Il giudice di rinvio è vincolato al principio di diritto affermato

Corte di Cassazione, civile, Sentenza|2 febbraio 2024| n. 3150.

Il giudice di rinvio è vincolato al principio di diritto affermato

Il giudice di rinvio è vincolato al principio di diritto affermato dalla Corte di cassazione in relazione ai punti decisivi non congruamente valutati dalla sentenza cassata e, se non può rimetterne in discussione il carattere di decisività, conserva il potere di procedere ad una nuova valutazione dei fatti già acquisiti e di quegli altri la cui acquisizione si renda necessaria in relazione alle direttive espresse dalla sentenza di annullamento. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione che, in sede di giudizio di rinvio in tema di divisione ereditaria, non aveva verificato se per tutti gli eredi fosse stato provato l’effettivo possesso dei beni per i fini di cui all’art. 485 c.c. limitandosi a ritenere provata tale circostanza in forza della mera cassazione della precedente sentenza della Corte d’Appello, sebbene la decisione della S.C. avesse solamente emendato l’errore di diritto in cui era incorso il giudice di merito rimanendo impregiudicato l’accertamento dell’effettiva ricorrenza della condizione prevista dalla norma).

 

Sentenza|2 febbraio 2024| n. 3150. Il giudice di rinvio è vincolato al principio di diritto affermato

Data udienza 26 gennaio 2024

Integrale

Tag/parola chiave: Impugnazioni civili – Cassazione (ricorso per) – Giudizio di rinvio – Giudice di rinvio – Poteri – In genere giudizio di rinvio – Poteri del giudice del rinvio – Punti decisivi e non congruamente valutati dalla sentenza cassata – Nuova valutazione – Esame di fatti nuovi – Ammissibilità – Fattispecie – Successioni – Divisione beni ereditari – Accettazione eredità – Prescrizione del diritto – Accettazione tacita.

REPUBBLICA ITALIANA

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ORILIA Lorenzo – Presidente

Dott. CAVALLINO Linalisa – Consigliere

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere

Dott. CRISCUOLO Mauro – Rel. Consigliere

Dott. ROLFI Federico Vincenzo Amedeo – Consigliere

ha pronunciato la seguente
SENTENZA

sul ricorso 27582-2017 proposto da:

Sc.Ul., Sc.Cr., Sc.An., elettivamente domiciliati in ROMA (…), presso lo studio dell’avvocato Ro.Po., che li rappresenta e difende, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

Sc.Su., elettivamente domiciliata in ROMA al VIALE (…), presso lo studio dell’avvocato Pa.Sc. e Ca.Le.; che la rappresentano e difendono, unitamente all’avvocato Ob.Sc., giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

nonché contro

Pe.Va., Pe.Sa., Pe.Pa., Pa.Si., Pe.Fr., Ba.Be., Ba.Ra., Ba.Ma., Sc.Ni., Pe.Mo.;

– intimati –

avverso la sentenza non definitiva n. 2300/2015 e la sentenza definitiva n. 4285/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositate rispettivamente il 16 marzo 2015 ed il 28 giugno 2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 15/11/2023 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

Udite le conclusioni del PUBBLICO MINISTERO, nella persona della Sostituta Procuratrice Generale, dott.ssa ROSA MARIA DELL’ERBA, che ha il rigetto del ricorso;

Udito l’avvocato Ro.Po. per i ricorrenti e l’avvocato Pa.Sc. per la controricorrente;

Lette le memorie delle parti e le successive osservazioni;

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RAGIONI IN FATTO

1. Con citazione del 3 dicembre 1990, Sc.An. conveniva in giudizio, innanzi al Tribunale di Frosinone, i germani Sc.Se., Sc.Ma., Sc.Gi., Sc.Re., Sc.Do. e Sc.Ni. e chiedeva la divisione delle eredità dei loro genitori, Sc.Ul. e Ro.Ma., deceduti ab intestato il (Omissis), il primo, ed il (Omissis), la seconda. Si costituiva soltanto Sc.Do. e dichiarava di non opporsi alla domanda di divisione, eccependo però nei confronti dell’attore e delle convenute Sc.Ma., Sc.Gi., Sc.Re. e Sc.Ni. la prescrizione del diritto di accettare l’eredità paterna. Nel corso del processo, spiegava intervento volontario Sc.Ul., che a sua volta eccepiva la prescrizione del diritto dell’attore, concludendo per il rigetto della domanda.

Con sentenza non definitiva del 18 giugno 1999 n. 512, in esito a consulenza tecnica d’ufficio, il Tribunale di Frosinone estrometteva dal giudizio l’interventore volontario; dichiarava aperta in data (Omissis) la successione di Sc.Ul.; dichiarava che l’eredità del medesimo, costituita da un terreno con sovrastante casa per civile abitazione, si era devoluta per 7/21 a favore della moglie Ro.Ma. e per i restanti 14/21, in parti uguali, a favore dei figli Sc.Se. e Sc.Do., essendosi prescritto per gli altri eredi il diritto di accettare l’eredità; dichiarava aperta in data 27 luglio 1989 la successione di Ro.Ma.; dichiarava che l’eredità della medesima, costituita dalla titolarità della quota di 7/21 dell’eredità del marito, si era devoluta a favore di tutti i figli, in ragione di 1/7 ciascuno; dichiarava, quindi, che la partecipazione di Sc.Se. e Sc.Do. alla comunione ereditaria, così individuata, era in misura di 8/21 ciascuno, mentre quella degli altri germani era in misura di 1/21 ciascuno.

