque, le singole manifestazioni di volontà provenienti da ciascuno di essi siano prive di una specifica autonomia e destinate, invece, a fondersi in un’unica manifestazione negoziale, dovendosi presumere che il bene sia stato considerato dalle parti come un “unicum” giuridico inscindibile, e ciò in difetto di elementi desunti dal tenore del contratto, idonei a far ritenere che con esso siano state assunte – anche contestualmente – dai comproprietari promittenti distinti autonome obbligazioni aventi ad oggetto il trasferimento delle rispettive quote di comproprietà, inesistenti nella specie.

Da ciò consegue che, qualora una di dette manifestazioni manchi o risulti viziata da invalidità originaria ovvero venga caducata per una qualsiasi causa sopravvenuta, si determina una situazione che impedisce non soltanto la prestazione del consenso negoziale della parte complessa alla stipulazione del contratto definitivo, ma anche la possibilità che quella prestazione possa essere sostituita dalla pronuncia giudiziale ex art. 2932 c.c., restando, pertanto, escluso che il promissario acquirente possa conseguire la sentenza ai sensi di detta norma nei confronti di quelli tra i comproprietari promettenti dei quali esista o persista l’efficacia della relativa manifestazione negoziale preliminare.

In caso di comunione legale tra i coniugi,

1 Secondo la prevalente giurisprudenza ed una parte della dottrina (Caravaglios – Gazzoni), un simili preliminare è annullabile sulla base del combinato disposto degli artt. 180, co2 e 184 co1. (Gli atti compiuti da un coniuge senza il necessario consenso dell’altro coniuge e da questo non convalidati sono annullabili se riguardano beni immobili o beni mobili elencati nell’art. 2683) si afferma, infatti, che devono essere considerati atti di straordinaria amministrazione non solo gli atti di disposizione o di alienazione, ma anche gni altro atto che possa incidere, direttamente o indirettamente, sul patrimonio dei coniugi in comunione legale; pertanto anche la promessa di vendita, suscettibile di esecuzione in forma specifica ex art. 2932, si configura come un atto di straordinaria amministrazione, annullabile, qualora sia stata compiuta da un coniuge senza il consenso dell’altro coniuge.
2)     Secondo altra parte della dottrina,(Regine) sono sbagliati i presupposti teorici della precedente teoria, in quanto l’annullabilità del preliminare  ex art. 184 (atti compiuti senza il necessario consenso) muove dall’assunto secondo cui esso sarebbe senz’altro suscettibile di esecuzione in forma specifica.  In realtà non si è tenuto conto del fatto che il ricorso al rimedio di cui all’art. 2932 presuppone il sussistere dei requisiti di legittimazione sostanziale delle parti.

3)  Secondo la Corte di Cassazione

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 24 luglio 2012, n. 12923

Per l’esecuzione in forma specifica di un preliminare di vendita immobiliare non è necessaria la sottoscrizione di entrambi i coniugi in comunione legale, ma è sufficiente il consenso dell’altro coniuge e la mancanza del suo consenso si traduce in un vizio da far valere ai sensi dell’art. 184 c.c. (nel rispetto del principio generale di buona fede e dell’affidamento) nel termine di un anno decorrente dalla conoscenza dell’atto o dalla data di trascrizione.

In particolare, come ha avuto occasione di chiarire la Corte a S.U. (Cass. S.U. 24/8/2007 n. 17952 cit.) il consenso del coniuge pretermesso non è atto autorizzativo nel senso di atto attributivo di un potere, ma piuttosto nel senso di atto che rimuove un limite all’esercizio di un potere e requisito di regolarità del procedimento di formazione dell’atto di disposizione, la cui mancanza, ove si tratti di bene immobile o mobile registrato, si traduce in un vizio del negozio: l’ipotesi regolata dall’art. 184 c.c., comma 1, dunque, si riferisce non ad un caso d’acquisto inefficace perché a non domino, bensì ad un caso d’acquisto a domino in base ad un titolo viziato.

Ne discende che la mera mancanza di sottoscrizione del contratto da parte del coniuge non era sufficiente per la declaratoria di nullità del contratto, dovendosi esaminare il profilo del consenso e della rilevanza della conoscenza dell’atto.

L’art. 184 c.c., infatti, per l’esigenza di tutelare la rapidità e la certezza della circolazione dei beni in regime di comunione legale, disciplina il conflitto tra il terzo ed il coniuge pretermesso in modo più favorevole (rispetto alla comunione ordinaria) al primo, con il regime degli effetti tendente alla conservazione del negozio; di conseguenza il contratto, in assenza del consenso del coniuge pretermesso non è inefficace né nei confronti dei terzi, né nei confronti della comunione, ma è solo soggetto alla disciplina dell’art. 184 primo comma c.c. ed è solamente esposto all’azione di annullamento da parte del coniuge non consenziente, nel breve termine prescrizionale entro cui è ristretto l’esercizio di tale azione, decorrente dalla conoscenza effettiva dell’atto, ovvero, in via sussidiaria, dalla trascrizione o dallo scioglimento della comunione (Cass. 21/12/2001 n. 16177; Cass. 11/6/2010 n. 14093; Cass. 31/1/2012 n. 1385).

Tale possibilita (il presupposto), tuttavia, nel nostro caso, va esclusa, in quanto il coniuge promittente venditore non è pieno titolare del diritto promesso in vendita e, pertanto, è esclusa la possibilita di ottenere la sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c. dunque un simile contratto preliminare, pur essendo valido, risulta inidoneo ad incidere, in quanto tale, sulla consistenza patrimoniale della comunione legale e, di conseguenza, si presenta come del tutto irrilevante per il coniuge del promittente alienate. L’unico rimedio di cui potrà avvalersi il promissario acquirente, di consegeuenza, è quello del risarcimento dei danni.
Nonostante si propenda per la soluzione positiva, in considerazione dell’orientamento giurisprudenziale contrario e per motivi prudenziali, si consiglia, nel caso in cui un coniuge vogli stipulare un preliminare di vendita di un bene che cade in comunione, la stipulazione non di un preliminare, bensì di una promessa del fatto del terzo (art. 1381).

Locazione

Per quanto riguarda, invece, la locazione secondo la Cassazione[96], qualora la maggioranza dei comunisti – appresa l’intenzione della minoranza o di uno di essi di cedere in locazione (o in affitto agrario) ad un terzo la cosa comune, ovvero l’avvenuta stipulazione del contratto – si opponga, rispettivamente, alla conclusione del contratto o all’esecuzione del rapporto locativo, al terzo, cui venga comunicato tale dissenso, resta preclusa la possibilità di pretendere quella conclusione o esecuzione, con la conseguenza che il contratto, stipulato nonostante tale consapevolezza, é invalido per carenza di potere, o di valida volontà, della parte concedente di disporre per l’intero. Inoltre, la comunicazione del detto dissenso non solo alla minoranza, ma anche al terzo conduttore (o affittuario), determina la consapevolezza, in quest’ultimo, della mancanza di legittimazione alla stipula dell’atto da parte della minoranza e, quindi, il concorso, in malafede, nell’abuso del diritto nell’amministrazione del bene comune e ciò costituisce fatto illecito generatore del danno di cui é, pertanto, corresponsabile in solido il conduttore (o affittuario) che ha concorso e cooperato nella conclusione del contratto.

Sempre in merito alla locazione in tema di recesso dal contratto concernente un immobile oggetto di comunione – per la Corte di Piazza Cavour[97] – il principio della concorrenza di pari poteri gestori in tutti i comproprietari comporta che ciascuno di essi sia legittimato a dare disdetta del contratto e ad agire conseguentemente, nei confronti del conduttore, per il rilascio dell’immobile in recesso contro il conduttore, senza che sia configurabile una ipotesi di litisconsorzio necessario con gli altri comproprietari.

È bene anche sottolineare, in virtù anche di una pronuncia di merito[98], che in ipotesi di contratto di affitto di fondo rustico, nel quale si verifichi la contemporanea condizione di comproprietario e locatario della cosa comune o di parte di essa[99], è efficace e valida la disdetta che provenga soltanto da alcuni dei comproprietari del bene[100].

Da ultimo la Corte di Cassazione[101], ha anche confermato il principio più volte stabilito dalla medesima Corte secondo cui in base all’art 1105 cod. civ.  che regola esclusivamente il potere di amministrazione della cosa comune nella sua interezza, non  è preclusa la locazione di quota ideale di bene comune, che è consentita dalla disposizione di cui all’art. 1103 del cod. civ., in forza del quale gli atti dispositivi della quota medesima e la amministrazione di essa riguardano il singolo titolare, potendo inoltre il conduttore cui sia stato concesso il godimento della cosa comune nei limiti di una quota detenere il bene insieme agli altri condomini possessori. Pertanto, contro il conduttore che abbia assunto in locazione da uno dei comproprietari una quota ideale (nella specie del 50 per cento), trovandosi già conduttore, in forza di precedente diverso contratto di locazione stipulato con altro comproprietario, della quota pari al residuo 50 per cento del bene, può essere intrapresa dal locatore della seconda quota un’azione nascente dal contratto di locazione, senza necessità di richiedere e ottenere il consenso del comproprietario primo locatore.

In merito, per gli Ermellini[102] il principio stabilito dall’art. 1591 cod. civ., relativo all’obbligo del conduttore in mora nella restituzione del bene locato di dare al locatore il corrispettivo pattuito fino alla riconsegna effettiva di esso, salvo il risarcimento del maggior danno, deve trovare applicazione anche con riferimento al caso in cui il conduttore rivesta contestualmente anche la qualità di comproprietario del bene stesso, trovando giustificazione tale estensione nell’obbligo di reintegrare gli altri comproprietari nella facoltà di disporre della loro quota e di far uso della cosa comune secondo il loro diritto, alla stregua di quanto disposto espressamente dagli artt. 1102 e 1103 cod. civ.

Ultimissima pronuncia della Sezioni Unite,

Corte di Cassazione, sezione unite, sentenza 4 luglio 2012 n. 11135

riguardo alla riscossione dei canoni ha stabilito il seguente principio:

la locazione della cosa comune da parte di uno dei comproprietari rientra nell’ambito di applicazione della gestione di affari ed è soggetta alle regole di tale istituto, tra le quali quella di cui all’articolo 2032 del codice civile, sicché, nel caso di gestione non rappresentativa, il comproprietario non locatore potrà ratificare l’operato del gestore e, ai sensi dell’articolo 1705, secondo comma, codice civile, applicabile per effetto del richiamo al mandato contenuto nel citato articolo 2032 codice civile, esigere dal conduttore, nel contraddittorio con il comproprietario locatore, la quota dei canoni corrispondenti alla quota di proprietà indivisa.

La ratifica da parte dell’altro comproprietario determina, dal suo manifestarsi, gli effetti che sarebbero derivati da un mandato e tra gli effetti del mandato vi è proprio quello di cui all’articolo 1705, secondo comma, cc, che abilita il comproprietario non locatore a richiedere, per il tempo successivo alla ratifica, il pagamento pro quota del canone al conduttore.

La ratifica può essere espressa dalla domanda, che come nel caso affrontato, il comproprietario non locatore rivolga al conduttore, nel contraddittorio con il comproprietario locatore, di vedersi attribuito il 50% dei canoni per il periodo successivo alla ratifica.

Mentre non potrà  svolgere altre azioni derivanti dal contratto, essendo la facoltà del mandatario di sostituirsi al mandante limitata dall’articolo 1705, secondo comma, cc, ai crediti derivante dal contratto stipulato dal mandatario.

Accessione

In caso di perimento e ricostruzione [1]

Nella ipotesi di perimento totale di un edificio in condominio, il condominio viene meno e permane soltanto la comunione sul suolo con la conseguenza che nel caso in cui il fabbricato venga ricostruito come era in precedenza, si ripristina il condominio, mentre ove venga ricostruito in maniera diversa ad iniziativa di alcuni soltanto dei condomini, il condominio stesso non rinasce e quanto edificato costituisce invece un’opera realizzata su suolo comune, come tale soggetta alla disciplina della accessione e quindi da attribuire secondo le quote originarie ai comproprietari del suolo (a meno che non se ne chieda, ai sensi dell’art. 2933 cod. civ., la demolizione).

In caso di costruzione sul suolo comune

L’esercizio autonomo del diritto di costruire sul suolo comune pro indiviso, consentito ai singoli comproprietari, non vale ad impedire l’accessione e ad evitare che il fabbricato ricada nella comunione di cui è oggetto il suolo, se non sia preceduto da un negozio stipulato per iscritto[2].

Inoltre[3], la disciplina dell’accessione contenuta nell’art. 934 cod. civ. si riferisce solo alle costruzioni (o piantagioni) su terreno altrui e non anche alle costruzioni eseguite da uno dei comproprietari sul terreno comune, per le quali debbono ritenersi, invece, applicabili le norme sul condominio ed in particolare, la disposizione dell’art. 1120 cod. civ., che vieta, tra l’altro, le innovazioni che rendano alcune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso o al godimento di altri condomini, a meno che non vi sia il consenso di questi, nella forma scritta richiesta, a pena di nullità, per la costituzione di diritti reali su beni immobili.

Per altro pronuncia[4] alle costruzioni eseguite da uno dei comproprietari su terreno comune non si applica la disciplina sull’accessione contenuta nell’art. 934 cod. civ., che si riferisce solo alle costruzioni su terreno altrui, ma quella in materia di comunione, con la conseguenza che la comproprietà della nuova opera sorge a favore dei condomini non costruttori solo se essa sia stata realizzata in conformità di detta disciplina, cioè con il rispetto delle norme sui limiti del comproprietario all’uso delle cose comuni, cosicché le opere abusivamente create non possono considerarsi beni condominiali per accessione.

