La diversa qualificazione giuridica del fatto in dibattimento

Corte di Cassazione, penale, Sentenza|18 maggio 2021| n. 19673.

Il riconoscimento della diversa qualificazione giuridica del fatto in dibattimento non legittima l’imputato a proporre tardivamente la richiesta di messa alla prova, in quanto l’inesatta contestazione del reato non preclude l’accesso al rito speciale, giacché la messa alla prova ben può essere avanzata deducendosi l’erronea qualificazione giuridica del fatto.

Sentenza|18 maggio 2021| n. 19673. La diversa qualificazione giuridica del fatto in dibattimento

Data udienza 8 aprile 2021

Integrale

Tag – parola chiave: Estorsione – Delitto tentato – Concorso di persone – Continuazione – Condanna – Presupposti – Articoli 168 bis e 464 bis cpp – Messa alla prova – Articolo 131 bis cp – Condizioni di non punibilità – Sentenza della corte costituzionale 265 del 1994 – Criteri – Sentenza della corte costituzionale 131 del 2019

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI STEFANO Pierluigi – rel. Presidente

Dott. APRILE Ercole – Consigliere

Dott. DE AMICIS Gaetano – Consigliere

Dott. BASSI Alessandra – Consigliere

Dott. VIGNA Maria Sabina – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 27/02/2020 della Corte di appello di Palermo
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Presidente Dr. Pierluigi Di Stefano;
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dr. Angelillis Ciro, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.

