Suprema Corte di Cassazione
S.U.P.
sentenza 6 aprile 2016, n. 13681
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE PENALI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CANZIO Giovanni – Presidente
Dott. CONTI Giovanni – Consigliere
Dott. VECCHIO Massimo – Consigliere
Dott. FIANDANESE Franco – Consigliere
Dott. PAOLONI Giacomo – Consigliere
Dott. BRUNO Paolo Antonio – Consigliere
Dott. DAVIGO Piercamillo – Consigliere
Dott. BLAIOTTA Rocco Mar – rel. Consigliere
Dott. RAMACCI Luca – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 10/02/2015 della Corte di appello di Milano;
visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso;
udita la relazione svolta dal componente Dott. Rocco Marco Blaiotta;
udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato generale Dott. Carmine Stabile, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
udito il difensore dell’imputato, avv. (OMISSIS), che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Il Tribunale di Monza ha affermato la responsabilita’ dell’imputato indicato in epigrafe in ordine al reato di cui all’articolo 186 C.d.S., comma 2, lettera b), e comma 2-bis, commesso il (OMISSIS).
La sentenza e’ stata parzialmente riformata dalla Corte di appello di Milano che ha escluso l’aggravante di cui al richiamato comma 2 bis ed ha rideterminato la pena.
2. L’imputato ha presentato ricorso per cassazione, deducendo tre motivi.
2.1. Con il primo motivo si prospetta violazione di legge e vizio della motivazione in ordine alla mancata concessione della sospensione condizionale della pena. L’imputato, contrariamente a quanto ritenuto nella pronuncia impugnata, non ha subito condanne per reati analoghi; e la precedente concessione del beneficio non e’ ostativa alla sua reiterazione.
2.2. Con il secondo motivo s’invoca l’applicazione della causa di esclusione della punibilita’ di cui all’articolo 131-bis cod. pen..
2.3. Infine, si denunzia mancanza di motivazione in ordine alla richiesta di riduzione della pena.
2.4. Ha fatto seguito la presentazione di una memoria difensiva.
3. La Quarta Sezione penale, cui il ricorso era stato assegnato, ha rimesso alle Sezioni Unite la questione relativa alla compatibilita’ della causa di non punibilita’ per particolare tenuita’ del fatto di cui all’articolo 131-bis cod. pen. con i reati previsti dall’articolo 186 C.d.S., comma 2, lettera b) e c), e piu’ in generale con gli illeciti caratterizzati dalla presenza di soglie di punibilita’.
L’ordinanza richiama la pronunzia di legittimita’ che ha ritenuto la compatibilita’ tra il nuovo istituto ed i reati di cui all’articolo 186 C.d.S., comma 2, (Sez. 4, n. 44132 del 09/09/2015, Longoni, Rv. 264829) e propone argomenti critici.
Si rammenta che l’articolo 186, comma 2, lettera a), prevede un illecito amministrativo costituito dalla guida in stato di ebbrezza con tasso alcoolemico superiore a 0,5 e non superiore a 0,8 g/l; mentre le successive lettera b) e c) dello stesso comma disciplinano distinti illeciti penali definiti da valori crescenti.
Si considera che il legislatore ha gia’ compiuto a monte una valutazione di maggiore o minore pericolosita’, rapportata ad un preciso dato tecnico costituito dal tasso alcoolemico. Pertanto il giudice, applicando la nuova normativa, si sostituirebbe al legislatore, non disponendo di altri parametri cui ancorare il giudizio di tenuita’; ed essendo irrilevanti le modalita’ della condotta di guida, che ben possono variare da caso a caso.
Si aggiunge che si tratta di reati di pericolo intesi a proteggere i beni della regolarita’ della circolazione e della sicurezza stradale, distinti da quelli della vita o della incolumita’ dei singoli, protetti dai reati di lesioni colpose ed omicidio colposo. Se ne inferisce che nessun rilievo possono avere, ai fini della punibilita’, le modalita’ della condotta di guida. Infatti, in relazione ai beni protetti, non e’ possibile ipotizzare una gradualita’ dell’offesa, atteso che lo stesso legislatore ha previsto circostanze aggravanti connesse a contingenze di particolare allarme e maggiore pericolo per la sicurezza: la guida in ora notturna e la causazione di incidente stradale.
Si argomenta infine che l’applicazione della normativa di cui si discute condurrebbe ad un esito paradossale: l’autore di un illecito di minore gravita’ andrebbe incontro ad una sanzione amministrativa pecuniaria ed alla sospensione della patente di guida, mentre l’autore dell’illecito penale potrebbe evitare le relative sanzioni.