È stato anche specificato[5], infine, che nel caso in cui più soggetti, proprietari in via esclusiva di aree tra loro confinanti, si accordino per realizzare una costruzione, per il principio dell’accessione, ciascuno di essi, salvo convenzione contraria, acquista la proprietà esclusiva della parte di edificio che insiste in proiezione verticale sul proprio fondo, con la conseguenza che anche le opere e strutture inscindibilmente poste a servizio dell’intero fabbricato (quali scale, androne, impianto di riscaldamento, ecc.) rientrano per accessione, in tutto o in parte, a seconda della loro collocazione, nella proprietà esclusiva dell’uno o dell’altro, salvo l’istaurarsi sulle medesime, in quanto funzionalmente inscindibili, di una comunione incidentale di uso e di godimento, comportante l’obbligo dei singoli proprietari di contribuire alle relative spese di manutenzione e di esercizio in proporzione dei rispettivi diritti dominicali


[1] — Cass. 3-10-91, n. 10314

[2]  Con cui tutti i comproprietari procedano alla determinazione reciproca di tale diritto col preciso riferimento alla porzione del costruendo edificio, destinato a diventare, immediatamente con la costruzione, di rispettiva proprietà esclusiva e, nelle zone in cui vige il sistema dei libri fondiari di cui al r.d. 28 marzo 1929 n. 499, assoggettato alla necessaria iscrizione tavolare. In mancanza di ciò, l’intavolazione della proprietà esclusiva dei singoli appartamenti già costruiti, a favore rispettivamente, di ciascuno degli originari comproprietari del suolo, realizza una divisione, soggetta, secondo il r.d. 30 dicembre 1923 n. 3269 all’imposta graduale di registro. — Cass. 6-3-74, n. 601

[3] — Cass. 18-4-96, n. 3675

[4] — Cass. 22-3-2001, n. 4120

[5] — Cass. III, sent. 5112 del 9-3-2006

 

Usucapione della quota

Il partecipante alla comunione può usucapire l’altrui quota indivisa del bene comune anche attraverso la semplice estensione del possesso medesimo in termini di esclusività[103]; tuttavia, in simile evenienza, affinché il possesso possa essere ritenuto utile ad usucapire l’intero bene in comune, è indispensabile che esso si manifesti attraverso un’attività apertamente contrastante ed inoppugnabilmente incompatibile con il possesso altrui – ossia il cui compimento da parte di uno dei comproprietari realizzi l’impossibilità assoluta per gli altri partecipanti di proseguire un rapporto materiale con il bene -, tale da evidenziare una inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus e, quindi, da escludere che il godimento esclusivo sia stato semplicemente tollerato dagli altri comproprietari.

Principio già espresso dalla Corte Suprema[104] in una nota sentenza secondo la quale il comproprietario può usucapire la quota degli altri comproprietari estendendo la propria signoria di fatto sulla “res communis” in termini di esclusività, ma a tal fine non è sufficiente che gli altri partecipanti si siano limitati ad astenersi dall’uso della cosa, occorrendo, per converso, che il comproprietario in usucapione ne abbia goduto in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui, in modo tale, cioè, da evidenziarne una inequivoca volontà di possedere “uti dominus” e non più “uti condominus

Difatti con ultima sentenza la Cassazione[105] ha insistito sul presupposto secondo cui il possesso “et corpore et animo”, esercitato dal comproprietario, non è sufficiente a perfezionare l’usucapione delle quote appartenenti agli altri comproprietari, ove non venga dimostrata l’intenzione, manifestata agli altri coeredi, di possedere “uti dominus” e non “uti condominus’’.

Mentre sempre per la medesima Corte, con una recente pronuncia[106], anche il compossesso non esclusivo è idoneo per l’usucapione.

Per gli ermellini, infatti, su di un immobile di proprietà esclusiva di un soggetto può ben crearsi una situazione di compossesso pro indiviso tra lo stesso soggetto proprietario ed un terzo, con il conseguente possibile acquisto, da parte di quest’ultimo, della comproprietà pro indiviso dello stesso bene, una volta trascorso il tempo per l’usucapione, nella misura corrispondente al possesso esercitato.

Né tale situazione di compossesso – prosegue la Corte – che consiste nel comune potere di fatto sulla cosa, in tota et in qualibet parte della stessa, da parte di due soggetti, esige la esclusione del possesso del proprietario (che in tal caso si tratterebbe di possesso esclusivo); né richiede che il compossessore esclusivo ignori l’esistenza del diritto altrui, non valendo la contraria eventualità ad escludere l’animus possidendi  che sorregge i comportamenti effettivamente tenuti dal possessore il quale abbia usato della cosa uti condominus.

 

art. 1104 c.c.     obblighi dei partecipanti: ciascun partecipante (in rapporto alla sua quota) deve contribuire nelle spese necessarie per la conservazione e per il godimento della cosa comune e nelle spese deliberate dalla maggioranza a norma delle disposizioni seguenti, salva la facoltà di liberarsene con la rinunzia al suo diritto.

La rinunzia non giova al partecipante che abbia anche tacitamente approvato la spesa.

Il cessionario del partecipante è tenuto in solido con il cedente a pagare i contributi da questo dovuti e non versati.

 

Per la S.C.[107] in tema di spese relative alle parti comuni di un bene, come l’obbligo di partecipare ad esse incombe su tutti i comunisti in quanto appartenenti alla comunione ed in funzione delle utilità che la cosa comune deve a ciascuno di essi garantire, così il diritto al rimborso pro quota delle spese necessarie per consentire l’utilizzazione del bene comune secondo la sua destinazione spetta al partecipante alla comunione che le abbia anticipate per gli altri in forza della previsione dell’art. 1110 c.c., le cui prescrizioni debbono ritenersi applicabili, oltre che a quelle per la conservazione, anche alle spese necessarie perché la cosa comune mantenga la sua capacità di fornire l’utilità sua propria secondo la peculiare destinazione impressale.

Tale obbligazione in base alla quale ciascuno dei condomini è tenuto a contribuire alle spese per la conservazione e manutenzione delle parti comuni dell’edificio – sempre secondo la medesima Corte[108] – è propter rem, essendo strettamente connessa alla contitolarità del diritto di proprietà che i partecipanti alla comunione hanno su di esse, con la conseguenza che deve presumersi l’efficacia reale anche della clausola del regolamento di condominio, di natura contrattuale, con cui la singola unità immobiliare venga esonerata, in tutto o in parte, dal contributo nelle spese stesse — salvo che dalla clausola non risulti la inequivoca volontà di concedere l’esenzione solo a colui che, in un determinato momento, sia proprietario del bene — e deve quindi ritenersi che detta clausola sia operante anche a favore dei successori, a titolo universale o particolare, del condomino in favore del quale l’esenzione era stata prevista.

Anche se in realtà una sentenza di merito[109] ha specificato che ai sensi dell’art. 1104 c.c. solo le spese relative alla conservazione e manutenzione delle cose comuni, e non quelle relative al godimento, sono tra quelle cui il singolo condomino e/o comunista non può assolutamente sottrarsi.

Con ultima pronuncia

Corte di cassazione, sezione II sentenza, 29 settembre 2011,  n. 19893

la S.C. ha confermato la natura di “obligationes propter rem” – e per questo il condomino (nel caso specifico trattato dalla Corte) non può sottrarsi all’obbligo del loro pagamento, ai sensi dell’art. 1118, comma secondo, c.c., che invece, significativamente, nulla dispone per le spese relative al godimento delle cose comuni – è legittima la rinuncia di un condomino all’uso dell’impianto centralizzato di riscaldamento (purché questo non ne sia pregiudicato), con il conseguente esonero, in applicazione del principio contenuto nell’art. 1123, comma secondo, c.c., dall’obbligo di sostenere le spese per l’uso del servizio centralizzato; è invece obbligato a sostenere le spese dell’eventuale aggravio derivato alle spese di gestione di tale servizio, compensato dal maggiore calore di cui beneficia anche il suo appartamento.

Sentenza che ha recepito a pieno il principio già enunciato dalla S.C.[110] secondo cui in tema di spese relative alle parti comuni di un bene, vanno tenute distinte quelle per la conservazione, che sono quelle necessarie per custodire, mantenere la cosa comune in modo che duri a lungo senza deteriorarsi (quali, nella specie, le spese per l’acqua occorrente per la irrigazione del giardino ), dalle spese per il godimento, che riguardano le utilità che la cosa comune può offrire (quali, nella specie, le spese per il combustibile e per l’energia elettrica necessari per il funzionamento dell’impianto di riscaldamento e per l’acqua potabile). Soltanto le spese per la conservazione, nel caso di inattività degli altri comproprietari, da accertare in fatto, possono essere anticipate da un partecipante al fine di evitare il deterioramento della cosa, cui egli stesso e tutti gli altri hanno un oggettivo interesse, e solo di esse può essere chiesto il rimborso. Relativamente alle spese per il godimento, le quali, invece, debbono essere sostenute solamente da chi concretamente gode della cosa comune, il rimborso non è previsto, in quanto il singolo comunista le ha anticipate per un godimento soggettivo, che è suo personale, e non riguarda anche gli altri partecipanti alla comunione.

Inoltre, sempre per altro Tribunale[111], la funzione e il fondamento delle spese occorrenti per la conservazione dell’immobile si distinguono dalle esigenze che presiedono alle spese per il godimento dello stesso, come è dato evincere, in via di principio generale, dal disposto dell’art. 1104 c.c. – dettato in tema di comunione – e, sub specie dei rapporti di condominio, dalla norma di cui all’art. 1123 stesso codice, a mente della quale i contributi per la conservazione del bene sono dovuti in ragione della appartenenza e si dividono in proporzione alle quote, indipendentemente dal vantaggio soggettivo espresso dalla destinazione delle parti comuni a servire in misura diversa i singoli piani o porzioni di piano, mentre le spese d’uso che traggono origine dal godimento soggettivo e personale si suddividono in proporzione alla concreta misura di esso, indipendentemente dalla misura proporzionale dell’appartenenza e possono, conseguentemente, mutare, del tutto legittimamente, in modo affatto autonomo rispetto al valore della quota.

Inoltre la Corte di Piazza Cavour

Corte di cassazione, sezione II, sentenza 21 ottobre 2011 n. 21907

ha precisato  che i comproprietari di un’unità immobiliare sita in un condominio sono tenuti in solido, nei confronti del condominio, al pagamento degli oneri condominiali, sia perchè detto obbligo di contribuzione grava sui titolari del piano o della porzione di piano inteso come cosa unica e i comunisti rappresentano un insieme, sia in virtù del principio generale previsto dall’articolo 1294 del codice civile, alla cui applicabilità non è di ostacolo la circostanza che le quote dell’unità immobiliare siano pervenute ai comproprietari in forza di titoli diversi. Trattandosi di un principio informatore della materia, al rispetto di esso è tenuto il giudice di pace, anche quando decide secondo equità ai sensi dell’art. 113, secondo comma, c.p.c.

In merito alle spese comuni, poi, è intervenuta da ultimo la Cassazione[112] andando a stabilire i criteri di riparto tra l’acquirente ed il venditore di un’unità immobiliare alienata successivamente all’approvazione dei lavori straordinari, questione cara, a parere di chi scrive, a non pochi e foriera di grattacapi per gli amministratori.

Per il Supremo Collegio, dunque, in caso di vendita di un’unità immobiliare in condominio (ma del tutto applicabile per analogia nel caso di comunione), nel quale siano stati deliberati lavori di straordinaria manutenzione o di ristrutturazione o innovazioni, in mancanza di accordo tra le parti, nei rapporti interni tra alienante ed acquirente è tenuto a sopportarne i relativi costi chi era proprietario al momento della delibera dell’assemblea, sicché, ove tali spese siano state deliberate antecedentemente alla stipulazione dell’atto di trasferimento dell’unità immobiliare, ne risponde il venditore, a nulla rilevando che tali opere siano state, in tutto o in parte, eseguite successivamente, e l’acquirente ha diritto a rivalersi, nei confronti del proprio dante causa, per quanto pagato al condominio in forza del principio di solidarietà passiva di cui all’art. 63 disp. att. c.c.[113]

La S.C.[114], in precedenza, però aveva chiarito a tale proposito che, nei rapporti tra venditore e compratore, per capire su chi deve gravare la quota spese relative ad opere di straordinaria manutenzione approvati nelle more del contratto definitivo di compravendita, si deve guardare non tanto alla data della deliberazione assembleare su tali opere quanto al momento della concreta attuazione della attività di manutenzione ciò in quanto l’obbligo del condomino dì pagare i contributi per le spese di manutenzione delle parti comuni dell’edificio deriva non dalla preventiva approvazione della spesa e dalla ripartizione della stessa, ma dalla concreta attuazione dell’attività dà manutenzione e sorge quindi per effetto dell’attività gestionale concretamente compiuta.

Con altra sentenza , la Corte di Piazza Cavour, in merito ai doveri nonchè obblighi dei comunisti/comproprietari

Corte di Cassazione, sezione tributaria, ordinanza 6 luglio 2011, n. 14920.

è intervenuta su di una problematica molto diffusa nelle famiglie italiane ovvero nei rapporti tra i proprietari degli immobile e gli assegnatari, in virtù di separazione, dei medesimi immobili.

Orbene la S.C. ha stabilito che il comproprietario di un immobile è obbligato al pagamento dell’ICI sull’immobile anche se, in sede di separazione, venga assegnato per intero al cognato.

Si legge nella sentenza che , in tema di imposta comunale sugli immobili, il coniuge affidatario dei figli al quale sia assegnata la casa di abitazione posta nell’immobile di proprietà (anche in parte) dell’altro coniuge non è soggetto passivo dell’imposta per la quota dell’immobile stesso sulla quale non vanti il diritto di proprietà ovvero un qualche diritto reale di godimento, come previsto dal D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 3. Con il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa coniugale in sede di separazione personale o di divorzio, infatti, viene riconosciuto al coniuge un atipico diritto personale di godimento e non un diritto reale, sicchè in capo al coniuge non è ravvisa bile la titolarità di un diritto di proprietà o di uno di quei diritti reali di godimento, specificamente previsti dalla norma, costituenti l’unico elemento di identificazione del soggetto tenuto al pagamento dell’imposta in parola sull’immobile.

A nulla sono valse da parte del comproprietario  le richieste impugnative dell’avviso di accertamento dell’imposta ICI liquidata sulla sua quota di comproprietà, sostenendo di essere in una condizione simile a quella del nudo proprietario, e che il tributo grava sulla cognata che ha il godimento del bene.

G) L’Assemblea, le deliberazioni e l’amministratore

L’assemblea

È l’organo di governo della comunione, competente:

1)   per l’emanazione del regolamento;

2)   la gestione della cosa comune;

3)   la nomina dell’amministratore.

art. 1105 c.c.    amministrazione: tutti i partecipanti hanno diritto di concorrere nell’amministrazione della cosa comune.

Per gli atti di ordinaria amministrazione le deliberazioni della maggioranza (semplice – valore superiore alla metà del valore complessivo del bene) dei partecipanti, calcolata secondo il valore delle loro quote, sono obbligatorie per la minoranza dissenziente.

Per la validità delle deliberazioni della maggioranza si richiede che tutti i partecipanti siano stati preventivamente informati (quindi non è necessaria, a meno che non è prevista nel regolamento, la presenza di un numero minimo di contitolari) dell’oggetto della deliberazione.

Se non si prendono i provvedimenti necessari per l’amministrazione della cosa comune o non si forma una maggioranza, ovvero se la deliberazione adottata non viene eseguita, ciascun partecipante può ricorrere all’autorità giudiziaria. Questa provvede in camera di consiglio e può anche nominare un amministratore.

