La responsabilità del datore di lavoro che assume alle proprie dipendenze uno straniero privo del permesso di soggiorno

Corte di Cassazione, sezione prima penale, Sentenza 16 giugno 2020, n. 18300.

Massima estrapolata:

La responsabilità del datore di lavoro che assume alle proprie dipendenze uno straniero privo del permesso di soggiorno non è esclusa dalla buona fede invocata per aver preso visione della richiesta di permesso di soggiorno avanzata dallo straniero.

Sentenza 16 giugno 2020, n. 18300

Data udienza 14 febbraio 2020

Tag – parola chiave: Violazione delle norme sull’immigrazione – Straniero privo del permesso di soggiorno – Datore di lavoro – Occupazione alle dipendenze di ditta – Illegittimità – Reato ex art. 22 co 12 T.U. imm

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TARDIO Angela – Presidente

Dott. FIORDALISI Domenico – rel. Consigliere

Dott. BINENTI Roberto – Consigliere

Dott. SANTALUCIA Giuseppe – Consigliere

Dott. APRILE Stefano – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 15/09/2017 della CORTE APPELLO di ROMA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere DOMENICO FIORDALISI;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore COCOMELLO ASSUNTA;
Il P.G. conclude chiedendo l’inammissibilita’ del ricorso.
L’avv. (OMISSIS) conclude chiedendo l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. (OMISSIS) ricorre avverso la sentenza della Corte di appello di Roma del 15 settembre 2017, che ha confermato la sentenza del Tribunale di Latina, sez. dist. di Terracina, del 27 marzo 2015, con la quale era stato condannato alla pena di mesi quattro di reclusione ed Euro 3.333,00 di multa, in ordine al delitto di cui al Decreto Legislativo 25 luglio 1998, n. 286, articolo 22, comma 12, perche’ il (OMISSIS) aveva occupato alle dipendenze della propria ditta, con sede in (OMISSIS), il lavoratore straniero (OMISSIS), privo del permesso di soggiorno.
2.1. Col primo motivo, il ricorrente denuncia inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullita’, con riferimento all’articolo 597 c.p.p., comma 1, e vizio di motivazione della sentenza impugnata, perche’ la Corte territoriale, omettendo di esaminare lo specifico motivo di appello relativo all’errore circa la regolarita’ della presenza del lavoratore straniero sul territorio italiano, avrebbe disatteso il principio secondo il quale l’atto di appello attribuisce al giudice di secondo grado la cognizione del procedimento limitatamente ai punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti. Il giudice di merito, infatti, trascurando la richiesta di assoluzione determinata dall’errore nel quale era incorso il datore di lavoro, come riportato nei motivi di appello, aveva erroneamente affermato che la buona fede invocata dall’appellante di aver preso visione della richiesta di permesso di soggiorno presentata dallo straniero non poteva far venir meno la responsabilita’ penale. Nell’atto di appello, invece, si era evidenziata un’altra specifica doglianza.
Il ricorrente, infatti, aveva dimostrato di essere colpevolmente caduto in errore circa l’esistenza del permesso di soggiorno, che il lavoratore non era riuscito ad esibire, nonostante i ripetuti inviti formulati dalle dipendenti dell’azienda e non da lui direttamente (come risulta dalle deposizioni rilasciate dai testi (OMISSIS) e (OMISSIS) alle udienze del 14 giugno 2013 e 7 maggio 2014). La motivazione della sentenza impugnata, quindi, appare viziata nella parte in cui il giudice di merito ha affermato che (OMISSIS) fosse perfettamente consapevole della mancanza del requisito necessario per la corretta instaurazione del rapporto di lavoro, circostanza del tutto avulsa dagli elementi probatori acquisiti.
A tal fine, evidenzia che l’errore, anche se colposo, del datore di lavoro circa la regolarita’ della presenza del lavoratore sul territorio italiano rileva ai fini dell’esclusione del delitto di assunzione di stranieri privi del permesso di soggiorno, atteso che il Decreto Legge 23 maggio 2008, n. 92 ha trasformato tale reato da colposo in doloso (Sez. 1, n. 9882 del 30/11/2010, dep. 2011, Meloni, Rv. 249867).
2.2. Con il secondo motivo, il ricorrente chiede che la Corte dichiari non doversi procedere per intervenuta prescrizione, accertando di conseguenza l’estinzione del reato.
La condotta, infatti, era stata perfezionata alla data del (OMISSIS), circostanza che aveva fatto decorrere il termine massimo prescrizionale prima della notifica del dispositivo della sentenza di condanna all’imputato contumace, avvenuta il 19 ottobre 2018.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. La Corte ritiene che il ricorso sia inammissibile.
