Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|3 febbraio 2025| n. 2522.
Inammissibilità assorbe esame nel merito
Massima: Ove il giudice, dopo avere dichiarato inammissibile una domanda, un capo di essa o un motivo d’impugnazione, in tal modo spogliandosi della potestas iudicandi, abbia ugualmente proceduto al loro esame nel merito, le relative argomentazioni devono ritenersi ininfluenti ai fini della decisione e, quindi, prive di effetti giuridici con la conseguenza che la parte soccombente non ha l’onere né l’interesse ad impugnarle, essendo invece tenuta a censurare soltanto la dichiarazione d’inammissibilità la quale costituisce la vera ragione della decisione..
Ordinanza|3 febbraio 2025| n. 2522. Inammissibilità assorbe esame nel merito
Integrale
Tag/parola chiave:PROCEDIMENTO CIVILE – Domanda giudiziale – Dichiarata inammissibile ma esaminata nel merito – Conseguenze. (Cc, articoli 1223, 2043, 2059 e 2932; Cpc, articoli 366 e 369)
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REPUBBLICA ITALIANA
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta da
Dott. SCRIMA Antonietta – Presidente
Dott. IANNELLO Emilio – Relatore
Dott. AMBROSI Irene – Consigliere
Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere
Dott. FANTICINI Giovanni – Consigliere
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 1029/2024 R.G. proposto da
Bo.Ma., Le.Pa., Ma.An., Ro.Da., Ra.Ma., rappresentati e difesi dall’Avv. Gi.Co. (p.e.c. (Omissis)), con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, Piazzale Cl.N.;
– ricorrenti –
contro
En.It. Spa, rappresentata e difesa dagli Avv.ti Prof. An.Br. (p.e.c. (Omissis)) e Va.Ro. (p.e.c. (Omissis)), con domicilio eletto presso il loro studio in Roma, via Mi.Me.;
– controricorrente –
e nei confronti di
En. Spa;
– intimata –
avverso la sentenza della Corte d’Appello di Roma, n. 4127/2023, depositata in data 8 giugno 2023.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12 dicembre 2024 dal Consigliere Emilio Iannello.
Inammissibilità assorbe esame nel merito
FATTI DI CAUSA
1. Ottenuta con sentenza n. 7498/2012 del Tribunale di Roma pronuncia sostitutiva ex art. 2932 cod. civ. del non concluso contratto di compravendita di unità immobiliari abitative in Roma, già di proprietà di En. Spa e quindi di Da.Tr. Srl (poi En.It. Srl), in esercizio del diritto di prelazione ad essi spettanti quali conduttori al prezzo fissato dall’art. 3, comma 109, legge n. 662 del 1996, gli odierni ricorrenti o loro danti causa – nelle more del giudizio di appello (poi definito con sentenza confermativa della Corte di appello di Roma n. 4925/2015, pubblicata in data 3 settembre 2015 e passata in giudicato per mancata impugnazione) – convennero in separato giudizio En. Spa e En.It. Srl chiedendone la condanna in solido al risarcimento dei danni derivanti dal ritardo nel trasferimento della proprietà dei predetti immobili e al rimborso dei canoni di locazione non dovuti, corrisposti successivamente all’emissione della predetta sentenza.
2. Con sentenza n. 16947 del 2017 l’adito Tribunale di Roma dichiarò inammissibili per difetto di legittimazione passiva le domande proposte contro En. Spa e rigettò le domande proposte contro En.It. Srl, condannando gli attori al pagamento delle spese processuali.