Secondo il Tribunale Capitolino[115] ove sorgano difficoltà gestionali in merito ad un bene comune lo strumento accordato dal legislatore è quello previsto dall’art. 1105 c.c. teso alla nomina di un amministratore giudiziario per la gestione del bene.

L’area d’intervento della disposizione testé citata si estende infatti a tutti i casi in cui non si adottano i provvedimenti necessari per l’amministrazione della cosa comune o non si forma una maggioranza, ovvero non viene eseguita la deliberazione adottata. La nomina dell’amministratore è ammessa, pertanto, non solo in caso di inerzia ma anche ove si presentino concrete e specifiche difficoltà gestionali. Da quest’ultime chiaramente non si può prescindere.

E’, infatti, ai comproprietari che spetta ogni determinazione in ordine all’amministrazione delle cose comuni sia che si tratti di spese voluttuarie, utili o necessarie, sia che si tratti di stabilire le modalità di godimento, donde presupposto indefettibile per l’ammissibilità del ricorso ex art. 1105 IV comma c.c., è la comprovata impossibilità di addivenire ad una decisione da parte dei comproprietari. Ed è all’evidenza che nell’ipotesi in cui i comproprietari siano due, posto che in caso di disaccordo nessuna maggioranza potrà mai formarsi, sarà sufficiente – per la proposizione del ricorso in esame – il loro disaccordo gestionale.

In merito poi alla convocazione[116] è per uniforme giurisprudenza di legittimità il presupposto secondo cui l’assemblea dei partecipanti alla comunione ordinaria, diversamente da quanto stabilito per il condominio degli edifici, è validamente costituita mediante qualsiasi forma di convocazione purché idonea allo scopo, in quanto gli artt. 1105 e 1108 c.c. non prevedono l’assolvimento di particolari formalità, menzionando semplicemente la preventiva conoscenza dell’ordine del giorno e la decisione a maggioranza dei partecipanti.

Sul punto è intervenuta altra recente Cassazione

Corte di Cassazione, sezione seconda civile, sentenza 12 dicembre 2017, n. 29747

riaffermando che l’indicazione, nell’avviso di convocazione dell’assemblea dei partecipanti ad una comunione, dell’elenco delle materie da trattare, allo scopo di rendere edotti i comunisti degli argomenti sui quali essi dovranno deliberare (articolo 1105 c.c., comma 3, c.c.), puo’ esser anche sintetica, purche’ chiara e non ambigua, specifica e non generica, in maniera da consentire la discussione e l’adozione da parte dell’assemblea delle eventuali deliberazioni conseguenziali ed accessorie. L’assemblea dei partecipanti alla comunione ordinaria, diversamente da quanto stabilito per il condominio degli edifici, e’, invero, validamente costituita mediante qualsiasi forma di convocazione, purche’ idonea allo scopo, in quanto gli articoli 1105 e 1108 c.c. non prevedono per la comunione semplice l’assolvimento di particolari formalita’, menzionando semplicemente la preventiva conoscenza dell’ordine del giorno. Gli articoli 1105 e 1108 c.c. non suppongono, anzi, nemmeno la costituzione formale dell’assemblea, ma semplicemente la decisione a maggioranza dei partecipanti. Pertanto deve ritenersi regolarmente costituita e capace di deliberare la riunione dei partecipanti alla comunione con la presenza dell’amministratore per decidere su oggetti di comune interesse. In ogni caso, la verifica di sufficienza della preventiva informazione dei partecipanti sull’oggetto della deliberazione, implicando inevitabilmente una valutazione da compiere caso per caso e da rapportare alla specificita’ di ogni situazione, e quindi un apprezzamento di fatto, spetta al giudice del merito: pertanto, salvo che questi non abbia applicato il disposto dell’articolo 1105 c.c., comma 3, discostandosi da tale corrente interpretazione giurisprudenziale, o che non abbia preso in esame un fatto storico decisivo e controverso, la valutazione del giudice di merito sulla completezza dell’avviso di convocazione.

Inoltre, secondo la Corte d’Appello Meneghina[117], la convocazione dell’assemblea della comunione disciplinata dall’art. 1105 c.c. non prevede un termine fisso di convocazione, demandando al giudice la valutazione della congruità del termine in concreto concesso.

Proprio perché la suddetta norma regola in modo specifico la fattispecie, non è ravvisabile una lacuna e quindi non è applicabile una diversa regola mediante interpretazione analogica dell’art. 66[118] comma III disp. att. c.c. dettato in tema di condominio di edifici, il quale fissa in 5 giorni il termine minimo per la comunicazione dell’avviso di convocazione dell’assemblea ai partecipanti.

Non pochi problemi sono sorti in merito al luogo della riunione assembleare, ma che secondo ultima giurisprudenza di merito[119], appunto, le riunioni dell’eventuale assemblea costituitasi non debbono essere tenute necessariamente presso il luogo in cui si trova l’immobile risultando inapplicabile qualsiasi regola dettata in tema di condominio – stante la mancanza di uno specifico obbligo di costituire un’assemblea – su tale questione. Viceversa può risultare confacente il richiamo ad un criterio di ragionevolezza e convenienza, dettato in tema di condominio ma autonomamente applicabile anche alla comunione, in virtù del quale fissare l’assemblea in un luogo moralmente e fisicamente idoneo a consentire non solo l’intervento di tutti i soggetti partecipanti alla comunione ma anche un sereno ed ordinato svolgimento della riunione. Così, nel caso in cui l’assemblea venga convocata in un luogo che non consenta il regolare ed ordinario sviluppo della discussione, essa non potrà che essere dichiarata non valida.

Per la validità delle deliberazioni è bene riportare una sentenza[120] della S.C. con la quale si è affermato che in tema di comunione semplice — diversamente da quanto statuito per il condominio degli edifici — gli artt. 1105 e 1108 c.c. non prevedono la costituzione formale dell’assemblea, ma semplicemente la decisione a maggioranza dei partecipanti. Pertanto deve ritenersi regolarmente costituita e capace di deliberare, la riunione dei partecipanti alla comunione con la presenza dell’amministratore per decidere su oggetti di comune interesse.

Per quanto riguarda gli effetti nei confronti dei terzi la Corte di Piazza Cavour[121] ha affermato che il potere di concorrere nell’amministrazione della cosa comune statuito dal primo comma dell’art. 1105 c.c. può, nei confronti dei terzi, indurre a ritenere che chi agisce per la comunione la rappresenti ma, per vincolare i comunisti agli atti non stipulati dalla maggioranza, occorre, in ogni caso, che gli stessi vi prestino consenso. Infatti, per gli atti di ordinaria amministrazione, tra cui quelli indicati dall’art. 374 c.c.[122], poiché l’esercizio da parte del singolo della facoltà di amministrare la cosa comune può collidere con quello analogo degli altri, ai sensi del secondo comma della norma citata, la potestà di disporre spetta alla maggioranza delle quote, la cui volontà vincola la minoranza e, comunque, ciascun comunista, se ritiene di esserne pregiudicato, può ricorrere all’autorità giudiziaria, ai sensi del quarto comma del richiamato art. 1105 cod. civ., come nel caso in cui non si formi la volontà della maggioranza o non si deliberi sull’amministrazione della cosa comune.

Andando ad analizzare, nuovamente, i provvedimenti previsti dall’ultimo comma dell’art. 1105 secondo la costante giurisprudenza della Corte di legittimità[123], i decreti emessi dal giudice, anche in sede di reclamo, in ordine ai provvedimenti necessari per l’amministrazione della cosa comune a norma dell’articolo 1105 c.c., u.c., sono soltanto suscettibili di revoca o di modificazione, e non impugnabili con il ricorso per cassazione ex articolo 111 Cost., in quanto aventi natura di provvedimenti di volontaria giurisdizione.

Inoltre secondo una sentenza di merito[124] è inammissibile la revoca da parte dell’Autorità Giudiziaria, adita su ricorso di un partecipante ex art. 1105 c.c. in sede di volontaria giurisdizione, dell’amministratore di comunione nominato ai sensi dall’art. 1105 c.c., comma 2, non essendo applicabile in materia di comunione lo strumento camerale, eccezionale ed urgente, previsto invece per il condominio negli edifici dall’art. 1129 comma III, c.c., né ricorrendo per le regole della comunione un principio analogo ed inverso a quello previsto per il condominio nell’art. 1139 c.c.

Mentre, sempre continuando a leggere nella medesima sentenza, in caso di irregolarità della gestione della comunione, ciascun partecipante può ricorrere all’assemblea e chiedere la revoca dell’amministratore, divenendo in tal caso ammissibile il ricorso del singolo all’autorità giudiziaria a norma dell’art. 1105 c.c. laddove non si formi al riguardo una maggioranza assembleare. Quando, invece, l’assemblea si tenga e decida di non procedere alla revoca dell’amministratore, il comunista può procedere ad impugnare la delibera ai sensi dell’art. 1109 n. 1 c.c.

In definitiva in materia di gestione della cosa comune il ricorso all’autorità giudiziaria ex art. 1105 cod. civ. presuppone ipotesi tutte riconducibili ad una situazione di assoluta inerzia[125] in ordine alla concreta amministrazione della cosa comune per mancata assunzione dei provvedimenti necessari o per assenza di una maggioranza o per difetto di esecuzione della deliberazione adottata; detta norma non è, invece, applicabile quando l’assemblea condominiale abbia approvato dei lavori considerati necessari per la manutenzione delle parti comuni dell’edificio, contestati da taluni compartecipanti, in quanto l’intervento del giudice in tal caso si risolverebbe in un’ingerenza nella gestione condominiale ed in una sovrapposizione della volontà assembleare.

Impugnazione delle deliberazioni

art. 1109 c.c.       impugnazione delle deliberazioni: ciascuno dei componenti la minoranza dissenziente può impugnare davanti all’autorità giudiziaria le deliberazioni della maggioranza :

1)   nel caso previsto dal secondo comma dell’articolo 1105 (“per gli atti di ordinaria amministrazione le deliberazioni della maggioranza dei partecipanti, calcolata secondo il valore delle loro quote, sono obbligatorie per la minoranza dissenziente”), se la deliberazione è gravemente pregiudizievole alla cosa comune;

2)    se non è stata osservata la disposizione del terzo comma dell’art 1105 (per la validità delle deliberazioni della maggioranza si richiede che tutti i partecipanti siano stati preventivamente informati dell’oggetto della deliberazione);

3)   se la deliberazione relativa a innovazioni o ad altri atti eccedenti l’ordinaria amministrazione è in contrasto con le norme del primo e del secondo comma dell’art 1108.

L’impugnazione deve essere proposta, sotto pena di decadenza, entro 30 giorni dalla deliberazione. Per gli assenti, il termine decorre dal giorno in cui è stata loro comunicata la deliberazione. In pendenza del giudizio, l’autorità giudiziaria può ordinare la sospensione del provvedimento deliberato.

 

      Secondo le Sezioni Unite della S.C.[126] in tema di condominio negli edifici  (applicabile per analogia alla comunione), la sanzione della nullità deve ritenersi limitata alle delibere dell’assemblea condominiale: 1) prive degli elementi essenziali; 2) con oggetto impossibile o illecito (contrario, cioè, all’ordine pubblico alla morale o al buon costume), ovvero comunque invalide in relazione all’oggetto; 3) con oggetto non ricompreso nelle competenze dell’assemblea; 4) incidenti su diritti individuali su cose o servizi comuni; 5) incidenti sulla proprietà esclusiva di un condomino, mentre devono, per converso, ritenersi soltanto annullabili le delibere: 1) affette da vizi relativi alla regolare costituzione dell’assemblea; 2) adottate con maggioranze inferiori a quelle prescritte dalla legge o dal regolamento condominiale; 3) affette da vizi formali in violazione di prescrizioni legali, convenzionali, regolamentari attinenti al procedimento di convocazione e/o informazione dell’assemblea; 4) affette genericamente da irregolarità nel procedimento di convocazione.

      Orbene proprio in riferimento alla regolare costituzione dell’assemblea per il Tribunale[127] Capitolino i condomini e/o comunisti  devono essere previamente messi al corrente dei temi oggetto della delibazione collegiale sì da consentire una partecipazione effettiva e concreta e permettere, nel contempo, di poter operare le personali valutazioni in merito anche all’opportunità o alla necessità, in ragione del personale interesse, a intervenire alla stessa. Ne consegue che l’eventuale deliberazione su questioni che non siano state inserite all’ordine del giorno e che non siano state oggetto di pregressa informativa ai condomini partecipanti, proprio perché pregiudicante detto diritto alla partecipazione effettiva e consapevole normativamente sancito dagli artt. 1105 e 1136 c.c., é illegittima e, pertanto, possibile oggetto di giudiziale gravame ai sensi dell’art. 1137 c.c.

In aggiunta a tale giurisprudenza si può far riferimento anche ad altra pronuncia[128] che in maniera più esplicita ha affermato l’invalidità della deliberazione assembleare assunta su un argomento non incluso nell’ordine del giorno contenuto nell’avviso di convocazione.

Secondo la S.C.[129], per una partecipazione informata dei condomini ad un’assemblea condominiale, al fine della conseguente validità della delibera adottata è sufficiente che, nell’avviso di convocazione della medesima, gli argomenti da trattare siano indicati nell’ordine del giorno nei termini essenziali per essere comprensibili, senza necessità di prefigurare lo sviluppo della discussione ed il risultato dell’esame dei singoli punti da parte dell’assemblea.

La sentenza enunciata riprende appieno altro provvedimento della medesima Corte[130] – attinente sì alla materia societaria, ma applicabile per analogia – secondo cui l’indicazione, nell’avviso di convocazione dell’assemblea dei soci, dell’elenco delle materie da trattare ha la duplice funzione di rendere edotti i soci circa gli argomenti sui quali essi dovranno deliberare, per consentire la loro partecipazione all’assemblea con la necessaria preparazione ed informazione, e di evitare che sia sorpresa la buona fede degli assenti a seguito di deliberazione su materie non incluse nell’ordine del giorno. A tal fine, tuttavia, non è necessaria un’indicazione particolareggiata delle materie da trattare, ma è sufficiente un’indicazione sintetica, purché chiara e non ambigua, specifica e non generica, la quale consenta la discussione e l’adozione da parte dell’assemblea dei soci anche delle eventuali deliberazioni consequenziali ed accessorie.

Infine sul punto con una nota sentenza la Corte di Piazza Cavour[131] aveva già affermato che in tema di deliberazioni dell’assemblea condominiale, ai fini della validità dell’ordine del giorno occorre che esso elenchi specificamente, sia pure in modo non analitico e minuzioso, tutti gli argomenti da trattare, sì da consentire a ciascun condomino di comprenderne esattamente il tenore e l’importanza, e di poter ponderatamente valutare l’atteggiamento da tenere, in relazione sia alla opportunità o meno di partecipare, sia alle eventuali obiezioni o suggerimenti da sottoporre ai partecipanti.

