L’avvocato stabilito e la mancata specificazione della giurisdizione ovvero l’organizzazione di iscrizione presso lo Stato membro in cui è abilitato all’esercizio della professione

Corte di Cassazione, civile, Sentenza|19 gennaio 2024| n. 2068.

L’avvocato stabilito e la mancata specificazione della giurisdizione ovvero l’organizzazione di iscrizione presso lo Stato membro in cui è abilitato all’esercizio della professione

L’avvocato stabilito è tenuto, nell’esercizio della sua professione, a far uso in modo comprensibile e senza destare dubbio del titolo di origine in modo da non creare confusione con il titolo di “avvocato”, utilizzando in via chiarificatrice il titolo di avvocato stabilito specificando la giurisdizione ovvero l’organizzazione di iscrizione presso lo Stato membro in cui è abilitato all’esercizio della professione. La mancata specificazione durante lo svolgimento dell’attività professionale costituisce una grave violazione dei principi professionali e lo svolgimento della professione in modo ingannevole.

Sentenza|19 gennaio 2024| n. 2068. L’avvocato stabilito e la mancata specificazione della giurisdizione ovvero l’organizzazione di iscrizione presso lo Stato membro in cui è abilitato all’esercizio della professione

Data udienza 26 settembre 2023

Integrale

Tag/parola chiave: Avvocati – Procedimento disciplinare – Sospensione – Avvocato stabilito che non specifica la propria qualità – Artt. 9 e 36, comma 1, Cdf – Art. 7, commi 1 e 2, D.Lgs. n. 96/2001

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Primo Presidente f.f. –

Dott. DE MASI Oronzo – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – Rel.-Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. MANCINO Rosanna – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente
SENTENZA

sul ricorso 7430 – 2023 proposto da:

Ba.Ma., rappresentato e difeso da sé medesimo unitamente all’avvocato MA.SA.;

– ricorrente –

contro

CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI MILANO, PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE;

– intimati –

avverso la sentenza n. 18/2023 del CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE, depositata il 28/02/2023.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/09/2023 dal Consigliere ALDO CARRATO;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale FRANCESCO SALZANO, che ha concluso per l’inammissibilità del primo motivo del ricorso ed il rigetto degli altri.

L’avvocato stabilito e la mancata specificazione della giurisdizione ovvero l’organizzazione di iscrizione presso lo Stato membro in cui è abilitato all’esercizio della professione

RITENUTO IN FATTO

1. Il Consiglio Distrettuale di disciplina di Bologna, decidendo su tre distinti procedimenti disciplinari (conseguenti alla presentazione di due esposti) instaurati a carico dell’Avv. Ba.Ma. – rubricati ai nn. 313/2018, 314/2018 e 316/2018 – dava atto che gli appena indicati procedimenti nn. 313/2018 e 314/2018 erano stati definiti dal competente CDD di Milano, con pronuncia del 29.03.2019, sanzionando i relativi addebiti commessi tra il 2015 e il 2016, mentre, con riguardo agli altri illeciti disciplinari specificamente riferiti al procedimento n. 316/2018, per i quali si riteneva competente (essendo state le relative condotte commesse il 6 giugno 2017 nel corso di un giudizio svoltosi dinanzi al Tribunale di Rimini), ne ravvisava la sussistenza e, nell’affermarne la responsabilità dell’incolpato, irrogava a carico dello stesso la sanzione disciplinare della sospensione di due mesi dalla professione. In particolare, nei confronti del citato professionista (con riferimento all’indicato procedimento iscritto al n. 316/2018) erano stati contestati i seguenti capi di incolpazione:

a) il primo, per aver, in violazione dell’art. 9 C.D.F. (con particolare riguardo ai doveri di probità, dignità e decoro) e dell’art. 36, comma 1, dello stesso C.D.F. (anche in relazione all’art. 7, commi 1 e 2, del D.Lgs. n. 96/2001), partecipato all’udienza del 6 giugno 2017 (relativa al giudizio iscritto al n. R.G. 5949/2015), dinanzi al Tribunale di Rimini, omettendo di esplicitare la propria qualità di avvocato stabilito e l’iscrizione presso l’organizzazione professionale o la giurisdizione presso la quale era stato ammesso a patrocinare in Spagna;

b) il secondo, per aver, in violazione dell’art. 9 C.D.F. (con particolare riguardo ai doveri di probità, dignità e decoro) e dell’art. 36, comma 1, dello stesso C.D.F. (anche in relazione all’art. 8 del D.Lgs. n. 96/200), partecipato alla stessa udienza (e con riferimento alla medesima causa) dinanzi al Tribunale di Rimini, in sostituzione di altro avvocato, in assenza di scrittura privata autenticata o dichiarazione resa da entrambi gli avvocati, dalle quali risultasse l’intesa prevista dal citato art. 8 del D.Lgs. n. 96/2001.