Dato atto dell’accertamento, con efficacia di giudicato, della responsabilità di En.It. Srl per il ritardo nel trasferimento della proprietà degli immobili, imputabile alla quantificazione del prezzo di vendita degli stessi in difformità dalle previsioni dell’art. 3, comma 109, legge n. 662/1996 e rilevato in premessa che, secondo principio consolidato, “in tema di risarcimento del danno, il giudicato formatosi sull’an debeatur copre soltanto l’astratta potenzialità lesiva del fatto illecito, ma non preclude di stabilire che, in concreto, il pregiudizio non si sia verificato”, ha motivato il convincimento circa l’insussistenza di apprezzabili pregiudizi nei termini seguenti (per esteso trascritti nella sentenza d’appello qui impugnata)
i) il periodo del ritardo imputabile alla società proprietaria degli immobili è identificabile nell’intera durata del giudizio proposto dagli attori per ottenere il trasferimento della proprietà degli immobili al giusto prezzo, quindi dall’aprile 2006 al novembre 2016;
ii) poiché il trasferimento agli attori della proprietà degli immobili si è avuto solo al momento del passaggio in giudicato della menzionata sentenza di appello, il pagamento dei canoni non è ingiustificato ma trovava titolo nei contratti di locazione fino ad allora in essere tra le parti;
iii) quanto al periodo successivo gli attori avevano l’obbligo di pagare i prezzi dei rispettivi immobili, come quantificati nella sentenza, discendendone che i pagamenti mensili eventualmente eseguiti, ancorché non più imputabili ai rapporti di locazione, dovranno essere imputati ai corrispettivi dovuti;
iv) se è vero che, come sostengono gli attori, se avessero conseguito tempestivamente la proprietà dei rispettivi immobili non avrebbero dovuto sostenere l’esborso dei canoni, è vero anche che l’acquisto della proprietà degli immobili avrebbe comportato il pagamento dei rispettivi prezzi, in parte in contanti e in parte mediante accensione di mutui bancari (si esclude, infatti, la possibilità che gli attori ottenessero mutui di importo corrispondente all’intero prezzo di vendita degli immobili, se pure inferiore al valore di mercato);
v) ciascuno degli attori, dunque, avrebbe dovuto privarsi del, sia pur modesto, reddito ritraibile dall’investimento non rischioso della somma di denaro corrispondente all’importo del prezzo da pagare per l’acquisto dell’immobile e sostenere il costo (interessi e oneri vari) del mutuo necessario a raggiungere l’importo dovuto;
vi) il danno in questione dovrebbe, pertanto, essere individuato nella differenza tra l’importo complessivo dei canoni pagati nel periodo di mora, da un lato, e il costo del mutuo sommato alla mancata percezione dei frutti ritraibili nel medesimo periodo dalla somma pagata come prezzo, dall’altro;
vii) orbene, rapportando l’importo dei canoni di locazione annuali pagati mediamente nel periodo in considerazione da ciascun gruppo di attori al prezzo dei rispettivi immobili come determinato dalla sentenza n. 7498/2012, si desume che l’esborso corrisponde circa al 1,5% – 2% del prezzo suddetto; si è quindi trattato di un esborso non superiore al reddito medio ritraibile annualmente nello stesso periodo da un investimento non rischioso delle somme che gli attori avrebbero dovuto pagare come prezzo di acquisto della proprietà degli immobili;
viii) se poi si considera che gli attori, per loro espressa ammissione, non avevano la disponibilità delle somme necessarie all’acquisto e avrebbero dovuto quindi contrarre dei mutui, sostenendo i relativi oneri per interessi, spese e commissioni, se ne trae a maggior ragione la conclusione che il protrarsi del rapporto locatizio non ha causato loro alcun danno patrimoniale emergente;
ix) il danno corrispondente all’esborso per spese legali non sussiste, dal momento che si tratta di spese sostenute dagli attori per l’instaurazione di due processi, quello civile conclusosi con la sentenza della Corte di Appello di Roma n. 4925/2015 e il processo tributario conclusosi con la sentenza n. 8379/2016, che sono accertabili e liquidabili solo all’interno dei processi medesimi, come di fatto è avvenuto;
x) il danno da mancato acquisto della proprietà degli immobili nel 2006 è stato solo genericamente allegato e non provato; in particolare gli attori non hanno dedotto di aver perduto occasioni di guadagno che presupponevano la titolarità della proprietà degli immobili.