In particolare, sempre per la medesima Corte[132], la disposizione dell’art. 1105, III comma, c.c. la quale prescrive che tutti i partecipanti debbano essere preventivamente informati delle questioni e delle materie sulle quali sono chiamati a deliberare, non comporta che nell’avviso di convocazione debba essere prefigurato lo sviluppo della discussione ed il risultato dell’esame dei singoli punti da parte dell’assemblea.

L’accertamento della completezza o meno dell’ordine del giorno di un’assemblea condominiale – nonché della pertinenza della deliberazione dell’assemblea al tema in discussione indicato nell’ordine del giorno contenuto nel relativo avviso di convocazione – è poi demandato all’apprezzamento del giudice del merito insindacabile in sede di legittimità se adeguatamente motivato.

E secondo giurisprudenza di merito[133], affinché detto vizio possa essere concretamente riscontrato è, però, necessario che la determinazione assembleare verta su di un tema del tutto alieno rispetto a quanto posto al relativo ordine del giorno o, comunque, non sia ad esso riconducibile in via logica. Di contro, nel caso in cui tra quanto deliberato e quanto in precedenza indicato nel pertinente ordine del giorno sia enucleabile una relazione di “ampia coincidenza” o comunque di “convergenza” ciò escluderà ogni profilo di illegittimità proprio perché il dovere informativo ha trovato ottemperanza.

In rapporto, poi, alla validità del verbale tout court secondo la Corte nomofilattica[134] un verbale di assemblea condominiale ben può essere utilizzato allo scopo di manifestare una volontà negoziale degli intervenuti o di alcuni di essi, ma, se per il negozio è richiesta la forma scritta ad substantiam, in tanto è soddisfatto il requisito formale, in quanto le parti del negozio abbiano proceduto alla sottoscrizione di detto verbale, poiché, ove lo scritto sia prescritto ad substantiam, la sottoscrizione è essenziale ai fini dell’operatività ed efficacia della manifestazione della volontà negoziale; conseguentemente, la sottoscrizione del verbale di assemblea solo da parte del presidente e del segretario non è idonea ad integrare il suindicato requisito di forma, relativamente a negozi di cui siano parti altri soggetti.

Pertanto la mancata sottoscrizione, di tutti i legittimi partecipanti alla comunione, ai lavori “assembleari” determina la invalidità dello scritto.

In merito, infine, al ricorso introduttivo dell’impugnativa, con un provvido intervento le Sezioni Unite[135] hanno affermato che in applicazione del principio di conservazione, l’impugnazione delle deliberazioni condominiali (e dei comunisti) può avvenire efficacemente, pur se irritualmente, anche con citazione, a condizione però che nel termine di trenta giorni l’atto non sia soltanto notificato, ma anche depositato in cancelleria, poiché unicamente in tal caso può essere equiparato a un ricorso.

Il caso partiva dall’opposizione sollevata mediante citazione, appunto, da due condomini contro una delibera di rifacimento della copertura del garage dell’edificio.

I ricorrenti si vedevano dare torto sia in primo grado, dal tribunale di Bergamo, che in appello, dalla Corte di Brescia, in quanto non avevano introdotto il giudizio mediante ricorso, né successivamente avevano sanato l’invalidità dell’atto facendo seguire alla notifica, fatta correttamente, anche il deposito in cancelleria, nel termine previsto di trenta giorni (articolo 1137 del cc).

Orbene, nella sentenza si legge:

“A proposito delle impugnazioni delle deliberazioni condominiali, invece, è stato seguito anche un diverso orientamento, secondo cui è sufficiente la tempestiva notificazione della citazione, non occorrendo anche il suo deposito in cancelleria, che avviene successivamente, al momento della iscrizione a ruolo della causa[136].

Ritiene il collegio che l’art. 1137 c.c. non disciplina la forma che deve assumere l’atto introduttivo dei giudizi di cui si tratta.

Depone in questo senso, in primo luogo, la sedes materiae della disposizione, la quale è inserita in un contesto normativo – il codice civile – destinato alla configurazione dei diritti e all’ apprestamento delle relative azioni sotto il profilo sostanziale dell’an e non anche sotto quello procedurale del quomodo: contesto normativo nel quale il termine “ricorso” è spesso utilizzato per indicare l’atto con cui si reagisce, eventualmente anche in sede stragiudiziale, alla lesione di un diritto”.

Proprio nell’ambito della disciplina del condominio, infatti, l’ art. 1133 c.c. prevede la possibilità del «ricorso all’assemblea» contro ì provvedimenti dell’amministratore, mentre la parola «citazione», nell’art. 1131 c.c., indica tutti gli atti con cui il condominio è «convenuto in giudizio», atti che ben possono avere la forma del ricorso, quando si verte in materie per le quali così è disposto. Non è quindi significativo l’argomento lessicale, che viene ricavato dal testo dell’ art. 1137 c.c., nel quale il termine “ricorso” è impiegato nel senso generico di istanza giudiziale, che si ha facoltà di proporre per ottenere l’annullamento delle deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento dì condominio.

Infatti la prescrizione del ricorso, come veste dell’atto introduttivo dei giudizi in determinate materie, è sempre accompagnata dalla fissazione di varie altre regole, intese in genere a delineare procedimenti caratterizzati da particolare snellezza e rapidità: regole che mancano del tutto con riguardo alle impugnazioni delle deliberazioni condominiali, per le quali non si dubita che siano soggette alle norme comuni dì procedura”.

Ciò non solo corrobora la tesi del significato generico del termine «ricorso» , come compare nell’ art. 1137 c.c., ma fa cadere anche l’argomento relativo alle esigenze di celerità che la norma avrebbe inteso soddisfare: a questo fine risulta ininfluente che la causa sia promossa nell’una forma o nell’ altra, se poi deve seguire il suo iter con il rito ordinario; né rileva la diversità – sulla quale pure è stato posto l’accento – del sistema dì fissazione della prima udienza, da parte del giudice invece che dell’attore, poiché eventuali manovre dilatorie di quest’ ultimo possono essere efficacemente contrastate con il rimedio dell’an-ticipazione di cui all’art. 163-bis c.p.c., ma sono comunque già frustrate dalla prevista immediata esecutività delle deliberazioni condominiali, anche se impugnate”.

Poiché dunque la norma in considerazione si limita a consentire ai dissenzienti e agli assenti di agire in giudizio, per contestare la conformità alla legge o al regolamento dì condominio delle decisioni adottate dall’assemblea, ma nulla dispone in ordine alle relative modalità, queste vanno individuate alla stregua della generale previsione dell’ art. 163 c.p.c, secondo cui «la domanda si propone mediante citazione». Si evita così anche la discrasia, cui la contraria opinione da luogo, tra le azioni di annullamento e quelle di nullità delle deliberazioni condominiali, in quanto unanimemente soltanto alle prime si ritiene applicabile l’art. 1137 c.c.[137], sicché nei due casi le domande dovrebbero essere proposte in forme diverse, anche quando si impugna una stessa deliberazione e si deduce che è affetta da vizi che ne comportano sia la nullità sia l’annullamento. Si evita altresì la divergenza, sopra evidenziata, tra le soluzioni adottate a proposito delle condizioni richieste per la sanabilità dell’atto, quando si verte nella materia del condominio o nelle altre per le quali è prescritto il ricorso.

Ciò stante, la questione della conversione sì pone in termini inversi rispetto a quelli in cui è stata finora affrontata: si tratta di stabilire se la domanda di annullamento di una deliberazione condominiale, proposta impropriamente con ricorso anziché con citazione, possa essere ritenuta valida e se a questo fine sia sufficiente che entro i trenta giorni stabiliti dall’art. 1137 c.c. l’atto venga presentato al giudice, e non anche notificato. A entrambi i quesiti va data risposta affermativa, in quanto l’adozione della forma del ricorso non esclude l’idoneità al raggiungimento dello scopo di costituire il rapporto processuale, che sorge già mediante il tempestivo deposito in cancelleria, mentre estendere alla notificazione la necessità del rispetto del termine non risponde ad alcuno specifico e concreto interesse del convenuto, mentre grava l’attore di un incombente il cui inadempimento può non dipendere da una sua inerzia, ma dai tempi impiegati dall’ufficio giudiziario per la pronuncia del decreto di fissazione dell’udienza di comparizione.

In accoglimento del ricorso, pertanto, la sentenza impugnata, secondo la S.C. andava cassata con rinvio ad altro giudice  uniformandosi al seguente principio di diritto:

«L’art. 1137 c.c. non disciplina la forma delle impugnazioni delle deliberazioni condominiali, che vanno pertanto proposte con citazione, in applicazione della regola dettata dall’ art. 163 c.p.c.»” .

L’amministratore

      Poteri ed obblighi dell’amministratore sono definiti dall’assemblea o in via analogica, dalle norme sull’amministratore di condominio e, infine, da quelle sul mandato.

art. 1106   2 co c.c.      regolamento della comunione e nomina di amministratore: ………………………………………………………………..

Nello stesso modo l’amministrazione può essere delegata ad uno o più partecipanti, o anche a un estraneo, determinandosi i poteri e gli obblighi dell’amministratore.

      È stato riconosciuto in giurisprudenza che l’amministratore ha soltanto una rappresentanza ex mandato dei compartecipi, riconoscendo, in tal modo, a ciascuno di questi ultimi, il potere di gestione della cosa comune: questo potere, però, non può essere esercitato in contrasto con il potere dell’assemblea e dell’amministratore.

      Infatti secondo il Collegio di Legittimità[138] l’articolo 1105 del c.c. prevede che tutti i partecipanti alla comunione abbiano diritto di concorrere all’amministrazione della cosa comune; l’eventuale nomina di un amministratore, consentita dall’articolo 1106, comma II, non investe il medesimo di tutti i poteri di gestione e dei poteri di rappresentanza dei partecipanti, come avviene nel condominio ai sensi degli articoli 1130 e 1131 del c.c.; l’articolo 1106, infatti, prevede che con il conferimento della delega a un amministratore devono essere definiti i poteri e gli obblighi dello stesso; ne consegue che solo con espresso conferimento del relativo potere, l’amministratore può avere la rappresentanza dei partecipanti alla comunione.

      Per la Cassazione[139], l’amministratore della comunione, anche se nominato giudiziariamente ai sensi dell’art. 1105 c.c., è privo della legittimazione ad agire in giudizio nei confronti di uno dei comunisti in rappresentanza degli altri, mancando, in materia di comunione, una disposizione analoga a quella posta, per l’amministratore del condominio, dall’art. 1131 c.c., che, in via eccezionale, attribuisce a questi il potere di agire in giudizio sia contro i terzi che nei confronti dei condomini.

      In assenza di un amministratore il contitolare può avvalersi dell’indirizzo giurisprudenziale che attribuisce al singolo compartecipe la legittimazione a compiere atti di ordinaria amministrazione sulla base di una presunzione di autorizzazione da parte degli altri contitolari.

      Secondo alcune sentenze di merito[140], inoltre, deve ritenersi infondata la domanda giudiziale tesa ad ottenere l’annullamento della delibera assembleare con cui sia stata nominata amministratrice del condominio (ed eventualmente di una comunione) una società.

      La disciplina codicistica in tema di nomina, revoca ed attività dell’amministratore del condominio degli edifici non esclude la possibilità che l’incarico di amministrazione sia conferito ad una pluralità di soggetti. Invero, grazie al rinvio alle norme sulla comunione, operato dall’art. 1139 c.c., è possibile applicare alla presente materia l’art. 1106 c.c., e conseguentemente è possibile prevedere che il suddetto mancipium gestorio sia affidato ad una società, in cui la disciplina del potere di amministrazione come derivante da un rapporto di mandato fra la collettività dei soci amministratori (art. 2260 c.c.) e l’attribuzione, nei rapporti esterni, della rappresentanza del socio amministratore (art. 2266 c.c.) presenta un notevole parallelismo con quella dell’art. 1131 c.c., alla quale aggiunge la predisposizione di regole legali per la risoluzione del conflitto tra gli amministratori (art. 2257 c.c.).

H) Innovazioni ed altri atti eccedenti l’ordinaria amministrazione

art. 1108 c.c.      innovazioni e altri atti eccedenti l’ordinaria amministrazione: con deliberazione della maggioranza dei partecipanti che rappresenti almeno due terzi del valore complessivo della cosa comune, si possono disporre tutte le innovazioni dirette al miglioramento della cosa o a renderne più comodo o redditizio il godimento, purché esse non pregiudichino il godimento di alcuno dei partecipanti e non importino una spesa eccessivamente gravosa .

Nello stesso modo si possono compiere gli altri atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, sempre che non risultino pregiudizievoli all’interesse di alcuno dei partecipanti.

E’ necessario il consenso di tutti i partecipanti  per gli atti di alienazione o di costituzione di diritti reali sul fondo comune e per le locazioni di durata superiore a nove anni .

L’ipoteca può essere tuttavia consentita dalla maggioranza indicata dal primo comma, qualora abbia lo scopo di garantire la restituzione delle somme mutuate per la ricostruzione o per il miglioramento della cosa comune.

      Per la Corte[141] nomofilattica costituisce innovazione qualsiasi opera nuova che alteri, in tutto o in parte, nella materia o nella forma ovvero nella destinazione, di fatto o di diritto, la cosa comune, eccedendo il limite della conservazione, dell’ordinaria amministrazione e del godimento della cosa, e che importi una modificazione materiale della forma o della sostanza della cosa medesima, con l’effetto di migliorarne o peggiorarne il godimento o, comunque, alterarne la destinazione originaria con conseguente implicita incidenza sull’interesse di tutti i condomini, i quali debbono essere liberi di valutare la convenienza dell’innovazione, anche se sia stata programmata ad iniziativa di un solo condomino che se ne assuma tutte le spese. Non sono, invece, innovazioni, tutti gli atti di maggiore e più intensa utilizzazione della cosa comune, che non importino alterazioni o modificazioni della stessa e non precludano agli altri partecipanti la possibilita di utilizzare la cosa, facendone lo stesso maggiore uso del condomino che abbia attuato la modifica.

      L’atto di disposizione del fondo comune, consistente nella costituzione su di esso di un diritto reale di servitù, esige il consenso di tutti i partecipanti alla comunione, in difetto del quale, il compimento da parte di uno solo o da alcuni di questi è inidoneo alla produzione di siffatta costituzione e non determina pregiudizi nei confronti degli altri compartecipi[142].

I) Rimborso di spese

art.   1110 c.c.       rimborso di spese: il partecipante che, in caso di trascuratezza degli altri partecipanti o dell’amministratore, ha sostenuto spese necessarie per la conservazione della cosa comune, ha diritto al rimborso.

Secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite[143], la diversa disciplina dettata dagli articoli 1110 e 1134 c.c. in materia di rimborso delle spese sostenute dal partecipante per la conservazione della cosa comune, rispettivamente, nella comunione e nel condominio di edifici, che condiziona il relativo diritto, in un caso, a mera trascuranza degli altri partecipanti e, nell’altro caso, al diverso e più stringente presupposto dell’urgenza, trova fondamento nella considerazione che, nella comunione, i beni comuni costituiscono l’utilità finale del diritto dei partecipanti, i quali, se non vogliono chiedere lo scioglimento, possono decidere di provvedere personalmente alla loro conservazione, mentre nel condominio i beni predetti rappresentano utilità strumentali al godimento dei beni individuali, sicché la legge regolamenta con maggior rigore la possibilità che il singolo possa interferire nella loro amministrazione.

Ne discende che, instaurandosi il condominio sul fondamento della relazione di accessorietà tra i beni comuni e le proprietà individuali, poiché tale situazione si riscontra anche nel caso di condominio minimo, cioè di condominio composto da due soli partecipanti, la spesa autonomamente sostenuta da uno di essi è rimborsabile solo nel caso in cui abbia i requisiti dell’urgenza, ai sensi dell’articolo 1134 c.c.

In particolare, per avere diritto al rimborso della spesa affrontata per conservare la cosa comune, il condomino deve dimostrarne l’urgenza, ai sensi dell’articolo 1134 c.c., ossia la necessità di eseguirla senza ritardo e, quindi, senza potere avvertire tempestivamente l’amministratore o gli altri condomini. Tale accertamento di fatto compete al giudice di merito e detto giudizio e’ insindacabile in sede di legittimità, se adeguatamente motivato[144].

Poiché, in realtà, assumendo l’art. 1105 c.c. e valore di principio generale quanto alla necessità di ricorrere all’autorità giudiziaria per la nomina di un amministratore laddove non si prendano i provvedimenti necessari per l’amministrazione o non si formi una maggioranza, la deroga introdotta dall’art. 1110 c.c. (circa il diritto del partecipante al rimborso delle spese affrontate per la necessaria conservazione della cosa comune in caso di trascuranza) deve ritenersi eccezionale e, come tale, di stretta interpretazione.

Essa, quindi, non può aver ad oggetto le consuete spese correnti destinate al mero «godimento» anziché alla «conservazione» della cosa comune (l’art. 1104 comma I, c.c., distingue nettamente le due ipotesi e l’art. 1105, a sua volta, considera solo le seconde) ovvero le spese (come ad esempio la manutenzione ordinaria dell’impianto di riscaldamento) chiaramente estranee alla «necessaria» preservazione dell’integrità della cosa stessa.

In merito nuovamente con ultima pronuncia è intervenuta la S.C.

Corte di Cassazione, sezione III, sentenza n. 20652 del 9 settembre 2013

affermando che l’art. 1110 cod. civ., escludendo ogni rilievo dell’urgenza o meno dei lavori, stabilisce che il partecipante alla comunione, il quale, in caso di trascuranza degli altri compartecipi o dell’amministratore, abbia sostenuto spese necessarie per la conservazione della cosa comune, ha diritto al rimborso a condizione di aver precedentemente interpellato o, quantomeno preventivamente avvertito gli altri partecipanti o l’amministratore.

La mancata prestazione del consenso da parte dell’altro comproprietario è del tutto irrilevante posto che, come si è detto, il presuposto del rimborso sono la trascuranza ovvero l’inattività degli altri comunisti che non adottano le iniziati-ve necessarie.

Fra gli interventi legittimi vanno annoverati quelli che si rendano necessari perché il bene sia idoneo alla destinazione al quale è obiettivamente adibito ovvero siano indispensabili per assicurare il servizio comune, in quanto incidano sulla stessa esistenza o permanenza del bene o del servizio che altrimenti verrebbero meno: tali opere possono consi-stere anche nella sostituzione di parti costitutive indispensabili per il funzionamento della cosa, come è evidentemen-te nel caso degli esborsi sostenuti dal ricorrente per sostituire parti inservibili dell’impianto di riscaldamento che altri-menti non avrebbe potuto funzionare.

E’ stato, poi, nuovamente chiarito dalla S.C.

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 6 ottobre 2014, n. 20988

che l’articolo 1110 c.c. consente eccezionalmente la ripetibilita’ delle spese sostenute dal singolo partecipante alla comunione, in caso di trascuranza degli altri, limitatamente a quelle necessarie per la conservazione della cosa, ossia al mantenimento della sua integrita’ (Cass. n. 253 del 2013). Al riguardo vanno annoverati quegli interventi che si rendano necessari perche’ il bene sia idoneo alla destinazione al quale e’ obiettivamente adibito ovvero siano indispensabili per assicurare il servizio comune, in quanto incidano sulla stessa esistenza o permanenza del bene o del servizio che altrimenti verrebbero meno.

L’articolo 1110 c.c., escludendo ogni rilievo dell’urgenza o meno dei lavori, stabilisce che il partecipante alla comunione, il quale, in caso di trascuranza degli altri compartecipi o dell’amministratore, abbia sostenuto spese necessarie per la conservazione della cosa comune, ha diritto al rimborso a condizione di aver precedentemente interpellato o, quantomeno preventivamente avvertito gli altri partecipanti o l’amministratore. Solo, pertanto, in caso di inattivita’ di questi ultimi, egli puo’ procedere agli esborsi e pretenderne il rimborso, ed incombera’ su di lui l’onere della prova sia della trascuranza che della necessita’ dei lavori.

Ancora sul punto, ultima Cassazione

Corte di Cassazione, sezione I, sentenza 4 febbraio 2016, n. 2195

ha avuto modo di affermare che in tema di spese relative alle parti comuni di un bene, come l’obbligo di partecipare a esse incombe su tutti i comunisti in quanto appartenenti alla comunione e in funzione delle utilità che la cosa comune deve a ciascuno di essi garantire, così il diritto al rimborso pro quota delle spese necessarie per consentire l’utilizzazione del bene comune secondo la sua destinazione spetta al partecipante alla comunione che le abbia anticipate per gli altri in forza della previsione dell’articolo 1110 del Cc, le cui prescrizioni debbono ritenersi applicabili, oltre che a quelle per la conservazione, anche alle spese necessarie perché la cosa comune mantenga la sua capacità di fornire l’utilità sua propria secondo la peculiare destinazione impressale. Invero le spese per la conservazione, nel caso di inattività degli altri comproprietari – da accertarsi in fatto – possono essere anticipate da un partecipante al fine di evitare il deterioramento della cosa, cui egli stesso e tutti gli altri hanno un oggettivo interesse e di essere può essere chiesto il rimborso.

L) Profili processuali

      È riconosciuta al contitolare la legittimazione ad esercitare le azioni a difesa della proprietà.

      Difatti la Corte di Cassazione[145] ha avuto modo di affermare che in tema di azioni a difesa della proprietà, con riferimento alle parti comuni del fabbricato, il proprietario esclusivo di una porzione di un edifico abitativo, quale comproprietario delle parti dell’edificio con destinazione necessaria all’uso comune, è abilitato, in forza di trascrizione del suo titolo esclusivo di proprietà, ad agire nei confronti del terzo per ottenere la rimessione in pristino della violazione o manomissione di tali parti comuni.

      Ancora secondo giurisprudenza recente[146] in materia di comunione il principio generale dell’autonomia del diritto di ciascuno dei partecipanti impone di ritenere sussistente in capo ad ognuno di essi il diritto di esercitare da solo tutte le azioni a difesa della proprietà.

      In tal senso, pertanto, nella fattispecie la intervenuta proposizione della domanda di costituzione di una servitù di passaggio coattivo a favore del fondo comune intercluso da parte di alcuni solo dei partecipanti alla comunione, non costituisce il pur eccepito ostacolo all’esame della domanda attorea.

          Principio espresso nuovamente in un’ultima sentenza della S.C.[147], ovvero:  le azioni a difesa o a vantaggio della cosa comune possono essere esperite dai singoli condomini senza che sia necessaria l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri partecipanti alla comunione. In particolare, in tema di rapporti condominiali, nel giudizio instaurato a tutela della proprietà comune per l’eliminazione di opere abusive compiute da alcuni condomini (e non per l’accertamento della natura condominiale di alcuni specifici beni), non è necessaria l’integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti gli altri comproprietari, dovendo i singoli convenuti rispondere autonomamente dell’addebitato abuso e potendo ciascuno dei condomini agire individualmente a tutela del bene comune.

Ad ogni buon conto sono intervenute anche le Sezioni Unite

Corte di Cassazione, sezioni unite, sentenza 13 novembre 2013 n. 25454

affermando che è condivisibile e da mantenere l’orientamento, risalente agli anni ‘50, secondo cui le azioni a tutela della proprietà e del godimento della cosa comune e in particolare l’azione di rivendica possano essere promosse anche soltanto da uno dei comproprietari, senza che si renda necessaria l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri condomini. Ciò si è detto vuoi perché il diritto di ogni partecipante al condominio ha per oggetto la cosa comune intesa nella sua interezza, pur se entro i limiti dei concorrenti diritti altrui; vuoi perché compete ad ogni condomino la tutela dei diritti comuni sussistendo il principio della “rappresentanza reciproca”; ed ancora perché essa non tende a una pronuncia con effetti costitutivi.

      Per la S.C.[148], invece, con riguardo alle domande di risoluzione del contratto di locazione e di condanna del conduttore al pagamento dei canoni, deve essere negata la legittimazione (attiva) del comproprietario del bene locato “pro parte dimidia“, ove risulti l’espressa volontà contraria degli altri comproprietari (e sempre che il conflitto, non superabile con il criterio della maggioranza economica, non venga composto in sede giudiziale, a norma dell’art. 1105 c.c.), considerato che, in detta situazione, resta superata la presunzione che il singolo comunista agisca con il consenso degli altri, e, quindi, cade il presupposto per il riconoscimento della sua abilitazione a compiere atti di utile gestione rientranti nell’ordinaria amministrazione della cosa comune.

      In precedenza la stessa Cassazione[149] aveva affermato che nel caso di immobile in comunione il singolo comproprietario il quale faccia valere un’esigenza propria può agire per il rilascio nei confronti del conduttore ai sensi dell’art. 28 legge 27 luglio 1978 n. 392, non essendo richiesto che l’invocata esigenza sia comune agli altri comproprietari il cui consenso è presunto.

      In ambito generale è bene sottolineare che nel giudizio avente ad oggetto una domanda di condanna alla demolizione di un immobile, sono necessari contraddittori tutti i comproprietari pro indiviso del manufatto, in quanto, stante l’unitarietà “ab origine” del rapporto dedotto in giudizio, una sentenza di demolizione pronunciata soltanto nei confronti di alcuni di essi sarebbe inutiliter data.

      Mentre[150] non sussiste litisconsorzio necessario processuale, sì da richiedere l’integrazione del contraddittorio ai sensi dell’art. 331 c.p.c., tra coloro che hanno partecipato ai precedenti gradi di giudizio per tutelare la proprietà comune nei confronti di altri, perché la relativa controversia può esser instaurata da alcuni contitolari soltanto, senza necessità di integrazione del contraddittorio (c.d. sostanziale) a tutti.

      O ancora[151] quando tra alcuni comunisti insorga controversia sulle modalità di uso della cosa comune, ancorché riguardanti una modificazione che, non incidendo sull’estensione dei diritti degli altri partecipanti ( art. 1102, comma II, c.c.) né eccedendo l’ordinaria amministrazione (art. 1108 c.c.), tende al suo migliore godimento, nel giudizio instaurato fra i comunisti in disaccordo, non v’è litisconsorzio necessario di tutti gli altri partecipanti alla comunione.

Ulteriormente, secondo altra Cassazione,

Corte di Cassazione, sezione VI, ordinanza 16 gennaio 2013, n.1009

ciascun comproprietario, in quanto titolare di un diritto che, sia pure nei limiti segnati dalla concorrenza dei diritti degli altri partecipanti, investe l’intera cosa comune (e non una frazione della stessa), è legittimato ad agire o resistere in giudizio, anche senza il consenso degli altri, per la tutela della cosa comune, nei confronti dei terzi o di un singolo condomino (Cass. 11199/2000, in motivazione; 4345/2000; 2106/2000; 4354/1999; 4388/1996). Inoltre, nella particolare ipotesi del regime della comunione dei beni tra i coniugi, l’agire o il resistere disgiuntamente dei coniugi per gli atti che non eccedono l’ordinaria amministrazione comprende anche l’azione giudiziale del tipo di quella da risarcimento del danno introdotta nella presente controversia a svantaggio del bene comune

      In merito poi alle domande giudiziali è possibile apportare delle modifiche riguardo alla domanda originaria di accertamento della comunione.

Infatti secondo la S.C.[152] anche in secondo grado, e pur in comparsa conclusionale, può modificarsi l’originaria domanda di accertamento della comproprietà su di un bene in quella della proprietà esclusiva, senza incorrere nel divieto di “jus novorum” (art. 345 c.p.c.), ovvero il giudice può dichiarare l’inesistenza di limite al diritto di proprietà su di un bene, in base alle risultanze processuali, senza che ciò implichi vizio di “ultra petita” (art. 112 c.p.c.). Tutto ciò in virtù del fatto che il diritto di comproprietà di un bene si esercita sull’interezza di questo, e non su una sua frazione, l’analogo diritto altrui ne costituisce il limite, che, se viene meno, determina la espansione di quel diritto, ossia la proprietà esclusiva.

M) Differenze Comunione e società

Differenza strutturale

art. 2248 c.c.   comunione a scopo di godimento: la comunione costituita o mantenuta al solo scopo del godimento di una o più cose è regolata dalle norme del Titolo VII del Libro III (1100 e seguenti).

Dottrina e giurisprudenza sono concordi nell’affermare che,

A)    mentre il rapporto di società tende all’esercizio dinamico di un’attività economica speculativa; per la Cassazione[153] l’elemento discriminante tra comunione a scopo di godimento e società è costituito dallo scopo lucrativo perseguito tramite una attività imprenditoriale che si sostituisce al mero godimento ed in funzione della quale vengono utilizzati beni comuni. Nel caso di comunione d’azienda, ove il godimento di essa si realizzi mediante il diretto sfruttamento della medesima da parte dei partecipanti alla comunione, è configurabile l’esercizio di una impresa collettiva (nelle forme della società regolare oppure irregolare o di fatto), non ostandovi l’art. 2248 c.c., che assoggetta alle norme dell’art. 1100 c.c. e seguenti, la comunione costituita o mantenuta al solo scopo di godimento.

B)    il rapporto di comunione si configura come una situazione statica, che mira alla mera conservazione e al godimento in comune di beni.