2. Il C.N.F., adito a seguito di impugnazione avverso la decisione del citato C.D.D. di Bologna, la respingeva con sentenza adottata il 20.10.2022 (depositata il 28 febbraio 2023, con attribuzione del n. 18/23). Con quest’ultima, il C.N.F., disattesi preliminarmente alcuni rilievi formali e ritenuta corretta la pronuncia di incompetenza con riguardo ai procedimenti rubricati ai nn. 313/2018 e 314/2018, confermava l’impugnata decisione – relativa al procedimento n. 316/2018 – quanto alla ravvisata configurazione degli illeciti disciplinari poc’anzi riportati, dando atto che essi si erano venuti a consumare successivamente a quelli posti a fondamento degli altri due procedimenti innanzi indicati (sui quali aveva giudicato il CDD di Milano), ovvero in occasione dell’udienza del 6 giugno 2017 tenutasi avanti al Tribunale di Rimini (nel mentre gli altri due avevano riguardato condotte poste in essere nel periodo 2.11.2015 – 8.02.2016). Con riferimento al motivo di impugnazione di merito secondo cui la violazione dell’art. 36 del C.D.F. si sarebbe dovuta considerare frutto di un equivoco relativo all’uso dell’abbreviazione del titolo in assoluta buona fede ed in via del tutto saltuaria ed occasione, il C.N.F. osservava che la lettura del verbale non lasciava adito a dubbi sulla circostanza che l’allora Ba.Ma. avesse utilizzato indebitamente il titolo di avvocato (senza alcuna ulteriore e necessaria specificazione), rilevando, altresì, che aveva colto nel segno la decisione del CDD di Bologna anche nel porre in rilievo la circostanza che, pur volendo considerare un eventuale errore di annotazione da parte del verbalizzante, avrebbe dovuto essere cura dello stesso Ba.Ma., avvedutosi dell’errore, chiedere una correzione del medesimo. 3. L’Avv. Ba.Ma. ha proposto ricorso per cassazione, avverso la suddetta sentenza del C.N.F., affidandolo a quattro motivi.

Nessuna delle parti intimate ha svolto attività difensiva in questa sede.

Il ricorrente ha anche depositato memoria difensiva.

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CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con il primo motivo, il ricorrente ha denunciato – ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c. – la violazione dell’art. 112 c.p.c., sul presupposto che, con l’impugnata sentenza, il C.N.F. ha deliberato in relazione alle condotte a lui addebitate dal C.D.D. di Bologna di cui al procedimento iscritto al n. 316/2018, ma senza che le relative contestazioni fossero state indicate nei capi di incolpazione di cui all’atto di citazione, riferentisi, invece, a quelli posti a fondamento degli altri due procedimenti rubricati ai nn. 313 e 314 del 2018, in relazione ai quali era stata dichiarata l’incompetenza a favore del CDD di Milano.

2. Con la seconda censura, il ricorrente ha dedotto la violazione dell’art. 51, comma 2, della legge n. 247/2012, prospettando l’applicabilità, nella specie, del principio del “ne bis in idem”, non avendo il C.N.F. tenuto conto che l’oggetto delle complessive condotte disciplinari aveva riguardato gli stessi fatti (riferibili agli artt. 9 e 36 del codice deontologico forense) riferibili al medesimo periodo.

3. Con la terza doglianza, il ricorrente ha lamentato la violazione degli artt. 24 e 111 Cost., ovvero del principio del contraddittorio, con riguardo ai procedimenti rubricati ai nn. R.G. 313/2018 e 314/2018, radicati dal C.D.D. di Bologna, poi ritenutosi incompetente, senza provvedere all’audizione di esso ricorrente nel corso dello svolgimento degli stessi procedimenti.

4. Con il quarto ed ultimo motivo, il ricorrente ha denunciato – per quanto si rileva testualmente dalla rubrica – la violazione dell’art. 36 del codice deontologico forense avuto riguardo ai citati procedimenti nn. 313/2018 e 314/2018, definiti con dichiarazione di incompetenza.