La diversa qualificazione giuridica del fatto in dibattimento

RITENUTO IN FATTO

Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Palermo, decidendo su rinvio della Corte di Cassazione, in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Trapani, riqualificata l’imputazione ascritta al capo D), ha dichiarato (OMISSIS) colpevole del reato di violenza privata tentata e lo ha condannato alla pena di mesi tre di reclusione.
L’ (OMISSIS), in particolare, era imputato del reato p. e p. dagli articoli 81 cpv., 110, 56 e 629 c.p. per avere, agendo in concorso con (OMISSIS), quali operai in un primo tempo temporaneamente impiegati nel cantiere e successivamente non piu’ utilizzati (e quindi non ulteriormente retribuiti poiche’ non adeguatamente specializzati), con piu’ azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, compiuto una pluralita’ di atti idonei, diretti in modo non equivoco a costringere (OMISSIS), dipendente della s.r.l. ” (OMISSIS)”, societa’ aggiudicataria dell’appalto dei lavori di urbanizzazione primaria delle zone artigianali di c/da (OMISSIS) in attuazione delle prescrizione del Piano Regolatore Generale (P.R.G.) 1 lotto indetti con gara dal Comune di (OMISSIS), nella veste di capo cantiere, nonche’ gli operati (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), lavoratori della soc. coop. ” (OMISSIS)” distaccati presso il sopra indicato cantiere, a non continuare i lavori se non fossero stati reimpiegati anche loro, a tal fine proferendo continue minacce quali, esemplificativamente, “se qui non lavoriamo noi, non lavora nessuno e voi ve ne andate”, “qua cemento non ne butta nessuno se non lavoriamo pure noi” “in questo cantiere i lavori fare solo noi di (OMISSIS), non i cristiani che vengono da fuori” e cio’ al fine di assicurare ai predetti (OMISSIS) e (OMISSIS) la presenza in cantiere e quindi al fine di procurarsi il profitto ingiusto costituito dalle retribuzioni per le giornate lavorative che avrebbero passato in cantiere.
Con atto a firma dell’Avv. (OMISSIS) e’ proposto ricorso per Cassazione nell’interesse dell’ (OMISSIS), articolato in due motivi di ricorso.
Con il primo motivo si deduce violazione di legge e carenza di motivazione, in relazione all’articolo 168 bis c.p. e all’articolo 6, par. 3, lettera a) e b) Cedu.
A fronte della riqualificazione operata dalla sentenza di annullamento della condotta contestata da estorsione a violenza privata, dal momento che l’articolo 610 (a differenza dell’articolo 629 c.p.) ammette il rito alternativo della sospensione del procedimento con messa alla prova, la difesa osserva che la sede naturale per avanzare detta richiesta era proprio il giudizio di rinvio dinnanzi alla Corte di Appello di Palermo.
Poiche’ l’imputato si era avvalso di tale diritto nelle fasi preliminari all’apertura del dibattimento in grado di appello, la Corte avrebbe quindi errato nel rigettare la sua istanza di ammissione al rito alternativo, rilevandone la tardivita’ e quindi l’inammissibilita’, in spregio alla garanzia del contraddittorio che la giurisprudenza EDU riconosce all’imputato anche in ordine alla diversa definizione giuridica del fatto operata dal giudice ex officio.
Si richiama a suffragio delle argomentazioni difensive la recente sentenza n. 14/2020 della Corte costituzionale che, soffermandosi sull’intrinseca dimensione processuale dell’istituto di cui all’articolo 168 bis c.p.p., ha riconosciuto, nel caso di mutamenti patologici o fisiologici del capo di imputazione, il diritto dell’imputato di richiedere l’ammissione all’istituto della messa alla prova, prevedendo una rimessione in termini a suo favore in deroga all’articolo 464 bis c.p.p., comma 2.
Con il secondo motivo si censura violazione di legge per omessa motivazione sulla richiesta di riconoscimento della causa di non punibilita’ di cui all’articolo 131 bis c.p. avanzata in sede di discussione.
Pur avendo la difesa dell’imputato esplicitamente richiesto nel corso della discussione il riconoscimento della causa di non punibilita’ per particolare tenuita’ del fatto, la corte d’appello avrebbe omesso qualsiasi tipo di valutazione a tal riguardo.
Il difetto di motivazione sarebbe tanto piu’ grave, dal momento che numerosi precedenti di legittimita’ hanno, da un lato, ammesso la rilevabilita’ d’ufficio da parte del giudice di appello della causa di non punibilita’ di cui all’articolo 131 bis c.p., e, dall’altro, hanno riconosciuto pacificamente l’applicabilita’ dell’invocato istituto anche al reato di violenza privata.
Nel caso di specie, ad avviso della difesa, i presupposti per l’applicazione dell’istituto ricorrerebbero tutti: l’imputato, infatti, successivamente alla sentenza di primo grado non ha commesso altri reati, quindi la condotta non risulta abituale, mentre, sul piano dell’offesa, il soggetto non mirava a conseguire alcun ingiusto profitto con altrui danno, ma soltanto a limitare l’autonomia contrattuale e negoziale altrui onde acquisire una posizione lavorativa regolare.
Alla luce di cio’, non essendo ravvisabile alcuna delle condizioni ostative di cui all’articolo 131 bis c.p., comma 2, si insiste per l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perche’ l’azione penale non doveva essere iniziata o proseguita.
In subordine, si chiede l’annullamento della decisione della Corte di Appello di Palermo e il rinvio ad altra sezione per verificare la sussistenza delle condizioni di applicabilita’ della causa di non punibilita’ in esame.
Il procuratore generale presso questa Corte, con requisitoria scritta, ha chiesto il rigetto del ricorso.
La difesa ha presentato memoria di replica agli argomenti del procuratore generale.

 