In altri termini la stessa dottrina ha rilevato che:

A)   nella società il risultato utile per ogni partecipante dipende dalla valorizzazione dei beni, in senso produttivo, ottenuta con l’esercizio; ed è quindi la conseguenza di una particolare attività svolta collettivamente dai soci sui beni stessi. I beni conferiti, prima di tale attività elaboratrice e senza di essa, non sarebbero capaci di dare il risultato utile a i partecipanti.

B)   Nella comunione, invece, il risultato utile dipende e discende dalla produttività naturale della cosa comune, in quanto essa, per la sua destinazione e per la sua natura, è capace di dare immediatamente un risultato utile, la cui funzione, pertanto, può venir conseguita da ogni semplice esercizio del diritto reale che gli compete; il diritto reale, infatti, tra le sue facoltà, comprende l’uti e il frui.

Ulteriore differenza per quanto riguarda la natura giuridica del diritto:

A)   il comunista ha un diritto frazionato sui singoli beni compresi nella comunione e può cedere pertanto, anche la sua quota su uno solo dei beni;

B)   il socio, invece, è titolare della quota sociale nella quale sono riuniti e fusi i beni sociali nel complessivo e indifferenziato patrimonio sociale, sottoposto ad una gestione produttiva.

Differenza di disciplina

A)   nella comunione, mancando l’esercizio in comune, il comunista può cedere ad altri il proprio diritto indipendentemente dal consenso degli altri partecipanti (art. 1103);

B)   mentre ciò, in linea di principio, non è consentito al socio di società personale, perché in essa la cessione della qualità di socio viene considerata una modifica del contratta sociale.

A)   nella comunione ogni partecipante ha diritto alla divisione in natura dei beni esistenti fin dall’inizio (art. 1111);

B)   mentre in sede di liquidazione della società, l’attivo residuo netto viene ripartito di regola in denaro (2282) e, solo se tutti i soci lo consentono, in natura.

La legge mentre manifesta un interesse alla continuazione della società manifesta un interesse contrario. Ciò spiega perché:

1)   il comunista ha sempre diritto alla divisione;

2)   mentre il socio può solo recedere;

3)   per la società può essere stabilita una durata ultradecennale ed è favorita anche tacitamente dalla sua proroga;

4)   mentre la comunione viene considerata una situazione giuridica temporanea, tanto che il patto d’indivisibilità non può avere una durata superiore ai 10 anni e, non è inoltre prevista alcuna proroga.

N) NOTE


[1] Per quanto riguarda il diritto di autore vedi gli artt. 10, 115, 116, 117, L. 22 aprile 1941, n. 633 ed il relativo regolamento di esecuzione approvato con R.D. 18 maggio 1942, n. 1369.

[2] Corte di Cassazione Sezione III civile, sentenza 09 marzo 2006, n. 5112. Nel caso in cui più soggetti, proprietari in via esclusiva di aree tra loro confinanti, si accordino per realizzare una costruzione, per il principio dell’accessione, ciascuno di essi, salvo convenzione contraria, acquista la proprietà esclusiva della parte di edificio che insiste in proiezione verticale sul proprio fondo, con la conseguenza che anche le opere e strutture inscindibilmente poste a servizio dell’intero fabbricato (quali scale, androne, impianto di riscaldamento, ecc.) rientrano per accessione, in tutto o in parte, a seconda della loro collocazione, nella proprietà esclusiva dell’uno o dell’altro, salvo l’istaurarsi sulle medesime, in quanto funzionalmente inscindibili, di una comunione incidentale di uso e di godimento, comportante l’obbligo dei singoli proprietari di contribuire alle relative spese di manutenzione e di esercizio in proporzione dei rispettivi diritti dominicali.

[3] A mente di una sentenza di merito (Tribunale di Treviso Sezione I civile, sentenza 15 marzo 2011, n. 482) l’amministrazione della comunione incidentale, creatasi, nel caso di specie, tra i coeredi a seguito dell’apertura della successione, soggiace alle medesime regole che sovrintendono la comunione ordinaria, in forza delle quali, in particolare, ciascun comunista ha la facoltà di compiere singolarmente gli atti di ordinaria amministrazione, senza necessità di alcuna forma particolare e senza necessità di essere investito da alcun peculiare incarico. Ciascun comunista, invero, gode, salvo prova contraria, di pari poteri gestori atteso che vige, in materia, la presunzione che operi con il consenso di tutti, o almeno della maggioranza, i comunisti. In tal senso, la mera prosecuzione nella gestione di un rapporto locatizio, instaurato dal de cuius, con la relativa percezione dei canoni di locazione ed il pagamento degli oneri condominiali rientra, senz’altro, tra gli atti di ordinaria amministrazione, per il compimento dei quali, quindi, non occorre alcun atto di investitura particolare da parte di tutti i comunisti e che, quindi, può essere legittimamente gestito, autonomamente, solo da alcuni di essi, anche mediante il conferimento dell’incarico di gestione dell’immobile ad un terzo estraneo alla comunione.

[4] Capozzi , I diritti reali,  Branca

[5] Pugliatti – Palazzo

[6] Capozzi , I diritti reali, Ramponi

[7] Fedele – Corte di Cassazione, sentenza 22 dicembre1995, n.13064. Teoria preferibile per Capozzi

[8] Per una maggiore disamina degli istituti aprire il seguente collegamento: Le distanze tra le costruzioni ex artt. 873 e ss. c.c.

[9] Per una maggiore disamina degli istituti aprire il seguente collegamento: L’usufrutto – l’uso – l’abitazione

[10] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 27 luglio 2006, n. 17111. Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 15 aprile 1994, n. 3536. La via agraria e` quella strada privata che i proprietari dei fondi latistanti hanno aperto e mantengono per loro esclusivo uso, cioè per transitarvi secondo le esigenze della coltivazione e dell`industria agricola; essa viene formata mediante conferimento di suolo o di altro apporto dei vari proprietari in guisa da dar luogo ad una comunione, avente le caratteristiche di una “communio incidens“, per la quale il godimento della strada non è “iure servitutis” ma “iure proprietatis“, e, pur avendo, di regola, fondi fronteggianti, non è escluso che possa essere utilizzata, in relazione alla situazione dei fondi ed alla necessità del tracciato, da più fondi in consecuzione, fermo restando, anche in questa ipotesi, il principio che essa possa servire a tutti i proprietari dei fondi in tutte le direzioni, onde ciascuno ne abbia per tutta la sua lunghezza la proprietà “pro indiviso“.

[11] Tribunale di Napoli – Sezione distaccata di Pozzuoli – sentenza 23 marzo 2011 Perché una strada possa rientrare nella categoria delle vie vicinali pubbliche – da non identificarsi con quelle vicinali private formate “ex collatione privatorum agrorum” e quindi di proprietà dei conferenti – devono sussistere: a) il requisito del passaggio, esercitato “juris servitutis publicae”, da una collettività di persone qualificate dall’appartenenza ad un gruppo territoriale; b) la concreta idoneità della strada a soddisfare, anche per il collegamento con la via pubblica, esigenze di generale interesse; c) un titolo valido a sorreggere l’affermazione del diritto di uso pubblico, che può identificarsi nella protrazione dell’uso da tempo immemorabile. In assenza di tale dimostrazione, deve ritenersi che la strada abbia natura di via vicinale agraria di interesse privato e non di interesse pubblico.

[12] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 19 ottobre 1994, n. 8534. Nella specie, la S.C., in applicazione del principio enunciato, ha confermato la sentenza di merito,la quale aveva riconosciuto alla parte la comproprietà della strada, in quanto essa era stata sempre indicata negli atti notarili come una delle “coerenze” degli immobili trasferiti, distinta dai fondi vicini e, quindi, oggetto di passaggio “jure proprietatis” e non “jure servitutis

[13] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 01 marzo 1994, n. 2027. Nella specie è stata confermata la sentenza di merito che in applicazione del riferito principio ha ritenuto illegittimamente eretta una sopraelevazione gravante su una scala comune, pur se il sottoscala risultava dal titolo appartenere esclusivamente al condomino, che l’aveva effettuata.

[14] art. 1336  c.c.  offerta al pubblico: quando contiene gli estremi essenziali del contratto alla cui conclusione è diretta, vale dunque come proposta, salvo che risulti diversamente dalle circostanze o dagli usi.

La revoca dell’offerta se è fatta negli stessa forma della offerta in forma equipollente è efficace anche in confronto di chi non ne ha avuto notizia.

[15] Corte di Cassazione Sezione III civile, sentenza 18 luglio 2008, n. 19929. Ne consegue che il singolo condomino può stipulare il contratto di locazione avente ad oggetto l’immobile in comunione e che ciascun condomino é legittimato ad agire per il rilascio del detto immobile, trattandosi di atto di ordinaria amministrazione per il quale deve presumersi sussistente il consenso già indicato, senza che sia necessaria la partecipazione degli altri e, quindi, l’integrazione del contraddittorio. Conforme Corte di Cassazione Sezione III civile, sentenza 17 luglio 2002, n. 10394. Nelle vicende del rapporto di locazione, l’eventuale pluralità di locatori integra una parte unica, al cui interno i diversi interessi vengono regolati secondo i criteri che presiedono la disciplina della comunione e tale disciplina consente di delegare ad un amministratore la gestione del bene comune e la rappresentanza anche processuale della comunione nei confronti dei terzi; nel qual caso l’amministratore acquisisce il potere di svolgere le medesime attività di amministrazione che spettano per legge ai singoli compartecipanti nell’interesse ed a tutela dei detti beni, compreso il potere di intimare la disdetta del contratto di locazione e di rappresentare la comunione nel relativo giudizio di opposizione.

[16] Vedi par.fo E, pag. 16

[17] Tribunale di Roma Sezione 5 civile, sentenza 11 giugno 2010, n. 13399. Principio espresso dalla Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 22 dicembre 2005, n. 28492. Vedi anche par.fo E, pag. 16

[19] In tal senso in giurisprudenza si veda Cassazione civile, sentenza 1 ottobre 1997 n. 9573.

[20] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 04 giugno 2010, n. 13632. In precedenza la stessa Cassazione in maniera apodittica aveva affermato che il regolamento condominiale convenzionale è un vero e proprio contratto, che trae la sua forza vincolante dalla volontà dei condomini a somiglianza di qualunque altro contratto, e tale sua natura non cambia certamente anche quando abbia per oggetto materia che possa essere disciplinata, secondo le norme sul condominio, a maggioranza, di guisa che, il regolamento convenzionale, sempre che sia legittimo, in quanto le norme di previsione siano derogabili dalla volontà privata, può essere modificato solo da un’altra convenzione da stipularsi con il consenso di tutti i condomini. Corte di Cassazione, sentenza del  3 aprile 1970, n. 882.

[21] Corte di Cassazione, sentenza 25 ottobre 1988, n. 5776.

[22] Corte di Cassazione, sentenza 13 settembre 1991, n. 9591.

[23] Corte di Cassazione, sentenza 14 aprile 1983, n. 2610.

[24] Corte di Cassazione, sentenza 4 marzo 1983, n. 1634.

[25] Corte di Cassazione, sentenza 3 aprile 1970, n. 882. Conforme Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 27 luglio 2006, n. 17094 secondo la quale in merito alla quota, in un giudizio di rivendicazione che riguardi una quota ideale di un bene in comproprietà pro indiviso, non può essere ordinato il rilascio della quota, ma il giudice deve limitarsi alla declaratoria della titolarità da parte del rivendicante della predetta comunione per la quota indicata, atteso che è necessario prima procedere alla concretizzazione della quota in una porzione determinata attraverso la divisione del bene stesso, con la partecipazione necessaria di tutti i comproprietari.

[26] Corte di Cassazione, sentenza 14 dicembre 1992, n. 13179.

[27] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 16 settembre 2003, n. 13553

[28] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 03 febbraio 1994, n. 1125

[29] Corte di cassazione, sezione II sentenza n. 11264 del 20 maggio 2011

[30] Vedi par.fo L, pag. 57

[31] Tribunale di Catania civile, sentenza 03 febbraio 2003

[32]Tribunale di Vicenza Sezione I civile, sentenza 25 ottobre 2010, n. 1751

[33] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 30 maggio 2003, n. 8808

[34] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 21 agosto 2003, n. 12298

[35] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 27 agosto 2002, n. 12569

[36] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 03 dicembre 2010, n. 24647

[37] Tribunale di Catania Sezione III, sentenza 28 febbraio 2002, n. 821

[38] Corte di Cassazione, sentenza 24 gennaio 1985, n. 319

[39] art. 1141 c.c.  mutamento della detenzione in possesso

Si presume il possesso in colui che esercita il potere di fatto, quando non si prova che ha cominciato a esercitarlo semplicemente come detenzione.

Se alcuno ha cominciato ad avere la detenzione, non può acquistare il possesso finché il titolo non venga ad essere mutato per causa proveniente da un terzo o in forza di opposizione da lui fatta contro il possessore. Ciò vale anche per i successori a titolo universale.

[40] art. 1164 c.c.   interversione del possesso

Chi ha il possesso corrispondente all’esercizio di un diritto reale su cosa altrui non può usucapire la proprietà della cosa stessa, se il titolo del suo possesso non è mutato per causa proveniente da un terzo o in forza di opposizione da lui fatta contro il diritto del proprietario. Il tempo necessario per l’usucapione decorre dalla data in cui il titolo del possesso è stato mutato.

[41] Tribunale di Vicenza Sezione I civile, sentenza 25 ottobre 2010, n. 1751. Cass. civ., Sez. II, 11 aprile 2006, n. 8429. Nella specie, è stata ritenuta illegittima la costruzione di un porticato e di un marciapiede con cui un comproprietario, autorizzato verbalmente dagli altri, aveva occupato in modo esclusivo una porzione del cortile comune a vantaggio dell’adiacente immobile di sua proprietà, sottraendola in via definitiva all’utilizzazione degli altri comproprietari; nello stesso senso: Cass. civ., Sez. II, 06 novembre 2008, n. 26737

[42] Tribunale di Milano Sezione XIII civile, sentenza 02 ottobre 2010, n. 11261

[43] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 03 giugno 2003, n. 8830

[44] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 01 agosto 2001, n. 10453

[45] Corte d’Appello di Roma Sezione III civile, sentenza 21 dicembre 2010, n. 5344

[46] Tribunale di Roma Sezione II civile, sentenza 30 settembre 2010, n. 19295

[47] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 22 agosto 2003, n. 12343

[48] Corte di Cassazione 14 gennaio 1977, n. 179.

[49] Per tutte Tribunale Amministrativo Regionale – EMILIA ROMAGNA – Bologna, sentenza 21 maggio2003, n. 268. Cfr. Tar Emilia Romagna, Bologna, Sez. II, sentenza 18 gennaio 1999, n. 13; Tar Toscana, Sez. II, sentenza 28 maggio 1997, n. 347; Tar Trentino, Bolzano, sentenza 7 dicembre 1995, n. 254.