Tuttavia, nello svolgimento della censura, lo stesso ricorrente pone riferimento alla contestazione – nel merito – della ravvisata sussistenza dell’addebito disciplinare riferito al procedimento n. 316/2018, sanzionato con la sospensione di due mesi dall’esercizio della professione forense, consistito nell’utilizzazione indebita del titolo di avvocato nel corso della suddetta udienza celebratasi dinanzi al Tribunale di Rimini. Al riguardo deduce che l’impugnata sentenza sarebbe viziata da eccesso di potere, in quanto, da una parte, il C.N.F. ha individuato nelle dizioni abbreviate di avvocato, presenti soltanto negli atti allegati all’esposto dall’avv. Andrea Bulgarelli, l’incolpazione di aver “utilizzato indebitamente il titolo di avvocato”, anche considerando “l’errore di annotazione da parte del verbalizzante”, di cui lo stesso C.N.F. ha sostenuto che esso ricorrente avrebbe dovuto chiedere

(all’operatore giuridico) una correzione del medesimo, mentre, dall’altro lato, nonostante che lo stesso ricorrente si fosse qualificato come avvocato stabilito, riguardo alle stesse dizioni abbreviate di avvocato, disposte da altri operatori giuridici, presenti in altri atti indicati nel ricorso introduttivo davanti all’organismo istituzionale dell’avvocatura, quest’ultimo non aveva sollevato alcuna censura nei confronti dei medesimi operatori giuridici.

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Secondo il ricorrente, l’eccesso di potere sarebbe da ricondurre: 1) alla mancata valutazione della situazione concreta su cui la norma deontologica viene ad incidere: 2) alla scorretta rappresentazione della stessa situazione per come in realtà realizzatasi; 3) all’insussistenza di un percorso logico – motivazionale del processo valutativo al fine di rendere il provvedimento disciplinare adottato coerente con l’art. 36 del codice deontologico e con le circostanze in concreto venute a verificarsi.

5. Il primo motivo non è fondato perché, pur avendo il C.N.F. dato atto nella sentenza oggetto di ricorso della circostanza della parziale trascrizione nel corpo della decisione della C.D.D. di Bologna dei capi di incolpazione a carico del ricorrente (risultando in essa indicato solo quello riferito al procedimento n. 313/2018), tale vizio formale non ha comportato il mancato rispetto del principio del contraddittorio e del diritto di difesa del ricorrente, avendo quest’ultimo avuto, in concreto, consapevolezza anche della contestazione della condotta di cui al procedimento iscritto al n. 316/2018 e controdedotto sulla stessa con apposita memoria difensiva.

6. Anche il secondo motivo è privo di fondamento poiché il C.N.F. ha accertato l’insussistenza della contestualità temporale nella consumazione degli illeciti disciplinari ascritti al ricorrente, avendo constatato che – al di là dell’identità delle condotte – quella riferita al procedimento n. 316/2018 era stata posta in essere nel giugno 2017, nel mentre le precedenti risalivano ad un periodo compreso tra il 2 novembre 2015 e l’8 febbraio 2016, da cui l’inesistenza delle condizioni per la configurabilità della violazione del principio del “ne bis in idem”.

7. Il terzo motivo è pur esso infondato, poiché il vizio ricondotto alla mancata audizione del ricorrente con riguardo ai procedimenti nn. 313 e 314 del 2018 attiene alla parte dell’impugnata sentenza con cui è stata confermata la statuizione di incompetenza dandosi atto della definizione dei citati procedimenti nn. 313 e 314 del 2018 da parte del CDD di Milano, ragion per cui tale vizio avrebbe dovuto essere fatto valere dinanzi al menzionato CDD di Milano dichiarato competente e non ha, quindi, alcuna inerenza rispetto al procedimento disciplinare n. 316/2018 svoltosi dinanzi al CDD di Bologna (in ordine alla cui pronuncia ha deciso il CNF con la sentenza qui impugnata), nel quale, oltretutto, non risulta configuratasi alcuna violazione del diritto di difesa del ricorrente.

In altri termini, la dichiarazione di incompetenza territoriale, lungi dal precludere la difesa nel merito, ha assicurato lo svolgimento dei procedimenti disciplinari nn. 313/2018 e 314/2018 davanti al giudice naturale precostituito per legge, dinanzi al quale il professionista ricorrente ha avuto modo di contestare le incolpazioni oggetto di detti procedimenti, riferibili alle condotte tenute tra il mese di novembre 2015 e quello di febbraio 2016, nei giudizi disciplinari svoltisi dinanzi al CDD di Milano.