La diversa qualificazione giuridica del fatto in dibattimento

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso e’ infondato.
Quanto al primo motivo, va innanzitutto considerato che testualmente l’articolo 464 bis c.p. non consente la richiesta della messa alla prova in un momento successivo all’apertura del dibattimento.
Del resto, per tutti i riti alternativi, per ragioni ovvie, sono individuati termini ultimi per richiederli, sempre”in limite litis”, con la possibilita’ di ottenere il beneficio offerto all’imputato (la riduzione di pena) in determinati casi in cui la mancata ammissione al rito risulti ingiustificata. Ma, anche in tali casi, vi e’ la previsione espressa di legge.
Rappresentando comunque la richiesta di riti alternativi un interesse della difesa, vari interventi della Corte costituzionale hanno individuato correttivi rispetto al caso in cui nel corso del processo una contestazione venga modificata senza che siano cambiate le condizioni di fatto iniziali.
I casi sono tipicamente quelli delle contestazioni suppletive, quando cioe’ ricorra un “fatto nuovo o un reato concorrente che risultava gia’ dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale, e che pertanto il pubblico ministero ben avrebbe potuto contestargli gia’ in quel momento, si’ da porlo in condizione di esercitare il proprio diritto di difesa in merito alla scelta del rito”. In questi casi, rammenta la sentenza n. 14 del 2020, dei correttivi sono stati individuati dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 265 del 1994 in relazione al patteggiamento e con la sentenza n. 333 del 2009 in relazione al rito abbreviato: ovvero la Corte, con riferimento alla (peraltro diversa) ipotesi delle contestazioni suppletive ha di volta in volta “dichiarato illegittimi gli articoli 516 e 517 c.p.p., nella parte in cui non prevedevano la facolta’ dell’imputato di essere ammesso a un rito speciale a contenuto premiale allorche’, nel corso dell’istruttoria dibattimentale, fosse emerso – rispettivamente – un fatto diverso da quello originariamente contestato, ovvero un reato connesso o una circostanza aggravante non previamente contestati all’imputato”.
La ragione, che riguarda le contestazioni suppletive e non la riqualificazione operata dal giudice, e’ che nel caso delle contestazioni suppletive l’imputato veniva ad essere “… irragionevolmente discriminato, ai fini dell’accesso ai procedimenti speciali, in dipendenza dalla maggiore o minore esattezza o completezza della discrezionale valutazione delle risultanze delle indagini preliminari operata dal pubblico ministero”.
In definitiva, non e’ consentito – e non vi e’ alcun dubbio di costituzionalita’ proporre tardivamente la richiesta di messa alla prova dopo la modifica della qualificazione giuridica della condotta.
Si consideri, peraltro, che una corretta interpretazione delle norme vigenti rende comunque possibile la tutela del proprio interesse anche in tali ipotesi laddove l’imputato sia diligente: la soluzione e’ stata gia’ prospettata dalla stessa Corte costituzionale nella diversa sentenza n. 131 del 2019 in tema di giudizio abbreviato.

 

La diversa qualificazione giuridica del fatto in dibattimento

La parte puo’ chiedere entro il termine (prima dell’apertura del dibattimento etc) la messa alla prova deducendo la erronea qualificazione giuridica. In tale caso, se il giudice, all’esito del giudizio ritenga effettivamente erronea tale qualificazione, deve ammettere la messa alla prova. In questa ipotesi rileva che vi sia stata la richiesta nei termini (perche’, si ripete, la disposizione non lascia alcuna elasticita’) e vi sia stata la valutazione di erroneita’ della contestazione, quindi modificata in quella che consenta la messa alla prova.
Un tale ragionamento, invero, non vale se la diversa qualificazione dipenda dall’accertamento dei fatti (es. cade la prova della violenza e la rapina diventa furto) o non viene provato il reato connesso che rendeva impraticabile la messa alla prova per il solo reato che la consentiva etc..
In definitiva, la parte non ha chiesto tempestivamente la ammissione alla messa alla prova e, quindi, il motivo e’ infondato.
E’ infondato il secondo motivo, riferito alla mancata valutazione della applicabilita’ dell’articolo 131 bis c.p.: non vi era richiesta motivata e, quindi, non vi era alcun obbligo di specifica motivazione. Valgono, comunque, anche gli argomenti proposti dal procuratore generale: una motivazione ostativa alla applicazione della causa di non punibilita’ “puo’ essere implicitamente ricavata da quella relativa al diniego delle attenuanti generiche, motivazione che ha incluso i parametri di valutazione di previsti dall’articolo 131-bis c.p., comma 1, escludendo la particolare tenuita’ della condotta e la esiguita’ del danno, per via della “violenza impropria” esercitata dall’imputato al fine di impedire al libera determinazione della p.o.”.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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