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Con separata ordinanza era disposta la prosecuzione del processo.

Avverso la sentenza proponevano immediato appello Sc.An., in via principale, e Sc.Do., in via incidentale.

Sc.Se., Sc.Gi., Sc.Re. e Sc.Ni. si costituivano tardivamente, proponendo a loro volta appello incidentale, mentre Sc.Ma. rimaneva contumace.

Con sentenza del 23 maggio 2002 n. 2012, la Corte d’appello di Roma rigettava i gravami e compensava le spese del grado.

Rilevava in particolare, in risposta alle critiche sollevate dall’appellante Sc.An. con riguardo all’accertata prescrizione del diritto di accettare l’eredità paterna: a) che il predetto non era legittimato a chiedere la riforma della decisione del primo giudice con riguardo alle statuizioni relative alle sorelle Sc.Ma., Sc.Gi., Sc.Re. e Sc.Ni.; b) che alcuna confessione di fatti sfavorevoli a Sc.Do. era ravvisabile nell’istanza diretta alla direzione generale del catasto, redatta a suo nome e non anche da lui sottoscritta; c) che la denuncia di successione, atto non implicante la volontà di accettare l’eredità, era stata redatta e sottoscritta solo da Ro.Ma.; d) che il possesso esclusivo di una camera e di un bagno della casa paterna, dichiarato da Sc.An. in sede di interrogatorio libero, non era indice della volontà di accettare l’eredità, ai sensi dell’art. 476 c.c. e, in ogni caso, non aveva rilievo, ai sensi dell’art. 485 c.c.; e) che, aderendo alla domanda di divisione, Sc.Se. e Sc.Do., contro il cui diritto d’accettare l’eredità non era stata sollevata eccezione, avevano realizzato un’accettazione tacita della stessa eredità; g) che la diversità delle situazioni, riferite alle parti con riguardo alla qualità di eredi dei genitori, conseguiva non già all’adozione di criteri diversi, bensì al dato obiettivo del decorso del tempo previsto per la prescrizione del diritto di accettarne l’eredità.

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Per la cassazione di tale sentenza, Sc.An. ha proposto ricorso in forza di cinque motivi.

Questa Corte con la sentenza n. 4223 del 23 febbraio 2007 ha accolto il ricorso, cassando con rinvio la sentenza di appello.

Nelle more il Tribunale di Frosinone con la sentenza definitiva n. 887/2005 disponeva la divisione dei beni conformemente a quanto statuito nella prima sentenza non definitiva.

La sentenza era fatta oggetto di appello da Sc.Do. che concludeva per la sua riforma chiedendo il riconoscimento delle somme dovute a titolo di miglioramenti, accrescimenti ed addizioni. Si costitutiva Sc.Su. quale erede di Sc.An. che in via incidentale lamentava l’erroneità della sentenza che aveva diviso secondo le quote oggetto della pronuncia poi annullata dalla Corte di Cassazione.

Sc.Su. si costituiva in giudizio anche quale erede della defunta Sc.Se..

Nel frattempo, era riassunto dinanzi alla Corte d’Appello di Roma il giudizio di rinvio, giudizio, poi coltivato da Sc.Ul., Sc.Cr. ed Sc.An. (meglio definito Sc.An. jr. per distinguerlo dall’omonimo zio), che concludevano per il rigetto del gravame.

Riuniti i giudizi, si costituiva ex art. 111 c.p.c. Sc.An. jr. in proprio e quale erede del padre deceduto, evidenziando che nelle more del giudizio i fratelli Ulderico e Sc.Cr. avevano donato in suo favore le quote di loro spettanza sull’eredità paterna e che analoga donazione avevano fatto anche le zie Sc.Ma. e Sc.Ni., con il riconoscimento che sul fabbricato caduto in successione erano state eseguite opere di miglioria e di ampliamento a cura e spese del defunto padre Sc.Do..

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Con sentenza non definitiva n. 2300 del 13 aprile 2015, la Corte distrettuale dichiarava che i beni dell’eredità paterna si erano devoluti per la quota di 3/9 in favore della moglie e per i restanti 6/9 in favore dei figli Sc.An., Sc.Do. e Sc.Se.; che l’eredità di Ro.Ma. si era devoluta in pari quota in favore dei sette figli, e rimetteva la causa in istruttoria per le operazioni divisionali.

La sentenza ricordava che la Corte di Cassazione aveva reputato fondate le censure di Sc.An., e che la relativa decisione, avente carattere definitivo e vincolante, imponeva di ritenere accertato che Sc.An. avesse il possesso dei beni ereditari e che, quindi, allo scadere del termine per la redazione dell’inventario ex art. 485 c.c., era divenuto a sua volta erede del padre, essendo perciò infondata l’eccezione di prescrizione. Viceversa, per le sorelle Sc.Ma., Sc.Ni., Sc.Gi. e Sc.Re. restava definitivamente accertata la prescrizione del diritto di accettare l’eredità paterna.