8. Neppure il quarto ed ultimo motivo è fondato.

Va osservato che, invero, non è contestata dal ricorrente la circostanza dell’utilizzo del termine avvocato – senza alcuna altra specificazione – per qualificarsi nel corso della suddetta udienza celebratasi dinanzi al Tribunale di Rimini, ragion per cui non può mettersi in discussione la consumazione della violazione circa l’uso indebito di tale titolo di avvocato, con l’utilizzazione, quindi, dello stesso in modo ingannevole.

Del resto, a tal proposito, occorre rilevare che il testo combinato dei primi due commi dell’art. 7 del D.Lgs. n. 96/2001 (recante “Attuazione della direttiva 98/5/CE volta a facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquisita la qualifica professionale”) e inequivoco nel prevedere, in via principale, che nell’esercizio della professione l’avvocato stabilito e tenuto a fare uso del titolo professionale di origine (indicato per intero nella lingua o in una delle lingue ufficiali dello Stato membro di origine), in modo comprensibile e tale da evitare confusione con il titolo di avvocato, specificandosi, in via rafforzativa, che all’indicazione del titolo professionale l’avvocato stabilito è tenuto ad aggiungere l’iscrizione presso l’organizzazione professionale ovvero la denominazione della giurisdizione presso la quale è ammesso a patrocinare nello Stato membro di origine.

Inoltre, il successivo art. 8 del citato D.Lgs. n. 96/2001, altrettanto univocamente, stabilisce che nell’esercizio delle attività relative alla rappresentanza, assistenza e difesa nei giudizi civili nei quali è necessaria la nomina di un difensore, l’avvocato stabilito deve agire di intesa con un professionista abilitato ad esercitare la professione con il titolo di avvocato, il quale assicura i rapporti con l’autorità adita o procedente e nei confronti della medesima e responsabile dell’osservanza dei doveri imposti dalle norme vigenti ai difensori; si aggiunge che, a tal fine, tale intesa deve risultare da scrittura privata autenticata o da dichiarazione resa da entrambi gli avvocati al giudice adito (obbligo, questo, rimasto anch’esso pacificamente non assolto nel caso di specie), anteriormente alla costituzione della parte rappresentata ovvero al primo atto di difesa dell’assistito. E’, pertanto, indubbio l’accertamento – da parte del CNF – dell’avvenuta consumazione, da parte del ricorrente, delle condotte ponentisi in contrasto con le prescrizioni artt. 7 e 8 del D.Lgs. n. 96/2001, in modo tale da legittimare la configurazione degli addebiti disciplinari ascrittigli ricondotti alla violazione degli artt. 9 e 36, comma 1, del C.D.F. Ciò assodato, va rilevato che – nello sviluppo ulteriore della censura – il ricorrente, a fronte di un incontestabile accertamento circa la mancata necessaria esplicitazione del suo effettivo titolo di avvocato stabilito nel verbale di udienza, costituente la ragione fondante della decisione del CNF, appunta la sua critica avverso questa pronuncia nella parte in cui si osserva che “pur volendo considerare un eventuale errore di annotazione da parte del verbalizzante, avrebbe dovuto essere cura di Ba.Ma., avvedutosi dell’errore, di chiedere una correzione del medesimo”. Senonché, il ricorrente ha mancato di rilevare che nell’impianto della motivazione della sentenza qui impugnata tale passaggio costituisce un argomento utilizzato a sostegno dell’affermazione dell’insussistenza della sua buona fede che, laddove fosse stata presente, soprattutto a seguito della contestazione disciplinare di condotte della stessa tipologia da parte del CDD di Milano (relative ad illeciti precedentemente commessi), sarebbe stata dimostrata dalla richiesta di correzione dell’errore, invece mai presentata. Questo argomento e, quindi, soltanto corroborativo dell’accertamento incontestato e, comunque, oggettivamente rilevato sul piano documentale dell’omessa esplicitazione, da parte del ricorrente, della sua qualità di avvocato stabilito, condotta, in quanto tale ed in difetto di qualsiasi esimente, idonea a configurare le violazioni addebitategli nei capi di incolpazione precedentemente riportati.

9. In definitiva, il ricorso va integralmente rigettato.

Non vi è luogo a provvedere sulle spese non avendo alcuna parte intimata svolto attività difensiva in questa sede.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.

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P.Q.M.

La Corte, a Sezioni unite, rigetta il ricorso. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.

Così deciso in Roma il 26 settembre 2023.

Depositato in Cancelleria il 19 gennaio 2024.

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