3. Con la sentenza in epigrafe la Corte d’Appello di Roma ha rigettato il gravame interposto dai pretesi danneggiati, condannandoli alle spese del grado e dichiarandoli tenuti al versamento di un ulteriore importo pari a quello per il contributo unificato (ex art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002).
Questi i passaggi salienti della motivazione
i) le censure sollevate appaiono una riedizione di quanto gli attori avevano chiesto in sede di giudizio di primo grado senza alcuna reale confutazione delle ragioni poste dal Tribunale alla base della propria decisione;
ii) queste vanno solo corrette in relazione ad un aspetto tuttavia “secondario in relazione alla prova del danno subito”, vale a dire con riferimento alla decorrenza degli effetti della sentenza ex art. 2932 c.c., dovendosi questi fissare nella data, ovviamente anteriore al passaggio in giudicato (efficacia ex tunc e non ex nunc), che era stata fissata nel preliminare per la stipula del contratto definitivo;
iii) ciò precisato, “non par dubbio che ciò che viene indicato dagli appellanti come pregiudizio risarcibile in realtà siano o semplici conseguenze naturali del processo giudiziario precedente o situazioni non dannose o fatti privi di rilevo risarcitorio”;
iv) non è stata data prova di quale pregiudizio concreto i singoli soggetti attori in primo grado – quali conduttori degli immobili oggetto di causa – avessero subito per essere diventati formali titolari del diritto di proprietà nel 2017 piuttosto che nel 2012 o addirittura nel 2006 e per aver dovuto continuare a corrispondere il canone locativo;
v) quel canone trovava la sua ragione giustificativa nell’occupazione degli immobili e nel perdurante rapporto di locazione (venuto meno con la pronuncia costitutiva ex art. 2932 cod. civ.);
vi) gli appellanti erano tenuti alla puntuale e specifica dimostrazione di quale pregiudizio patrimoniale avessero subito nell’aver dovuto continuare a versare i canoni in luogo del pagamento del prezzo della compravendita, ed è qui che la decisione appellata ha inserito una specifica motivazione/argomentazione che gli appellanti non hanno affatto contrastato (se non a parole generiche); la ragione della decisione di primo grado, condensata nel passaggio che si è sopra riportato, non ha avuto alcuna censura da parte degli appellanti e questo determina anche l’inammissibilità del motivo in esame;
vii) quanto poi alla pretesa riferita alle spese processuali sostenute nel corso dei giudizi precedenti, è sufficiente rinviare alle regole sottese alla soccombenza ex art. 91 e segg. c.p.c. implicanti la stretta pertinenza della domanda di rifusione delle spese al singolo giudizio nel quale la parte le ha sostenute;
viii) “ciò dimostra l’infondatezza della pretesa con ragione che può essere estesa anche alla censura relativa ai danni di natura non patrimoniale (per i quali, peraltro, manca ogni prova)”.
4. Avverso tale sentenza Bo.Ma., Le.Pa., Ma.An., Ro.Da. e Ra.Ma. propongono ricorso per cassazione articolando quattro motivi, cui resiste En.It. Spa, depositando controricorso.
5. La trattazione è stata fissata in adunanza camerale ai sensi dell’art. 380-bis.1 cod. proc. civ.
Non sono state depositate conclusioni dal Pubblico Ministero.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
Inammissibilità assorbe esame nel merito
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Va preliminarmente disattesa l’eccezione di difetto di “legittimazione processuale passiva” (recte “legittimazione passiva”)
della resistente En.It. Spa sollevata in memoria dai ricorrenti sul rilievo che, in tutti i precedenti gradi del presente giudizio, la controparte processuale è stata l’En.It. Srl e non l’En.It. Spa
Che si tratti del medesimo unico soggetto collettivo presente nei precedenti gradi del giudizio di merito è univocamente dimostrato dal sempre identico numero della partita Iva ((Omissis)), dovendosi pertanto imputare le diverse indicazioni del tipo societario (leggibili in sentenza e nel corpo dello stesso controricorso) a trasformazioni intervenute nel tempo – che, come noto, non ne mutano l’identità soggettiva – oppure a meri ininfluenti errori materiali.