In virtù di tale statuizione risultava quindi travolta la sentenza definitiva del Tribunale, che non aveva incluso anche Sc.An. tra gli eredi del padre, e si imponeva quindi la predisposizione di un nuovo progetto di divisione, conforme alle quote spettanti ai coeredi.

All’esito dell’istruttoria la stessa Corte d’Appello, con la sentenza definitiva n. 4285 del 28 giugno 2017, dopo aver dato atto della necessità di dover predisporre una quota spettante a Sc.Se., impregiudicata l’individuazione di chi ne fosse effettivamente erede (trattandosi di controversia separatamente proposta), rigettava la richiesta di Sc.Do. di riconoscimento di un’indennità per le migliorie apportate al bene, in assenza di un’inequivoca prova dei lavori eseguiti e della relativa spesa.

Aggiungeva che alcun’utilità rivestivano sia la prova testimoniale raccolta sia le dichiarazioni, non aventi carattere confessorio, rese dalle sorelle dell’appellante.

Inoltre, poiché si trattava di opere realizzate in assenza di concessione edilizia, era dubbia la stessa configurabilità della loro qualificazione in termini di migliorie.

Andava poi rigettato anche il motivo di appello concernente le spese, che erano state correttamente regolate in base al principio della soccombenza.

Quanto all’appello incidentale, dopo aver dato atto della necessità di dover diversamente determinare le quote, a seguito della pronuncia della Corte di Cassazione, di cui aveva preso atto la sentenza non definitiva, la sentenza reputava meritevole di condivisione il progetto di divisione redatto dal CTU Ga., dovendosi escludere la possibilità di attribuzione dell’intero in favore di Sc.An. jr.

Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto ricorso Sc.Ul., Sc.Cr. e Sc.An., tutti quali eredi di Sc.Do., ed il terzo quale erede di Sc.Se. e quale successore a titolo particolare dei primi due ricorrenti nonché di Sc.Ma. e Sc.Ni., sulla base di tre motivi, illustrati da memorie.

Sc.Su. ha resistito con controricorso a sua volta illustrato da memorie.

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Pe.Va., Pe.Sa., Pe.Pa., Pa.Si., Pe.Fr., Ba.Ra., Ba.Ga., Sc.Ni. e Pe.Mo. non hanno svolto difese in questa fase.

Il Pubblico Ministero ha depositato conclusioni scritte in vista dell’udienza del 22 novembre 2022.

Con ordinanza interlocutoria n. 6125 del 1 marzo 2023, la Corte, all’esito dell’udienza del 22 novembre 2022, ha rinviato la causa a nuovo ruolo, ordinando l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli eredi di Ba.Be., deceduto nelle more del giudizio, Ba.Ra. e Ba.Ma..

A tanto ha adempiuto parte ricorrente, e la causa è stata nuovamente chiamata all’udienza del 15 novembre 2023.

Con ordinanza resa in udienza la Corte, in applicazione dell’art. 384 terzo comma c.p.c., ha sottoposto alle parti le questioni rilevate d’ufficio circa l’eventuale nullità della donazione effettuata da Sc.Ul. e Sc.Cr. in favore del fratello Sc.An., e circa l’anteriorità delle migliorie di cui chiedeva il rimborso Sc.Do. rispetto alla data del decesso del comune dante causa, assegnando alle parti il termine per il deposito di osservazioni.

All’esito del deposito di tali osservazioni, scaduto il termine assegnato, la Corte si è convocata per deliberare.

RAGIONI IN DIRITTO DELA DECISIONE

1. Preliminarmente deve essere disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dalla controricorrente per l’omessa esposizione dei fatti di causa, che invece si rinviene compiuta in maniera ampiamente soddisfacente e conforme alle prescrizioni del codice di rito.

Va del pari disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso quanto alla sua proposizione da parte di Sc.Ul. e Sc.Cr., eccezione che parte controricorrente argomenta per il fatto che questi avrebbero donato le loro quote al fratello Sc.An. jr., occorrendo a tal fine rilevare che la donazione è avvenuta solo in corso di giudizio, allorché già si era aperta la successione del comune dante causa, trovando quindi applicazione il dettato dell’art. 111 c.p.c., che, in assenza di un formale provvedimento di estromissione, dispone che debbano continuare a partecipare al processo anche i danti causa, nonostante l’avvenuto intervento dell’avente causa.

Tuttavia, la stessa difesa dei ricorrenti nel replicare a siffatta eccezione, nella memoria depositata in prossimità dell’udienza, ha precisato che la donazione ha avuto ad oggetto solo la quota dell’immobile caduto in successione, mentre non vi era alcuna menzione del diritto di credito per le migliorie di cui parimenti si controverte nel presente giudizio.