[50] Corte di Cassazione, sentenza 6 aprile 1982, n. 2117. (conf. Cass. 6 settembre 1982, n. 686).

[51] Corte di Cassazione, sentenza 20 marzo 1974, n. 776.

[52] Corte di Cassazione, sentenza 22 aprile 1975, n. 1560.

[53] Corte di Cassazione, sentenza 8 aprile 1982, n. 2175.

[54] Corte di Cassazione, sentenza 4 maggio 1982, n. 2751.

[55] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza  23453 del 16 dicembre 2004.

[56] Corte di Cassazione, sentenza  22 dicembre 2000, n. 16117.

[57] Tribunale di Roma Sezione V civile, sentenza 17 dicembre 2010, n. 24847

[58] Tribunale di Bassano del Grappa civile, sentenza 28 settembre 2010, n. 536. Nell’ambito della comunione, ciascun comproprietario beneficia del diritto di godere della cosa comune anche in modo più intenso di quello che ne fanno gli altri partecipanti purché siffatto utilizzo non alteri o violi, senza il consenso degli altri ed in loro pregiudizio, la destinazione del bene o, comunque, comprometta il diritto dei comproprietari di farne un pari uso. In tal senso, quindi, l’utilizzo del bene in comunione da parte di un comproprietario non deve precludere agli altri di poter usufruire del bene con le medesime modalità con le quali se ne è sempre avvalso, poiché risulta evidente che, in tale caso, si configurerebbe una inammissibile compressione dell’altrui diritto, nocumento ravvisabile anche nel semplice fatto di renderne più difficoltoso l’esercizio. Nel caso di specie il giudicante ha ritenuto, in particolare, condotta illegittima la realizzazione di una recinzione in muratura e di un accesso carraio in corrispondenza del confine tra la proprietà del comproprietario realizzatore e la corte comune che, secondo le emergenze processuali, aveva limitato e modificato il precedente utilizzo della medesima corte.

[59] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 8852 del 10 maggio 2004.

[60] Corte di Cassazione, sentenza 8 luglio 1978, n. 3422.

[61] Corte di Cassazione, sentenza 16 maggio 2000, n. 6341.

[62] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 26737 del 6 novembre 2008.

[63] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 01 aprile 2003, n. 4900

[64] Corte di Cassazione, sentenza 5 luglio 1978, n. 2814.

[65] Corte di Cassazione, sentenza  7 luglio 1976, n. 2543.

[66] Corte di  Cassazione, sentenza n. 10 marzo 1986, n. 1598.

[67] Corte di Cassazione, sentenza 2 agosto 1990, n. 7704.

[68] Corte di Cassazione, Sezione II, sentenza del 21 ottobre 2009, n. 22341

[69] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 30 maggio 2003, n. 8808

[70] Corte di Cassazione, sentenza 25 novembre 1995, n. 12227

[71] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 22 agosto 2003, n. 12343

[72] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 20 agosto 2002, n. 12262

[73] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 21 maggio 2001, n. 6921

[74] Tribunale di Genova Sezione III civile, sentenza 23 settembre 2010, n. 3499

[75] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 26 marzo 2002, n. 4314

[76] Tribunale di Bologna Sezione I civile, sentenza 12 ottobre 2010, n. 2783

[77] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 03 novembre 2010, n. 22423

[78] Vedi par.fo H, pag. 56

[79] Corte di Cassazione, sentenza 13 ottobre 1978, n. 4592.

[80] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 14 giugno 2006, n. 13752

[81] Corte di Cassazione, sentenza 24 aprile 1975, n. 1600

[82] Corte di Cassazione, sentenza 5 ottobre 1992, n. 10895

[83] Inoltre vedi par.fo L, pag. 57

[84] Corte di Cassazione, sentenza 14 marzo 1974, n. 716

[85] Corte di Cassazione, sentenza 13 luglio 1993, n. 7691

[86] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 30 maggio 2002, n. 7914

[87] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 30 luglio 2001, n. 10406

[88] Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 08 aprile 1998, n. 3653

[89] Capozzi, I diritti reali

[90] Corte di Cassazione, sentenza n. 15444 del 2007.

[91] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 11 marzo 2004, n. 4965. Nel fare applicazione del suindicato principio, la S.C., nel rigettare la doglianza della ricorrente concernente la mancata declaratoria da parte del giudice del merito della nullità del negozio, ha ritenuto nel caso corretta la qualificazione da questi operata, in termini di preliminare di vendita di cosa parzialmente altrui a formazione progressiva, del contratto originariamente sottoscritto da una sola delle comproprietarie e recante la dichiarazione, inserita in epoca successiva, di consenso anche dell’altra comproprietaria.

[92] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 08 aprile 2011, n. 8092. Conformi Cass. n. 155 del 2004; Cass. n. 4902 del 1998

[93] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 29 novembre 1996, n. 10629

[94] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 10 marzo 2008, n. 6308. Conforme Corte di Cassazione Sezione II civile, Sentenza 23 febbraio 2007, n. 4227. Nel caso di contratto preliminare di vendita di un bene oggetto di comproprietà indivisa, si presume, salvo che risulti il contrario, che le parti lo abbiano considerato come un “unicum” inscindibile, e che le singole manifestazioni di volontà provenienti da ciascuno dei contraenti siano prive di specifica autonomia e destinate a fondersi in un’unica dichiarazione negoziale, in quanto i promittenti venditori si pongono congiuntamente come un’unica parte contrattuale complessa. Ne consegue che, qualora una di dette manifestazioni manchi o risulti viziata da invalidità originaria, o venga caducata per qualsiasi causa sopravvenuta, si determina una situazione che impedisce non soltanto la prestazione del consenso negoziale della parte complessa, ma anche la possibilità che quella prestazione possa essere sostituita dalla pronuncia giudiziale ai sensi dell’art. 2932 cod. civ., restando escluso che il promissario acquirente possa conseguire la sentenza ai sensi di detta norma nei confronti di quello tra i comproprietari promittenti dei quali esista e persista l’efficacia della relativa manifestazione negoziale.

[95] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 17 maggio 2010, n. 12039.  In senso conforme, vedi, Cassazione civile, Sez. II, sentenza 19 maggio 2004, n. 9458 e Cassazione civile, Sez. II, sentenza 23 febbraio 2007, n. 4227.

[96] Corte di Cassazione Sezione III civile, sentenza 04 giugno 2008, n. 14759

[97] Corte di Cassazione Sezione III civile, sentenza 19 settembre 2001, n. 11806

[98] Tribunale di Reggio Emilia civile, sentenza 10 ottobre 2003, n. 1467

[99] Conformemente al costante orientamento giurisprudenziale in materia (Cass., sentenza 28 settembre 2000, n. 12870), il Tribunale ha affermato che il conduttore di un immobile che sia anche proprietario di una quota pro indiviso della res locata assume la contemporanea condizione di comproprietario-locatario del bene comune. Di conseguenza verrà a disporre dello stesso immobile in parte in virtù del titolo obbligatorio derivativo dagli altri comunisti, costituito dal rapporto di affitto (relativamente alle quote ideali spettanti a questi ultimi), ed in parte in base alla qualità di contitolare del diritto reale (per la quota di sua spettanza). Tale principio, stante l’identità di ratio, appare applicabile anche alla fattispecie in esame in cui il rapporto di affitto è stato costituito in seguito all’acquisto della comproprietà del bene comune per effetto di successione iure hereditario.

[100] Anche opinando diversamente, peraltro, i soggetti che intimarono la disdetta erano sempre titolari di quote corrispondenti alla maggioranza dei condomini ai sensi e per gli effetti del comma 2 di cui all’art. 1105 c. c. Conseguentemente, si legge nella sentenza, deve essere accolta la domanda dei ricorrenti-comproprietari e va pertanto dichiarata la cessazione degli effetti del contratto di affitto del fondo rustico con riferimento alla data di cui alla disdetta.

[101] Corte di Cassazione Sezione III civile, sentenza 23 maggio 2011, n. 11317. Conformi Cass. n. 165 del 2005, 330 del 2001.

[102] Corte di Cassazione Sezione III civile, sentenza 03 settembre 2007, n. 18524

[103] Tribunale di Chieti civile, sentenza 01 settembre 2010, n. 555

[104] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 07 dicembre 2010, n. 24788

Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 20 maggio 2008, n. 12775. Anche in mancanza di un atto formale di interversione del possesso, può essere usucapita la quota di un comproprietario da parte degli altri, sempre che l’esercizio della signoria di fatto sull’intera proprietà comune non sia dovuto alla mera astensione del titolare della quota ma risulti inconciliabile con la possibilità di godimento di quest’ultimo ed evidenzi, al contrario, in modo del tutto univoco, la volontà di possedere “uti dominus” e non “uti condominus“. Nella fattispecie, la Corte ha ritenuto acquistata per usucapione la proprietà di una quota di un edificio in comunione, ricostruito a seguito di perimento totale, da parte dei soli comproprietari che, fin dalla edificazione della nuova costruzione, avevano occupato interamente i tre piani del palazzo, nel totale disinteresse dell’altro comunista. Vedi anche Cassazione civile, Sez. II, sentenza 28 aprile 2006, n. 9903 e Cassazione civile, Sez. II, sentenza 20 agosto 2002, n. 12260. In argomento, negli stessi termini, vedi anche, ex plurimis, cfr., Cassazione civile, Sez. II, sentenza 18 febbraio 1999, n. 1370, Cassazione civile, Sez. II, sentenza 15 giugno 2001, n. 8152, Cassazione civile, Sez. II, sentenza 22 luglio 2003, n. 11419 e Cassazione civile, Sez. II, sentenza 20 settembre 2007, n. 19478, Cassazione civile, Sez. II, sentenza 27 luglio 2009, n. 17462. Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 20 agosto 2002, n. 12260. Il comproprietario può usucapire la quota degli altri comproprietari estendendo la propria signoria di fatto sulla “res communis” in termini di esclusività, ma a tal fine non è sufficiente che gli altri partecipanti si siano limitati ad astenersi dall’uso della cosa, occorrendo, per converso, che il comproprietario in usucapione ne abbia goduto in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui, in modo tale, cioè, da evidenziarne una inequivoca volontà di possedere “uti dominus” e non più “uti condominus“. Qualora, invece (come nella specie) il comproprietario – coerede sia stato, a seguito di amichevole divisione del compendio ereditario, immesso nel possesso di un bene in assenza di un contestuale atto di mandato ad amministrare da parte degli altri coeredi, egli prende, per tale via, a possedere (anche ai fini dell’usucapione) pubblicamente ed a titolo esclusivo il bene assegnatogli “de facto”, senza che sia necessaria una formale interversione del titolo del possesso o un’interversione di fatto, una mutazione, cioè, negli atti di estrinsecazione del possesso medesimo tale da escluderne un pari godimento da parte degli altri coeredi.

[105] Corte di Cassazione sezione II, sentenza 30 giugno 2011 n. 14467

[106] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza n. 16914 del 2 agosto 2011

[107] Corte di Cassazione, sentenza 27 agosto 2002, n. 12568. Ne consegue che vanno considerate alla stregua di spese necessarie al mantenimento della funzionalità delle parti comuni di un edificio destinato ad abitazioni (e vanno, dunque, rimborsate al condomino antistatario) le spese relative non solo alla conservazione degli impianti elettrico, idrico, di riscaldamento e di videocitofono, ma altresì quelle intese al mantenimento della continuità nell’erogazione dei relativi servizi, non essendo più condivisibile un’interpretazione degli artt. 1104 e 1110 c.c. che configuri come godimento, piuttosto che come conservazione della funzione essenziale d’un immobile ad uso abitativo, l’ordinaria erogazione dei servizi in questione, connaturati all’idoneità stessa dell’edificio a svolgere la sua funzione non altrimenti che le sue componenti strutturali.

[108] Corte di Cassazione, sentenza 16 dicembre 1988, n. 6844.

[109] Tribunale di Potenza civile, sentenza 26 febbraio 2009, n. 173. Così, in tema di riscaldamento centralizzato, il condomino che decida di staccare il proprio impianto onde renderlo autonomo può rinunciare unilateralmente al riscaldamento condominiale – sottraendosi così al relativo onere delle spese sia di manutenzione che di godimento per il carburante – solo se dimostri che la propria iniziativa non sia di nocumento agli altri né in termini di squilibri termici né rispetto all’eventuale aggravamento delle spese per coloro che fruiscono dell’impianto. In tale caso il condomino che abbia deciso di staccarsi dall’impianto condominiale (ed abbia fornito le dimostrazioni di cui sopra) non è tenuto a sostenere le spese per il carburante, ai sensi dell’art. 1123 c.c. mentre rimane inderogabilmente obbligato, come detto, a sostenere le spese di conservazione e manutenzione dell’impianto che rimane di proprietà comune.

[110] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 01 agosto 2003, n. 11747. Conforme, Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 27 agosto 2002, n. 12568. In tema di spese relative alle parti comuni di un bene, come l’obbligo di partecipare ad esse incombe su tutti i comunisti in quanto appartenenti alla comunione ed in funzione delle utilità che la cosa comune deve a ciascuno di essi garantire, così il diritto al rimborso “pro quota” delle spese necessarie per consentire l’utilizzazione del bene comune secondo la sua destinazione spetta al partecipante alla comunione che le abbia anticipate per gli altri in forza della previsione dell’art. 1110 cod. civ., le cui prescrizioni debbono ritenersi applicabili, oltre che a quelle per la conservazione, anche alle spese necessarie perché la cosa comune mantenga la sua capacità di fornire l’utilità sua propria secondo la peculiare destinazione impressale. Ne consegue che vanno considerate alla stregua di spese necessarie al mantenimento della funzionalità delle parti comuni di un edificio destinato ad abitazioni (e vanno, dunque, rimborsate al condomino antistatario) le spese relative non solo alla conservazione degli impianti elettrico, idrico, di riscaldamento e di videocitofono, ma altresì quelle intese al mantenimento della continuità nell’erogazione dei relativi servizi, non essendo più condivisibile un’interpretazione degli artt. 1104 e 1110 c.c. che configuri come godimento, piuttosto che come conservazione della funzione essenziale d’un immobile ad uso abitativo, l’ordinaria erogazione dei servizi in questione, connaturati all’idoneità stessa dell’edificio a svolgere la sua funzione non altrimenti che le sue componenti strutturali.