Pacifica, invece, è in causa la diversità soggettiva, rispetto a En.It. Srl (ora Spa), di En. Spa, di guisa che nessun argomento a supporto della eccezione in esame può trarsi dal fatto che di quest’ultima sia stata dal primo giudice dichiarato il difetto di legittimazione passiva, con statuizione non fatta segno di alcuna censura in appello.
2. Con il primo motivo – rubricato “falsa applicazione di norma di diritto e in particolare dell’art. 2932 del cod. civ.- erronea interpretazione/applicazione, in relazione all’art. 360 del c.p.c. n. 3” – i ricorrenti lamentano che la Corte d’Appello, pur riconoscendo la fondatezza della tesi difensiva in ordine al momento al quale debbono farsi risalire gli effetti traslativi della sentenza costitutiva ex art. 2932 cod. civ., non ha poi applicato le conseguenze giuridiche che ne derivano ovvero il ristoro economico per ritardato acquisto degli immobili.
Sostengono che da quel principio, oltre che dal passaggio in giudicato della sentenza che, nell’accogliere le domande ex art. 2932 cod. civ., aveva anche accertato il diritto degli istanti al risarcimento del danno, discende automaticamente (“va da sé”) “che tutti i canoni di locazione versati dai ricorrenti sin dall’anno 2006 devono essere restituiti nonché maggiorati di interessi e rivalutazione, in quanto gli stessi invece di essere imputati in conto prezzo dell’acquisto degli immobili, sono stati versati in canoni di locazione e quindi, dispersi”.
3. Con il secondo motivo – rubricato “violazione o falsa applicazione di norme di diritto e in particolare dell’art. 1223 cod. civ., 1218 cod. civ., 2043 cod. civ. e dell’art. 2059 del cod. civ; erronea interpretazione/applicazione, in relazione all’art. 360 del c.p.c. n. 3” – i ricorrenti lamentano che la Corte d’Appello, nonostante la corretta lettura degli effetti giuridici della sentenza costitutiva ex art. 2932 del cod. civ. e la colpa della controparte acclarata con sentenza passata in giudicato, abbia negato ogni diritto risarcitorio.
Premesso che, in astratto, il danno patrimoniale è ravvisabile nella differenza tra l’effettiva consistenza del patrimonio in un determinato momento e la consistenza che quel patrimonio avrebbe avuto in quel medesimo momento senza il verificarsi di un determinato fatto lesivo, e riferendosi all’affermazione, contenuta in sentenza, secondo cui essi non avevano “affatto contestato (se non a parole generiche)” la “specifica motivazione/argomentazione” sul punto addotta dal primo giudice, rilevano i ricorrenti che
– prima facie, se essi fossero stati messi in condizione di stipulare gli atti di compravendita già nel 2006, al prezzo di mercato di cui all’art. 3 comma 109 L. 662/1996, non sarebbero stati tenuti a versare per ben 10 anni i relativi canoni di locazione, destinando tali somme al fondo capitale prezzo;
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– erra la Corte d’Appello a ritenere che i canoni versati trovino titolo giuridico nel contratto di locazione o, comunque, nell’occupazione degli immobili, dal momento che tali canoni in alcun modo dovevano essere corrisposti in quanto dovevano essere versati come quota prezzo di acquisto;
– la difesa degli appellanti aveva evidenziato come il giudice di primo grado, nella propria sentenza, richiamata dalla Corte di Appello per relationem, si fosse ‘lanciata in “meditazioni” di tipo finanziario, ragionamenti in percentuale su investimenti “non rischiosi” e comunque su riflessioni ipotetiche’;
– nessun riscontro è dato in sentenza neppure alla ulteriore argomentazione difensiva secondo cui il ritardo nella stipula del definitivo ha precluso ad essi istanti di lucrare il maggior prezzo dalla possibile immediata rivendita degli immobili secondo prezzi di mercato;
– il ragionamento svolto dal primo giudice -e fatto proprio dalla Corte di merito- evidenzia marchiani errori di tipo finanziario, omettendo di considerare che, nell’anno 2006, se l’En. non avesse adottato una condotta ostruzionistica, gli aventi diritto al trasferimento avrebbero potuto stipulare un allora vantaggioso mutuo a tasso variabile;
– quanto al danno rappresentato dagli esborsi per spese legali, la Corte d’Appello ha omesso qualsiasi statuizione sull’attività stragiudiziale, il cui espletamento non era stato contestato dalla controparte;
– è immotivato e ingiustificato il diniego di danni non patrimoniali risarcibili, dal momento che la descritta situazione di forzata aspettativa persistita per oltre dieci anni ha posto gli istanti in una situazione di incertezza e di forte disagio personale, con ripercussioni anche sull’integrità psico-fisica.
4. Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano nullità della sentenza per violazione dell’art. 132, comma secondo, num. 4, cod. proc. civ. nonché dell’art. 118 disp. att. c.p.c., per avere la Corte d’Appello, adottando una motivazione per relationem, omesso completamente l’esplicitazione del ragionamento che ha condotto a ritenere non dovuto il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale agli odierni ricorrenti.
5. Con il quarto motivo – rubricato “violazione o falsa applicazione di norme di diritto e in particolare della legge 228/2012 che ha modificato l’art. 13 T.D. di cui al D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, introducendo dopo il comma 1 ter il comma 1 quater, in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.; erronea interpretazione/applicazione” – i ricorrenti si dolgono infine di essere stati erroneamente condannati a pagare un ulteriore importo pari al contributo unificato, dal momento che l’appello è stato parzialmente accolto avendo la Corte aderito alla tesi difensiva circa il prodursi degli effetti traslativi della sentenza ex art. 2932 cod. civ. anteriormente al passaggio in giudicato della stessa.
Inammissibilità assorbe esame nel merito
6. I primi tre motivi, congiuntamente esaminabili, sono inammissibili poiché nessuno di essi si confronta adeguatamente con il rilievo che emerge, ben comprensibile, quale ragione giustificativa di fondo, dalle affermazioni sopra riportate ai ptt. i) e vi) del par. 3 della parte narrativa (“Fatti di causa”) della presente ordinanza e che si risolve nella assorbente valutazione (esplicita) di inammissibilità dell’unico motivo di appello per aspecificità. Rileva, infatti, la Corte d’Appello che la specifica motivazione/argomentazione addotta dal giudice di primo grado a fondamento del diniego di un pregiudizio patrimoniale non fosse stata “affatto contrastata (se non a parole generiche)” e che, pertanto, dovesse considerarsi non attinta da “alcuna censura da parte della appellante”, ciò determinando “anche l’inammissibilità del motivo in esame” (v. sentenza, pagg. 9-10).
Trattasi evidentemente di rilievo carattere processuale che vale, come detto, a evidenziare una ragione preliminare di inammissibilità, in rito, del motivo di appello per violazione dell’onere di specificità dettato dall’art. 342 cod. proc. civ.
E giova rimarcare che, con tale rilievo, la Corte di merito, diversamente da quanto postulato dai ricorrenti, non ha affatto adottato una motivazione per relationem con rinvio alla sentenza di primo grado ma, ben diversamente, ed a monte, ha rilevato che tale sentenza non era stata idoneamente impugnata.
I ricorrenti non si fanno carico di tale preliminare e assorbente ratio
decidendi, al qual fine essi – piuttosto che dilungarsi nella esposizione delle ragioni che dovrebbero dimostrare la fallacia della argomentazione del giudice di primo grado – avrebbero dovuto allegare e dimostrare, nel rispetto degli oneri di specificità e autosufficienza, che, diversamente da quanto ritenuto dal giudice d’appello, quella argomentazione era stata oggetto di specifica censura con l’atto d’appello, osservante dei requisiti dell’art. 342 cod. proc. civ..