Come si evince dall’esposizione della questione rilevata di ufficio dalla Corte, sulla quale le parti sono state invitate ad interloquire, e come peraltro riconosciuto dalla stessa difesa dei ricorrenti nelle osservazioni a tal fine depositate, poiché la donazione non ha avuto ad oggetto l’intera quota ereditaria, ma solo alcune sue specifiche componenti ed in particolare la quota vantata sui soli immobili, ricorre una fattispecie che rientra nell’ambito di applicazione di Cass. S.U. n. 5068/2016, il che induce ad affermare la nullità dell’atto di liberalità, posto che la donazione del coerede avente ad oggetto la quota di un bene indiviso compreso nella massa ereditaria è nulla, atteso che, prima della divisione, quello specifico bene non fa parte del patrimonio del coerede donante, e non essendo stato allegato che nell’atto di donazione fosse precisato che i donanti erano consapevoli dell’altruità della cosa (onde far valere la donazione come donazione obbligatoria di dare).

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Tale conclusione è poi destinata ad avere effetti anche sullo scioglimento della comunione, in quanto la sentenza impugnata ha assegnato l’intera quota di pertinenza del defunto Sc.Do. ad Sc.An. jr., sul presupposto dell’efficacia della donazione, che però – come si è visto – è affetta da nullità, il che comporta che alla divisione hanno ancora diritto di prendere parte i germani donanti, dovendo la quota essere assegnata agli stessi congiuntamente, i quali sono pertanto ancora legittimati ad impugnare in proprio, la sentenza de qua.

1.1 Va del pari disattesa l’eccezione di inammissibilità per il mancato deposito degli atti di accettazione dell’eredità paterna da parte dei ricorrenti, nonché dell’eredità della zia Sc.Se. da parte di Sc.An. jr., occorrendo far riferimento al principio per cui la proposizione di una domanda, o la sua coltivazione con la presentazione del ricorso, avente ad oggetto diritti successori costituisce atto di accettazione tacita dell’eredità (Cass. n. 1628/1985).

Quanto poi alla prova del decesso dei danti causa dei ricorrenti, trattasi di circostanze che risultano essere state appurate dalla stessa sentenza definitiva impugnata che, proprio in relazione alla posizione di Sc.Se., ha escluso che vi fosse la necessità di dover sospendere il giudizio in attesa della definizione della diversa controversia destinata ad accertare chi ne fosse erede, prevedendo semplicemente la predisposizione di una quota, alla stessa formalmente assegnata, ma destinata ad essere attribuita a colui che ne fosse alla fine stato riconosciuto come erede.

2. Passando adesso all’esame dei motivi di ricorso, osserva la Corte che il primo di essi denuncia la violazione degli artt. 384 e 394 c.p.c. e dei principi stabiliti in tema di poteri del giudice di rinvio in caso di cassazione della sentenza per violazione di norme di diritto.

Assume parte ricorrente che la sentenza non definitiva della Corte d’Appello avrebbe erroneamente tratto dalla sentenza di questa Corte n. 4233/2007, che aveva disposto la cassazione con rinvio della precedente sentenza della Corte d’Appello, la conclusione che fosse stato dimostrato il possesso dei beni ereditari da parte di Sc.An., e che quindi fosse intervenuto l’acquisto ex lege dell’eredità in base al meccanismo dettato dall’art. 485 c.c.

In realtà – si rileva – la pronuncia del giudice di legittimità si era semplicemente limitata ad ipotizzare questa circostanza, trattandosi di fatto che non era mai stato provato nei precedenti gradi di merito, e che quindi era necessario accertare in sede di rinvio, onde poter invocare l’acquisto ai sensi della norma citata.

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Il motivo è fondato.

Come si ricava dalla narrazione dei fatti di causa, puntualmente operata in ricorso, il Tribunale di Frosinone, con la sentenza non definitiva n. 512/1999, aveva accolto l’eccezione di prescrizione del diritto di accertare l’eredità paterna spettante a Sc.An., ritenendo che questi non avesse offerto la prova di essere nel possesso dei beni ereditari, avendo fatto riferimento solo ad una presenza settimanale (come riferito in sede di interrogatorio libero).

La Corte d’Appello con la pronuncia n. 2012 del 2002 aveva confermato la sentenza di primo grado, richiamando appunto quanto riferito in sede di interrogatorio libero (possesso esclusivo di una camera da letto e di un bagno), aggiungendo però che il possesso, potendo essere mantenuto a fini conservativi, non rientrava tra le ipotesi di accettazione tacita ex art. 476 c.c., aggiungendo a mo’ di chiosa che la circostanza dedotta si palesava del tutto irrilevante.

2.1 La sentenza è stata impugnata dinanzi a questa Corte che, con la citata sentenza n. 4223/2007, ha accolto il ricorso, sulla base della seguente motivazione:

“… Denunciando omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, nonché violazione e falsa applicazione dell’art. 485 c.c., il ricorso espone cinque censure contro la decisione della Corte di merito, nella parte in cui ha escluso che il ricorrente avesse posto in essere un’accettazione tacita dell’eredità paterna, in epoca anteriore alla maturazione del termine di prescrizione del diritto di accettarla: 1) la prima, per aver ritenuto irrilevante l’istanza alla direzione generale del catasto, volta alla intestazione dei beni dell’eredità paterna, che Sc.Do. aveva reso anche in nome e per conto degli altri eredi; 2) la seconda, per aver omesso l’esame sia dell’accordo di divisione stragiudiziale del 31 ottobre 1989 sia delle intestazioni catastali, allegate alla c.t.u.; 3) la terza, per aver ritenuto che possa prescriversi per il chiamato, nel possesso di beni ereditari ed inadempiente all’obbligo di fare l’inventario, il diritto di accettare l’eredità; 4) la quarta, per avere ritenuto che solo alcuni dei chiamati avessero accettato l’eredità paterna e che nei confronti di Sc.Do. non fosse stata sollevata l’eccezione di prescrizione del diritto di accettare l’eredità; 5) la quinta, per avere omesso di valutare sia il sopraindicato accordo di divisione stragiudiziale sia il possesso di parte dei beni ereditari in capo ad esso ricorrente sia la mancata redazione dell’inventario sia la voltura catastale dei beni caduti nella successione.