[111] Tribunale di Bari Sezione III civile, sentenza 03 maggio 2007

[112] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 03 dicembre 2010, n. 24654

[113]Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 18 agosto 2005, n. 16975  L’art. 63, comma 2, att. c.c., che limita al biennio precedente all’acquisto l’obbligo del successore nei diritti di un condomino di versare, in solido con il dante causa, i contributi da costui dovuti al condominio, è norma speciale rispetto a quella posta, in tema di comunione in generale, dall’art. 1104 ultimo comma, c.c., che rende il cessionario obbligato, senza alcun limite di tempo, in solido con il cedente, a pagare i contributi dovuti dal cedente e non versati. Pertanto, in tema di contributi condominiali va fatta applicazione dell’art. 63, comma 2, att. c.c. poiché il rinvio operato dall’art. 1139 c.c. alle norme sulla comunione in generale vale, per espressa previsione dello stesso articolo, solo per quanto non sia espressamente previsto dalle norme sul condominio.

art. 63    Riscossione contributi condominiali

Per la riscossione dei contributi in base allo stato di ripartizione approvato dall’assemblea, l’amministratore può ottenere decreto di ingiunzione immediatamente esecutivo , nonostante opposizione. (1)

Chi subentra nei diritti di un condomino è obbligato, solidalmente con questo, al pagamento dei contributi relativi all’anno in corso e a quello precedente.

In caso di mora nel pagamento dei contributi, che si sia protratta per un semestre, l’amministratore, se il regolamento di condominio ne contiene l’autorizzazione, può sospendere al condomino moroso l’utilizzazione dei servizi comuni che sono suscettibili di godimento separato.

—–

(1) E’ manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, del presente comma dell’art. 63, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, nella parte in cui prevede che l’amministrazione del condominio può ottenere decreto di ingiunzione immediatamente esecutivo, nonstante opposizione, per la riscossione dei contributi dovuti dai singoli condomini, in base allo stato di ripartizione approvato dall’assemblea (C. Cost.19.01.1988 n. 40).

[114] Corte di cassazione, sentenze 26 gennaio 2000, n. 857, nonché 17.5.1997, n. 4393

[115] Tribunale di Roma Sezione V civile, sentenza 22 marzo 2011, n. 5911

[116] Corte di Cassazione, sentenza n. 26408/08 e Corte di cassazione, sentenza n. 875 del 3 febbraio 1999. Da ultimo vedi anche Tribunale di Genova, Sezione III civile, sentenza 20 gennaio 2011, n. 276

[117] Corte d’Appello di Milano civile, sentenza 08 gennaio 2007. Nel caso di specie è stato ritenuto congruo – alla luce delle circostanze del caso – un termine di due giorni

[118] art. 66      convocazione dell’assemblea condominiale in via straordinaria

L’assemblea, oltre che annualmente in via ordinaria per le deliberazioni indicate dall’art. 1135 del codice, può essere convocata in via straordinaria dall’amministratore quando questi lo ritiene necessario o quando ne è fatta richiesta da almeno due condomini che rappresentino un sesto del valore dell’edificio. Decorsi inutilmente dieci giorni dalla richiesta, i detti condomini possono provvedere direttamente alla convocazione.

In mancanza dell’amministratore, l’assemblea tanto ordinaria quanto straordinaria può essere convocata a iniziativa di ciascun condomino.

L’ avviso di convocazione deve essere comunicato ai condomini almeno cinque giorni prima della data fissata per l’adunanza.

[119] Corte d’Appello di Firenze Sezione I civile, sentenza 11 giugno 2009, n. 786

[120] Corte di Cassazione, sentenza 27 ottobre 2000, n. 14162.

[121] Corte di Cassazione Sezione III civile, sentenza 04 giugno 2008, n. 14759

[122] art. 374  c.c.    autorizzazione del giudice tutelare: il tutore non può senza l’autorizzazione del giudice tutelare :

1) acquistare beni, eccettuati i mobili necessari per l’uso del minore, per l’economia domestica e per l’amministrazione del patrimonio.

2) riscuotere capitali, consentire alla cancellazione di ipoteche o allo svincolo di pegni, assumere obbligazioni, salvo che queste riguardino le spese necessarie per il mantenimento del minore e per l’ordinaria amministrazione del suo patrimonio;

3) accettare eredità o rinunciarvi, accettare donazioni o legati soggetti a pesi o a condizioni;

4) fare contratti di locazione d’immobili oltre il novennio o che in ogni caso si prolunghino oltre un anno dopo il raggiungimento della maggiore età;

5) promuovere giudizi, salvo che si tratti di denunzie di nuova opera o di danno temuto, di azioni possessorie o di sfratto e di azioni per riscuotere frutti o per ottenere provvedimenti conservativi.

[123] Corte di Cassazione, Sezione VI civile, ordinanza 17 gennaio 2011, n. 880. Inoltre vedi anche Corte di Cassazione, Sez. I, 18 marzo 1997, n. 2399; Sez. II , 29 dicembre 2004, n. 24140; Sez. II, 16 giugno 2005, n. 12881 in tema di amministrazione della cosa comune, i decreti emessi ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 1105 cod. civ. hanno natura di provvedimenti di volontaria giurisdizione che, essendo suscettibili in ogni tempo di revoca e di modificazione, non sono impugnabili con il ricorso di cui all’art. 111 Cost.; peraltro, il ricorso straordinario in cassazione è esperibile qualora la decisione, travalicando i limiti previsti per la sua emanazione, abbia risolto in sede di volontaria giurisdizione una controversia su diritti soggettivi. (Nella specie è stata cassata la decisione che, nell’accogliere in sede di reclamo il ricorso proposto ai sensi dell’art. 1105 ultimo comma cod. civ., aveva autorizzato il condomino a demolire e ricostruire il fabbricato stante l’opposizione dell’altro comproprietario dell’edificio condominiale).

[124] Tribunale di Salerno Sezione I, sentenza 11 maggio 2010. Nella specie, deducendosi dalla ricorrente curatela fallimentare l’interesse a conoscere l’esatta entità dei beni e delle attività del patrimonio comune, a fronte delle incompletezze del rendiconto predisposto dall’amministratore della comunione, il Tribunale ha indicato la percorribilità delle alternative a cognizione piena consistenti nella impugnazione ex art. 1109 c.c. della delibera di approvazione del rendiconto, ovvero nell’esperimento del procedimento di rendiconto di cui agli art. 263 e ss. c.p.c.

[125] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza n. 5889 del 20 aprile 2001.

[126]  Corte di Cassazione, Sez. Unite, sentenza 07 marzo 2005, n. 4806

[127] Tribunale Roma, Sezione V, sentenza 07 aprile 2009

[128] Tribunale  Ascoli Piceno, sentenza 14 ottobre 2008

[129] Corte di Cassazione, Sezione II, sentenza 10 ottobre 2007, n. 21298. Nella specie la Corte confermava l’assunto del giudice di merito secondo cui la formula “presentazione degli elaborati” relativi al progetto di risanamento e ristrutturazione del condominio non potesse che comprendere anche il riferimento alla decisione circa l’approvazione o meno degli stessi.

[130] Corte di Cassazione, Sezione I, sentenza 27 giugno 2006, n. 14814

[131] Corte di Cassazione, Sez. II, sentenza 30 luglio 2004, n. 14560. Nell’enunciare il principio di cui in massima, la S.C. confermava la sentenza impugnata, la quale aveva escluso che la delibera adottata dall’assemblea, che impegnava il condominio per l’esecuzione di opere definitive per un ammontare pari a oltre 247 milioni di lire, potesse oggettivamente riconnettersi ad un ordine del giorno che indicava come oggetto di discussione l’esecuzione di diverse e specifiche opere provvisionali urgenti, per un importo inferiore a 10 milioni di lire, ovvero, in alternativa, di opere più rilevanti, ma per un importo di 55 milioni di lire. Principio ripreso da un’ultima pronuncia della medesima Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 19 ottobre 2010, n. 21449 secondo cui in tema di deliberazioni dell’assemblea condominiale, ai fini della validità dell’ordine del giorno occorre che esso elenchi specificamente, sia pure in modo non analitico e minuzioso, tutti gli argomenti da trattare, sì da consentire a ciascun condomino di comprenderne esattamente il tenore e l’importanza, e di poter ponderatamente valutare l’atteggiamento da tenere, in relazione sia alla opportunità o meno di partecipare, sia alle eventuali obiezioni o suggerimenti da sottoporre ai partecipanti. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto che autorizzazione all’amministratore ad aprire un nuovo conto corrente, una volta saldato quello precedente in passivo, e di procedere ad uno sconfinamento, in quanto connessa e logicamente consequenziale ai punti dell’ordine del giorno relativi alla nomina del nuovo amministratore ed all’avvio della nuova gestione condominiale, con l’approvazione del rendiconto relativo alle annualità pregresse, non richiedesse una indicazione analitica e separata dalla questione).

[132] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 10 febbraio 2010, n. 2999 In senso conforme, vedi, Cassazione civile, Sez. II, sentenza 27 marzo 2000, n. 3634. Negli stessi termini, confronta anche, Cassazione civile, Sez. II, sentenza 22 luglio 2004, n. 13763 e Cassazione civile, Sez. II, 10 luglio 2007, n. 21298.

[133] Tribunale di Roma Sezione V civile, sentenza 07 aprile 2009, n. 7649

[134] Corte di Cassazione, sentenza 08 luglio 1981, n. 4480

[135] Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza del 14 aprile 2011, n. 8491

[136] Cass. 16 febbraio 1988 n. 1662, 30 luglio 2004 n. 14560, 11 aprile 2006 n. 8440, 27 luglio 2006 n. 17101, 28 maggio 2008 n. 14007

[137] tra le altre, Corte di Cassazione, sentenza 19 marzo 2010 n. 6714

[138] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 27 giugno 2007, n. 14826

[139] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 11 luglio 2006, n. 15684

[140] Tribunale di Cagliari civile, sentenza 14 febbraio 2007, n. 449, Tribunale di Roma Sezione III civile, sentenza 29 novembre 1996

[141] Corte di Cassazione, sentenza 14 febbraio 1980, n. 1111.

[142] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 29 marzo 1994, n. 3083

[143] Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza 31 gennaio 2006, n. 2046

[144] Corte di Cassazione, Sezione II, sentenza 26 marzo 2001, n. 4364

[145] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 25 maggio 2006, n. 12397

[146] Tribunale di Trento civile, sentenza 08 febbraio 2010, n. 151. Corte di Cassazione Sezione II civile
Sentenza 06 ottobre 2005, n. 19460. Il diritto di ciascun condomino ha per oggetto la cosa comune intesa nella sua interezza, pur se entro i limiti dei concorrenti diritti altrui, con la conseguenza che egli può legittimamente proporre le azioni reali a difesa della proprietà comune senza che si renda necessaria la integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri condomini. (Nella specie, la S.C.. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto non doversi procedere all’integrazione del contraddittorio, avendo alcuni dei condomini agito nei confronti di altri per far accertare la proprietà condominiale del sottotetto sovrastante gli appartamenti siti all’ultimo piano dello stabile, illegittimamente occupato dai proprietari di questi, che assumevano di averne la proprietà esclusiva). Ne consegue, inoltre, sempre per la medesima Corte Corte di Cassazione Sezione III civile, Sentenza 02 agosto 2004, n. 14772 che in tema di cessazione, recesso o risoluzione di contratti aventi ad oggetto l’utilizzazione economica dell’immobile oggetto di comunione (nella specie, affitto di fondo rustico), vige il principio della concorrenza dei pari poteri gestori in tutti i comproprietari, in forza del quale ciascuno di essi è legittimato ad agire, anche in giudizio – e senza che sia all’uopo necessaria una autorizzazione degli altri compartecipi, contro chi pretenda di avere un diritto di godimento sul bene, sulla base della comunanza di interessi tra tutti i partecipanti alla comunione e della conseguente presunzione di un loro consenso all’iniziativa volta alla tutela di detti interessi, salvo che si deduca e si dimostri, a superamento di tale presunzione, il dissenso della maggioranza dei partecipanti stessi. (In applicazione del principio di cui sopra, la S.C ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto idonea a provocare la cessazione del contratto la disdetta inviata da uno solo dei due comproprietari, ancorchè questi non avesse espressamente dichiarato di agire anche in nome e per conto dell’altro ed essendo irrilevanti le diverse disposizioni relative all’esercizio del diritto di ripresa ex art. 42 legge 203 del 1982).

[147] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 09 agosto 2010, n. 18485. In tema, in senso conforme, ex plurimis, vedi, Cassazione civile, Sez. II, ordinanza 7 settembre 2009, n. 19329, Cassazione civile, Sez. II, sentenza 7 aprile 2000, n. 4345 e Cassazione civile, Sez. II, sentenza 10 maggio 1996, n. 4388.

[148] Corte di Cassazione Sezione III civile, sentenza 13 gennaio 2009, n. 480 Conforme Cass. 19 aprile 1991, n. 4261

[149] Corte di Cassazione Sezione III civile, sentenza 22 maggio 1997, n. 4568. Conforme Corte di Cassazione, III sezione, sentenza 3 luglio 1989, n. 3174.

[150] Corte di Cassazione Sezione 2 civile, sentenza 23.02.1999, n. 1505. Confronta Sentenza 22 dicembre 1995, n. 13064 sez II Civile,  Sentenza 26 ottobre 1992, n. 11626 sez II Civile,  Sentenza 28 agosto 1998, n. 8546 sez II, Sentenza 16 luglio 1994, n. 6699 sez II Civile.

[151] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 07 marzo 2003, n. 3435

[152] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 22 maggio 1997, n. 4571

[153] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 06 febbraio 2009, n. 3028. Come rileva nella pronuncia in esame la stessa Suprema Corte, la massima esprime un principio consolidato in seno alla giurisprudenza di legittimità: sotto tale profilo, vedi in particolare, Cassazione civile, Sez. L, sentenza 21 febbraio 1984, n. 1251 e Cassazione civile, Sez. L, sentenza 27 novembre 1999, n. 13291 le quali hanno ribadito il principio affermando espressamente che nel caso di comunione incidentale di azienda, ove il godimento di questa si realizzi mediante il diretto sfruttamento della medesima da parte di uno o più partecipanti alla comunione, è configurabile l’esercizio di un’impresa individuale o collettiva (nella forma della società regolare oppure della società irregolare di fatto), non ostandovi l’art. 2248 c.c., che assoggetta alle norme degli artt. 1100 e ss. dello stesso codice la comunione costituita o mantenuta al solo scopo di godimento. Citata anche nella decisione esaminata, vedi anche Cassazione civile, Sez. I, sentenza 10 novembre 1992, n. 12087, per la quale nel caso di comproprietà di un’azienda alberghiera, lo sfruttamento di essa direttamente da parte dei comproprietari (i quali non si limitano a darla in affitto a terzi ed a goderne la rendita) dà luogo ad un’attività necessariamente imprenditoriale e, quindi, alla costituzione di società.

Avv. Renato D’Isa

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