1.1. Il primo motivo di ricorso non puo’ trovare accoglimento. L’occupazione quale lavoratore dipendente, a tempo determinato o indeterminato, di un cittadino extracomunitario e’ legittima solo se quest’ultimo e’ titolare di un permesso di soggiorno a fini lavorativi validamente rilasciato per l’intera durata del rapporto lavorativo. In caso contrario, la condotta integra il reato proprio ex articolo 22, comma 12, Testo Unico imm., che puo’ essere commesso solo dal datore di lavoro (Sez. 4, n. 31288 del 16/04/2013, Mangione, Rv. 255897), intendendo con tale soggetto non soltanto colui che procede all’assunzione di detti lavoratori, ma anche colui che, pur non avendo provveduto direttamente all’assunzione, se ne avvalga tenendoli alle sue dipendenze (Sez. 1, n. 25615 del 18/05/2011, Fragasso, Rv. 250687).
I giudici di merito hanno accertato che l’imputato aveva impiegato, presso la propria azienda di smaltimento di rifiuti, un cittadino indiano con la qualifica di operaio, privo di regolare permesso di soggiorno. Nel corso del giudizio era emerso che il lavoratore si trovava da alcuni mesi a lavorare presso la suddetta azienda, dopo aver esibito la ricevuta della richiesta di permesso di soggiorno, con la promessa che avrebbe portato il successivo atto di accoglimento. In modo ineccepibile, pertanto, i giudici di merito hanno ritenuto che agli atti vi fosse la prova che l’imputato era stato a conoscenza del fatto che (OMISSIS) non era titolare di valido permesso di soggiorno. La Corte territoriale, di conseguenza, ha ritenuto di respingere la versione difensiva, secondo la quale (OMISSIS) aveva erroneamente ritenuto che il suo lavoratore fosse titolare di permesso di soggiorno, evidenziando che la responsabilita’ del datore di lavoro che aveva assunto alle proprie dipendenze uno straniero privo del permesso di soggiorno non poteva ritenersi esclusa dalla buona fede invocata per aver preso visione della richiesta di permesso di soggiorno avanzata dallo straniero (Sez. 1, n. 37409 del 25/10/2006, Grimaldi, Rv. 235083). Nel caso di specie, il giudice di merito ha ritenuto che il principio di buona fede non era invocabile dall’imputato, in quanto persona sulla quale incombeva l’obbligo di prendere visione del permesso di soggiorno prima di assumere il lavoratore irregolare, non essendo sufficiente la visione della semplice richiesta presentata dallo straniero.
Il Collegio condivide la linea interpretativa tracciata da questa Corte secondo la quale l’epilogo decisorio non puo’ essere invalidato da prospettazioni alternative che si risolvano in una “mirata rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, ovvero nell’autonoma assunzione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, da preferirsi a quelli adottati dal giudice del merito, perche’ illustrati come maggiormente plausibili, o perche’ assertivamente dotati di una migliore capacita’ esplicativa nel contesto in cui la condotta delittuosa si e’ in concreto realizzata (Sez. 6, n. 22256 del 26/04/2006, Bosco, Rv. 234148).
1.2. Il secondo motivo e’ manifestamente infondato. Relativamente alla eccepita prescrizione, il capo di imputazione si riferisce ad un reato commesso il (OMISSIS); pertanto, il termine di prescrizione di sette anni e mezzo e’ scaduto successivamente alla data in cui e’ stata emessa la sentenza di appello, sicche’ l’inammissibilita’ del ricorso per cassazione, per manifesta infondatezza dei motivi, non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude la possibilita’ di dichiarare le cause di non punibilita’ di cui all’articolo 129 c.p.p., ivi compresa la prescrizione intervenuta nelle more del procedimento di legittimita’ (Sez. 2, n. 28848 del 08/05/2013, Ciaffoni, Rv. 256463).
In ogni caso, e’ del tutto irrilevante il decorso del termine di prescrizione successivo alla lettura del dispositivo, anche se intervenuto prima del deposito della motivazione. La pubblicazione della sentenza, infatti, garantendo l’immediatezza della deliberazione stabilita dall’articolo 525 c.p.p., conclude la fase della deliberazione in camera di consiglio e consacra, attraverso il dispositivo redatto e sottoscritto dal presidente, la decisione definitiva non piu’ modificabile in relazione alla pretesa punitiva; per l’effetto, ai fini del computo dei termini utili per la prescrizione, deve essere preso in considerazione il momento della lettura del dispositivo della sentenza di condanna (anche nel caso in cui non sia data contestuale lettura della motivazione) e non quello successivo del deposito della sentenza stessa (Sez. 2, n. 46261 del 18/09/2019, Cammi, Rv. 277539); a maggior ragione, pertanto, non deve essere preso in considerazione il momento successivo della notificazione dell’estratto contumaciale della sentenza (Sez. 1, n. 20432 del 27/01/2015, Lione, Rv. 263365).
2. Alla luce di quanto sopra, il ricorso appare inammissibile. Ai sensi dell’articolo 616 c.p.p., ne consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento, nonche’ al versamento in favore della Cassa delle Ammende di una somma determinata, equamente, in Euro 3.000,00, tenuto conto del fatto che non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilita’” (Corte Cost. n. 186 del 13/06/2000).

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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