Le censure svolte, da esaminarsi congiuntamente per evidenti ragioni di connessione, sono fondate, nei termini di seguito esposti, ed il ricorso va accolto, per quanto di ragione.

Come questa Corte ha chiarito, l’indagine sulla esistenza di un comportamento qualificabile in termini di accettazione tacita dell’eredità ex art. 476 c.c. va condotta dal giudice di merito, tenendo conto degli elementi caratterizzanti ogni singola fattispecie, e si sostanzia in un accertamento di fatto, non censurabile in sede di legittimità, purché motivato congruamente, senza errori di logica o di diritto (v. ex plurimis da Cass. n. 1906/77 a Cass. n. 2663/99 e n. 12753/99).

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Nella specie, la Corte di merito, condividendo la decisione del primo giudice, ha escluso che gli elementi indicati dal ricorrente, allora appellante (principale), fossero rilevanti allo scopo, al fine appunto di un’accettazione tacita dell’eredità paterna, e tale decisione ha argomentato nei termini innanzi riassunti, in narrativa, nella convinzione espressa che il possesso di beni ereditari, affermato dal ricorrente in sede di interrogatorio libero, non avesse rilievo, ai sensi dell’art. 485 c.c. dal momento che “… la materiale detenzione dei beni ereditari da parte di tutti i chiamati fa presumere il possesso in tutti e tanto comporta che, ove nel termine di legge non venga iniziato l’inventario, tutti perdono il diritto di accettare con il beneficio di cui all’art. 485.

Però, posto che il possesso non vale accettazione, ciascun chiamato conserva la facoltà di rinunzia, può ancora accettare, ma solo semplicemente, e resta esposto alla prescrizione del diritto di accettare…

Tale convinzione, coinvolgente nel suo complesso l’indagine sulla controversa esistenza di una accettazione tacita dell’eredità paterna ad opera del ricorrente e caratterizzata in particolare dal prospettato possesso di parte dei beni ereditari in capo al medesimo, contrasta con la disposizione dell’art. 476 c.c. in relazione a quella del successivo art. 485 c.c.. Se è vero, infatti, come è vero, che il possesso di parte dei beni ereditari non presuppone necessariamente la volontà del chiamato di accettare la eredità, ai sensi dell’art. 476 c.c. potendo concretizzarsi in atti meramente conservativi di vigilanza e di amministrazione temporanea, rientranti nei poteri propri del chiamato (art. 460 c.c., v. ex plurimis da Cass. n. 4639/78 a Cass. n. 178/96 e n. 12753/99), vero è, altresì, che il possesso di beni ereditari da parte del chiamato all’eredità e l’inutile decorso del termine previsto per il compimento dell’inventario fanno acquistare ipso iure la qualità di erede puro e semplice, indipendentemente da una manifestazione di volontà, espressa o tacita, di accettare l’eredità (v. ex plurimis da Cass. n. 2324/67 a Cass. n. 4707/94, n. 7076/95 e n. 2911/1998), con la conseguenza che in tali ipotesi, per principio logico di compatibilità, non è prospettabile la prescrizione del diritto di accettare l’eredità.

In particolare, secondo il consolidato e dal collegio condiviso orientamento della Suprema Corte, diversamente da quanto mostra di ritenere la Corte di merito, la disposizione dell’art. 485 c.c. non si applica unicamente all’ipotesi particolare dell’accettazione con beneficio d’inventario, ma contempla un caso di accettazione ope legis dell’eredità per tutti i chiamati in possesso di beni ereditari, che non compiano l’inventario nel termine previsto allo scopo, come appunto chiarito dall’ultima parte della stessa disposizione, laddove è previsto che “compiuto l’inventario, il chiamato che non abbia ancora fatto la dichiarazione a norma dell’art. 484 ha un termine di quaranta giorni da quello del compimento dell’inventario medesimo per deliberare se accetta o rinuncia all’eredità. Trascorso questo termine senza che abbia deliberato, è considerato erede puro e semplice.”

La decisione della Corte di merito, dunque, in parte qua, per la ragione esposta, decisiva ed assorbente, non resiste alle censure formulate in ricorso.

Ne consegue la cassazione della sentenza impugnata ed il rinvio della causa per un nuovo esame, che va svolto con applicazione del principio innanzi enunciato.”