Essi invece si limitano, sul punto, ad una incidentale affermazione generica, leggibile nel terzultimo capoverso di pag. 16 del ricorso ‘Inoltre codesta difesa evidenziava che il Giudice di primo grado nella propria sentenza, la quale è stata integralmente richiamata dalla Corte di Appello nella propria motivazione per relationem, si fosse lanciata in “meditazioni” di tipo finanziario, ragionamenti in percentuale su investimenti “non rischiosi” e comunque su riflessioni ipotetiche’
Trattasi però, evidentemente, di contestazione generica, che postulando trattarsi di motivazione per relationem mostra di non aver compreso il diverso significato processuale del rilievo e che, comunque, si appalesa inosservante degli oneri imposti dagli artt. 366 n. 6 e 369 n. 4 cod. proc. civ.
I ricorrenti omettono invero di localizzare l’atto richiamato nel fascicolo di causa e di riportare, almeno nelle parti rilevanti, l’esatto contenuto dell’atto di appello, in tal modo non ponendo questa Corte nelle condizioni di poter adeguatamente valutare la censura sulla sola base del ricorso e senza fare riferimento ad atti ad esso esterni.
Giova al riguardo rammentare che, in ipotesi di error in procedendo per il quale la Corte di cassazione è giudice anche del fatto processuale, il giudice di legittimità è bensì investito del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, purché però la censura sia stata proposta dal ricorrente in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito e, in particolare, in conformità alle prescrizioni dettate dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 (Cass. Sez. U. 22/05/2012, n. 8077).
Ne discende l’inammissibilità delle contestuali diffuse argomentazioni volte, come detto, a contestare nel merito la correttezza e coerenza logica interna di quella argomentazione in quanto sostanzialmente condivisa anche dal giudice d’appello.
In tal senso, assume rilievo dirimente il principio, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui “ove il giudice, dopo avere dichiarato inammissibile una domanda, un capo di essa o un motivo d’impugnazione, in tal modo spogliandosi della potestas iudicandi, abbia ugualmente proceduto al loro esame nel merito, le relative argomentazioni devono ritenersi ininfluenti ai fini della decisione e, quindi, prive di effetti giuridici con la conseguenza che la parte soccombente non ha l’onere né l’interesse ad impugnarle, essendo invece tenuta a censurare soltanto la dichiarazione d’inammissibilità la quale costituisce la vera ragione della decisione” (Cass. Sez. U. n. 2155 dell’1/02/2021, Rv. 660428; Id. n. 24469 del 30/10/2013; Id. n. 3840 del 20/02/2007; Cass. n. 27388 del 19/09/2022, Rv. 665905; n. 11675 del 16/06/2020, Rv. 657952; n. 30393 del 9/12/2017; n. 101 del 4/01/2017).
7. Anche le ulteriori doglianze di omesso esame delle censure riferite al mancato ristoro delle spese sostenute per le attività stragiudiziali e del dedotto danno non patrimoniale vanno incontro al medesimo rilievo di aspecificità, omettendosi il puntuale richiamo di quanto nell’atto d’appello sul punto dedotto, in violazione degli artt. 366 n. 6 e 369 n. 4 cod. proc. civ.
8. Il quarto motivo è fondato, sebbene per una ragione diversa da quella prospettata dal ricorrente (si rammenti in proposito che, secondo pacifico indirizzo, “la Corte di cassazione può accogliere il ricorso per una ragione di diritto anche diversa da quella prospettata dal ricorrente, sempre che essa sia fondata sui fatti come prospettati dalle parti, fermo restando che l’esercizio del potere di qualificazione non può comportare la modifica officiosa della domanda per come definita nelle fasi di merito o l’introduzione nel giudizio d’una eccezione in senso stretto” Cass. n. 26991 del 5/10/2021, Rv. 662510; n. 18775 del 28/07/2017, Rv. 645168 – 01; n. 3437 del 14/02/2014, Rv. 629913; n. 6935 del 22/03/2007. Rv. 597297; n. 19132 del 29/09/2005, Rv. 586707).