2.2 Vanno qui richiamati i principi espressi da questa Corte, secondo cui i limiti dei poteri attribuiti al giudice di rinvio sono diversi a seconda che la sentenza di annullamento abbia accolto il ricorso per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ovvero per vizi di motivazione in ordine a punti decisivi della controversia, ovvero per l’una e per l’altra ragione: nella prima ipotesi, il giudice di rinvio è tenuto soltanto ad uniformarsi, ai sensi dell’art. 384, comma 1, c.p.c., al principio di diritto enunciato dalla sentenza di cassazione, senza possibilità di modificare l’accertamento e la valutazione dei fatti acquisiti al processo; nella seconda ipotesi, il giudice non solo può valutare liberamente i fatti già accertati, ma può anche indagare su altri fatti, ai fini di un apprezzamento complessivo in relazione alla pronuncia da emettere in sostituzione di quella cassata, tenendo conto, peraltro, delle preclusioni e decadenze già verificatesi; nella terza ipotesi, la “potestas iudicandi” del giudice di rinvio, oltre ad estrinsecarsi nell’applicazione del principio di diritto, può comportare la valutazione “ex novo” dei fatti già acquisiti, nonché la valutazione di altri fatti, la cui acquisizione sia consentita in base alle direttive impartite dalla Corte di cassazione e sempre nel rispetto delle preclusioni e decadenze pregresse (cfr. da ultimo Cass. n. 17240/2023; Cass. n. 448/2020).

Il giudice di rinvio è vincolato al principio di diritto affermato

Nella specie, la sentenza di appello è stata cassata, sia sulla base del riscontro di un vizio motivazionale (quanto al mancato esame di una circostanza dedotta come asseritamente decisiva, costituita dal possesso dei beni ereditari), sia per una violazione di legge, in ragione dell’affermazione del giudice di appello, secondo cui, una volta esclusa la possibilità di configurare nel possesso dei beni ereditari un’accettazione tacita ex art. 476 c.c., l’affermato possesso era circostanza del tutto irrilevante.

Al giudice di rinvio è stato quindi richiesto un nuovo esame della controversia, verificando in particolare se, effettivamente risultante il possesso dei beni caduti in successione da parte del ricorrente, fosse o meno maturata la fattispecie di acquisto ex lege ex art. 485 c.c., valutazione questa che era stata del tutto pretermessa dalla sentenza d’appello sul presupposto dell’irrilevanza della detenzione dei beni per un periodo di tempo eccedente il termine posto dall’art. 485 c.c.

A fronte della circostanza che il Tribunale aveva effettivamente affermato che fosse mancata la prova del possesso, e del contenuto della sentenza di appello, che aveva invece del tutto svalutato tale elemento, l’affermazione in punto di diritto della sentenza della Cassazione n. 4223/2007 non consente di inferire nei termini assiomatici invece presenti nella sentenza non definitiva qui gravata che fosse stato anche provato che Sc.An. fosse stato nel possesso dei beni ereditari, avendo questa Corte corretto l’errore di diritto commesso dal giudice di appello, e sollecitato il giudice di rinvio ad applicare la fattispecie normativa nella sua corretta esegesi, previo nuovo esame dei fatti di causa, impregiudicato però l’accertamento dell’effettiva ricorrenza della condizione posta dalla norma.

Risulta, quindi, corretto il richiamo della difesa dei ricorrenti al principio affermato da questa Corte secondo cui il giudice di rinvio è vincolato al principio di diritto affermato dalla Corte di cassazione in relazione ai punti decisivi non congruamente valutati dalla sentenza cassata, sicché esso – se non può rimetterne in discussione il carattere di decisività – conserva, invece, il potere di procedere ad una nuova valutazione dei fatti già acquisiti e di quegli altri la cui acquisizione si renda necessaria in relazione alle direttive espresse dalla sentenza di annullamento. Ne consegue che, anche a seguito di annullamento con rinvio, onde dare applicazione al principio di diritto affermato dalla cassazione, il giudice di rinvio deve esaminare tutte le circostanze risultanti dagli atti ritualmente acquisiti al fascicolo procedimentale, dando così rilievo ad elementi di fatto ulteriori rispetto a quelli indicati nella sentenza di annullamento come astrattamente idonei a connotare il fatto (Cass. S.U. n. 17779/2013; Cass. n. 26949/2020).

Infatti, la pronuncia di Cassazione per error in iudicando, con enunciazione del principio di diritto cui il giudice di rinvio deve uniformarsi, non vincola il giudice medesimo in ordine alle circostanze che siano meramente ipotizzate, in via narrativa, da detta enunciazione, atteso che una preclusione al riesame si verifica solo con riguardo ai fatti che quel principio presupponga come pacifici o già accertati in sede di merito (Cass. n. 2660 del 1989), e ciò in quanto il giudice di rinvio è vincolato al principio di diritto affermato, ma, in relazione ai punti decisivi e non congruamente valutati della sentenza cassata, se non può rimetterne in discussione il carattere di decisività, ha il potere di procedere ad una nuova valutazione dei fatti già acquisiti e di quegli altri la cui acquisizione si renda necessaria in relazione alle direttive espresse dalla sentenza della Corte di Cassazione, la cui portata vincolante è limitata all’enunciazione della corretta interpretazione della norma di legge, e non si estende alla sussunzione della norma stessa della fattispecie concreta, essendo tale fase del procedimento logico compresa nell’ambito del libero riesame affidato alla nuova autorità giurisdizionale (Cass. n. 9690 del 2003; Cass. n. 18087 del 2007).

Come sopra evidenziato, l’esercizio del possesso dei beni ereditari da parte dell’allora ricorrente era stato da questi affermato, anche in sede di interrogatorio libero, ma mancava in sede di merito un accertamento effettivo circa la sua ricorrenza, avendo la Corte di Cassazione affermato il principio di diritto, rimarcando l’errore della Corte d’Appello nell’avere qualificato, alla luce del disposto dell’art. 485 c.c., come irrilevante siffatto esercizio.

Il giudice di rinvio è vincolato al principio di diritto affermato

Una volta, quindi, enunciato il principio di diritto cui doveva conformarsi il giudice di rinvio, questi restava però del tutto libero di verificare se la circostanza reputata decisiva fosse stata effettivamente provata, senza quindi arrestarsi, anche in relazione alle richieste di prova formulate dall’attore in replica all’eccezione di prescrizione del convenuto, al fallace giudizio di irrilevanza che aveva sorretto la decisione cassata.

La sentenza n 2300/2015 della Corte d’Appello deve pertanto essere cassata in relazione al motivo accolto, dovendo il giudice di rinvio procedere, attenendosi ai principi affermati nella sentenza di questa Corte n. 4223/2007, ad un nuovo esame, previo effettivo riscontro del possesso dei beni ereditari da parte di Sc.An..

3. Il secondo motivo di ricorso denuncia l’omesso esame di accertamenti decisivi contenuti nelle CTU svolte nel corso del giudizio e relativi all’effettività e consistenza dei lavori di ampliamento e delle migliorie realizzate dal convenuto Sc.Do., con violazione altresì dell’art. 101 c.p.c., per avere deciso la causa sulla base di una questione rilevata di ufficio mai sottoposta al contraddittorio delle parti.

La Corte d’Appello, nella sentenza definitiva, ha rigettato la domanda di rimborso delle spese sostenute per le migliorie dei beni comuni, con conferma della sentenza di primo grado.

Ha ritenuto che non fosse stata fornita inequivoca dimostrazione dell’entità dei lavori svolti e della relativa spesa, in quanto reputate non concludenti le dichiarazioni del teste Be., che aveva solo riferito della ristrutturazione del bene, restando però imprecisata l’effettiva consistenza dei lavori e delle somme ricevute dal teste come corrispettivo.

Ha, poi, aggiunto che le dichiarazioni rese dalle sorelle del convenuto all’udienza dell’8 novembre 1990 non avevano valore confessorio e che del pari si palesava generico il quadro offerto dal carteggio relativo all’ampliamento dell’immobile.

Infine, ha precisato che, in relazione alle opere realizzate senza valido titolo autorizzativo, poteva dubitarsi che fosse possibile attribuire alle stesse la qualifica di miglioramenti suscettibili di far sorgere un diritto di credito in favore del condividente autore.

La censura deduce che però non sono state valutate le risultanze delle CTU esperite in corso di causa che confermano che il fabbricato è stato ampliato a cura e spese del dante causa dei ricorrenti nel 1964-65, essendo stato quantificato il costo di tali opere a quella data.

Ne consegue che la sentenza definitiva ha omesso di considerare tali elementi che andavano valutati unitariamente alle dichiarazioni di Sc.Ni. e Sc.Gi., così come anche la deposizione del teste Be. deve reputarsi univoca al riguardo.

Quanto invece all’affermazione secondo cui le migliorie sarebbero state realizzate in violazione delle prescrizioni urbanistiche, si assume che tale affermazione sia conseguenza di un rilievo d’ufficio del giudice e che sarebbe stato necessario sollecitare il contraddittorio delle parti (che, ove avvenuto, avrebbe permesso di documentare che le opere erano state tutte condonate).

Il motivo deve però essere disatteso, alla luce dell’altra questione rilevata d’ufficio da questa Corte e sulla quale le parti sono state del pari invitate a formulare osservazioni.

La domanda relativa al pagamento dell’indennità è stata avanzata in un giudizio di divisione e si fonda sulla pretesa di un condividente – che assume di avere eseguito delle migliorie del bene comune – di ricevere un’indennità per le somme impiegate a tal fine.

Tuttavia, come riferito in più occasioni in ricorso le opere sarebbero state eseguite tra il 1964 ed il 1965, laddove la successione paterna si è aperta solo nel 1976. Ne deriva che le opere sono state eseguite allorché era ancora in vita il proprietario.

La stessa difesa dei ricorrenti nelle osservazioni all’uopo proposte non ha contestato la collocazione cronologica delle opere di cui si sollecita il rimborso.

Ne consegue che la fattispecie, piuttosto che essere inquadrabile nel novero delle azioni spettanti al condividente nei confronti degli altri comunisti per le migliorie apportate al bene comune, domanda che risulta effettivamente avanzata dal dante causa dei ricorrenti, appare piuttosto sussumibile nella diversa previsione di cui all’art. 936 c.c., circostanza questa che incide anche sul fatto che si tratta, ove sussistente, di un diritto di credito maturato nei confronti del de cuius e costituente una passività ereditaria, e non già un credito spettante per vicende successive all’apertura della successione.