Come da tempo chiarito dalle Sezioni Unite di questa Corte (v. Cass. Sez. U. n. 4315 del 20/02/2020), l’attestazione che il giudice dell’impugnazione è chiamato a rendere ai sensi dell’art. 3, comma 1-quater, D.P.R. n. 115 del 2002, ‘può riguardare solo la ricorrenza del “presupposto processuale” che determina in astratto il raddoppio del contributo (ossia l’aver adottato una pronuncia di integrale rigetto o di inammissibilità o di improcedibilità dell’impugnazione); ma non può riguardare la sussistenza dell’altro presupposto richiesto dall’art. 13, comma 1-quater, T.U.S.G., costituito dalla debenza del contributo unificato iniziale, il cui accertamento compete in via esclusiva all’amministrazione giudiziaria e, in caso di contestazione, alla giurisdizione tributaria.
Come il giudice civile non può accertare la debenza del contributo unificato iniziale e – ove sorga contestazione – la relativa questione va risolta nell’ambito di un apposito giudizio da instaurarsi dinanzi al giudice tributario con la necessaria partecipazione del Ministero della Giustizia (titolare della pretesa tributaria), così il medesimo giudice non può provvedere all’accertamento in concreto della debenza della doppia contribuzione, essendo questa logicamente e giuridicamente conseguente alla prima. E allora, l’attestazione del giudice dell’impugnazione ha la funzione ricognitiva della sussistenza di uno soltanto dei presupposti previsti dalla legge, quello di carattere “processuale” attinente al tipo di pronuncia adottata (così, Cass., Sez. 6 – 3, n. 23830 del 20/11/2015; Cass., Sez. 1, n. 9660 del 5/04/2019)’.
Nella specie, pertanto, erroneamente la Corte d’Appello ha dichiarato la parte appellante “tenuta” al versamento della doppia contribuzione, con statuizione che, sebbene non sia di condanna, come postulato in ricorso, ma di accertamento dell’obbligo, come tale è pur sempre eccedente rispetto ai compiti e ai poteri attribuiti al giudice civile. Un tale accertamento compete, infatti, in via esclusiva all’amministrazione giudiziaria e, in caso di contestazione, alla giurisdizione tributaria, laddove la Corte d’Appello avrebbe dovuto limitarsi a dare solo atto della sussistenza del presupposto processuale che, in concorso con altri, può, ove del caso, secondo valutazione riservata alla amministrazione giudiziaria, determinare il raddoppio del contributo.
Che poi tale presupposto sussistesse nella specie non può essere revocato in dubbio, dovendo a tal fine aversi riguardo all’esito del giudizio di appello, nella specie di rigetto, non avendo invece alcun rilievo il fatto che, in un mero passaggio motivazionale, esplicitamente indicato come privo di rilievo ai fini della decisione, abbia trovato accoglimento una tesi censoria.
9. In accoglimento, dunque, del quarto motivo di ricorso e in relazione allo stesso, dichiarati inammissibili gli altri motivi, la sentenza impugnata va cassata.
Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384, secondo comma, cod. proc. civ., con l’eliminazione della statuizione di cui alla lett. c) del dispositivo e con l’accertamento, al suo posto, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte degli appellanti, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per l’appello, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13
10. Considerato l’accoglimento parziale del ricorso con riferimento ad un marginale capo della sentenza impugnata, rispetto al quale peraltro non è ravvisabile una vera e propria soccombenza della controparte, ritiene il Collegio di non dover disporre alcuna compensazione, neppure parziale, delle spese, che, pertanto, liquidate come da dispositivo in favore della controricorrente, vanno poste a carico dei ricorrenti, in solido.
Inammissibilità assorbe esame nel merito
P.Q.M.
accoglie il quarto motivo di ricorso, nei termini di cui in motivazione; dichiara inammissibili gli altri; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto eliminando la statuizione di cui alla lett. c) del dispositivo; decidendo nel merito, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte degli appellanti, in solido, al competente ufficio di merito, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per l’appello, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13. Confermata nel resto la sentenza d’appello.
Condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 6.500 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Così deciso in Roma il 12 dicembre 2024.
Depositato in Cancelleria il 3 febbraio 2025.
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Le sentenze sono di pubblico dominio.
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