In questo senso si veda Cass. ord. n. 23514/2023 che ha rigettato un analogo motivo di ricorso, fondato sulla pretesa di ricevere un’indennità per migliorie in relazione ad interventi eseguiti prima dell’apertura della successione, osservando: “La censura della ricorrente, senza peraltro nemmeno specificamente indicare da quali specifici atti processuali dovrebbe ricavarsi la non contestazione dei fatti costitutivi della propria pretesa, non soddisfacendo quindi le condizioni che la giurisprudenza di questa Corte richiede per denunciare la violazione della relativa norma (cfr. Cass. n. 12840/2017), assume genericamente che la prova della fondatezza della propria domanda si ricaverebbe da non meglio individuate diverse fonti di prova, senza tuttavia confrontarsi con la ratio della decisione gravata, la quale ha escluso il diritto della ricorrente al rimborso delle spese quale utile gestore degli altri comunisti, non solo in quanto non sarebbe stata offerta la puntuale dimostrazione degli esborsi sostenuti, ma rilevando che proprio l’anteriorità del mutuo (il cui importo, a detta della ricorrente, sarebbe stato destinato alle migliorie del bene oggetto di causa) rispetto alla data di apertura della successione, anche a voler accedere alla ricostruzione della parte, non dimostrerebbe che le migliorie siano state eseguite allorché era già insorta la comunione, essendo quindi esclusa la possibilità di fondare la pretesa sulla disciplina dettata dalla comunione, trovando al più giustificazione nella diversa pretesa, non dedotta però in giudizio, dell’esistenza di un credito nei confronti del de cuius, per avere sostenuto, quando questi era ancora in vita, degli esborsi a vantaggio del bene quando era ancora in proprietà esclusiva del padre”.

Trattandosi di un diritto di credito diverso da quello fatto valere, essendo diversa la causa petendi, e dovendosi altresì escludere che possa ravvisarsi un giudicato interno, stante il rigetto della domanda nel precedente grado, che pone la Corte nella possibilità di poter autonomamente valutare la fondatezza della pretesa, il motivo deve essere rigettato previa correzione della motivazione, stante anche l’inconferenza delle prove sollecitate dai ricorrenti, a fondamento della domanda in concreto avanzata.

In ogni caso, e per completezza della motivazione, anche a voler accedere alla prospettazione di parte ricorrente il motivo è infondato in quanto mira esclusivamente a sollecitare un diverso apprezzamento delle prove.

La valutazione del fatto decisivo, costituito dall’esecuzione delle opere di miglioria, non risulta omessa, ma la critica investe l’apprezzamento delle prove da parte del giudice di appello, secondo cui quelle raccolte non avevano una connotazione di specificità tale da consentire di affermare che fosse stata offerta, non tanto la prova dell’esecuzione degli interventi, ma specificamente la dimostrazione di quali fossero stati effettivamente compiuti a cura e spese del convenuto (e ciò anche in ragione del fatto che all’epoca il bene era ancora appartenente al padre) e quale somma fosse stata effettivamente impiegata.

La censura attinge, quindi, un accertamento di fatto compiuto con motivazione nel complesso adeguata da parte del giudice di merito, il che impone che il motivo è da disattendere.

Tale valutazione consente anche di ritenere assorbita la censura che investe la pretesa violazione dell’art. 101 c.p.c., essendo quella censurata una ratio aggiuntiva, volta solo a rafforzare quella primaria costituita dall’assenza di prova specifica sul quantum (e ciò anche a voler sorvolare sul fatto che ratione temporis non è applicabile il dettato del novellato art. 101 c.p.c.).

4. Il terzo motivo di ricorso – che denuncia la nullità della sentenza impugnata per omessa motivazione, in rapporto agli artt. 132, co. 2, n. 4, c.p.c., 118, disp. att., c.p.c. e 111, co. 6, Cost., in relazione all’adesione apodittica della Corte d’Appello al progetto di divisione redatto dal CTU geom. Ga. in sede di appello, omettendo di spiegare le ragioni di siffatta adesione, in rapporto alle diverse conclusioni cui era pervenuto il CTU nominato in primo grado, quanto al giudizio di non divisibilità del compendio – resta logicamente assorbito per effetto dell’accoglimento del primo motivo.

Infatti, poiché per effetto della cassazione della sentenza non definitiva, viene nuovamente rimessa in discussione la consistenza delle quote vantate dai condividenti, e quindi la correttezza della soluzione divisionale fondata sulle quote scaturenti dal contenuto della sentenza non definitiva ora cassata, laddove all’esito del rinvio fosse invece appurata la prescrizione del diritto di accettare l’eredità paterna da parte di Sc.An., ciò si rifletterebbe anche sulla consistenza delle quote e di riflesso anche sulla fattibilità di una divisione in natura.

5. Il giudice di rinvio che si designa nella Corte d’Appello di Roma, in diversa composizione, provvederà anche sulle spese del presente giudizio.

Il giudice di rinvio è vincolato al principio di diritto affermato

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso nei limiti di cui in motivazione, rigetta il secondo e dichiara assorbito il terzo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Corte d’Appello di Roma, in diversa composizione che provvederà anche sulle spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Seconda Sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, all’esito della convocazione in data in data 26 gennaio 2024.

Depositato in Cancelleria il 2 febbraio 2024.

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