Si conclude che occorre ritenere che il legislatore abbia gia’ implicitamente escluso la possibilita’ di attribuire connotazioni di particolare tenuita’ ai reati di cui si discute.
L’ordinanza discute criticamente pure l’affermazione della sentenza Longoni secondo cui, nel caso in cui sia ritenuta la particolare tenuita’ del fatto, il giudice penale deve applicare le sanzioni amministrative accessorie. Si considera che tali sanzioni sono applicabili solo nel caso di sentenza di condanna o di applicazione della pena, come emerge testualmente dall’articolo 186 C.d.S., comma 2-quater. Pertanto, non e’ possibile ritenere che il mero accertamento dell’esistenza del reato, che costituisce il presupposto della causa di non punibilita’, consenta l’applicazione delle dette sanzioni.
Dunque, valutando le cose “da un punto di vista sostanziale” l’applicazione del nuovo istituto avrebbe l’effetto, ritenuto non congruo, di escludere pure le sanzioni amministrative accessorie, che non di rado costituiscono la parte piu’ afflittiva dell’apparato sanzionatorio.
4. Con decreto del 21 dicembre 2015 il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite e ne ha disposto la trattazione nell’udienza odierna.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Va dapprima esaminato il secondo motivo di ricorso, che propone una questione pregiudiziale rispetto a quelle dedotte con gli altri motivi.
Al riguardo occorre considerare che l’articolo 131-bis cod. pen. e’ stato introdotto con il Decreto Legislativo 16 marzo 2015, n. 28, articolo 1, comma 2, e quindi in epoca successiva alla pronunzia d’appello, emessa il 10 febbraio 2015 e relativa a fatto commesso il (OMISSIS).
Questa Corte ha in numerose occasioni condivisibilmente ritenuto che, se non e’ stato possibile proporlo in grado di appello, il tema afferente all’applicazione del nuovo istituto puo’ essere dedotto davanti alla Corte di cassazione e puo’ essere altresi’ rilevato d’ufficio ai sensi dell’articolo 609 c.p.p., comma 2 (da ultimo Sez. 3, n. 24358 del 14/05/2015, Ferretti, Rv. 264109; Sez. 4, n. 22381 del 17/04/2015, Mauri, Rv. 263496; Sez. 3, n. 15449 del 08/04/2015, Mazzarotto, Rv. 263308).
Si e’ infatti in presenza, come sara’ meglio esposto nel prosieguo, di innovazione di diritto penale sostanziale che disciplina l’esclusione della punibilita’ e che reca senza dubbio una disciplina piu’ favorevole. Il novum trova quindi applicazione retroattiva ai sensi dell’articolo 2 c.p., comma 4. L’elevato rango del principio espresso da tale ultima norma impone la sua applicazione ex officio, anche in caso di ricorso inammissibile, come ritenuto recentemente dalle Sezioni unite. Si e’ infatti condivisibilmente affermato il diritto dell’imputato, desumibile dal principio in questione, ad essere giudicato in base al trattamento piu’ favorevole tra quelli succedutisi nel tempo; ed il dovere del giudice di applicare la lex mitior, anche nel caso in cui il ricorso sia inammissibile (Sez. U, n. 46653 del 26/06/2015, Della Fazia, Rv. 265110).
Naturalmente, quando non sia in questione l’applicazione della sopravvenuta legge piu’ favorevole ai sensi dell’articolo 609 c.p.p., comma 2, la inammissibilita’ del ricorso per cassazione preclude la deducibilita’ e la rilevabilita’ di ufficio della causa di non punibilita’.
2. Appurata la rilevanza della nuova disciplina, resta da intendere quale sia il ruolo della Corte di cassazione. In proposito si e’ ripetutamente ritenuto che vada compiuta una preliminare delibazione in ordine all’applicabilita’ in astratto del nuovo istituto sulla base degli elementi di giudizio disponibili alla stregua delle risultanze processuali e della motivazione della decisione impugnata; e che, in caso di valutazione positiva, la sentenza impugnata debba essere annullata con rinvio al giudice di merito per le pertinenti valutazioni e statuizioni (oltre alle sentenze sub 1, da ultimo, Sez. 3, n. 21474 del 22/04/2015, Fantoni, Rv. 263693; Sez. 4, n. 33821 del 01/07/2015, Pasolini, Rv. 264357).
In qualche pronunzia, peraltro, e’ stata pure ritenuta la possibilita’ di applicare direttamente, ai sensi dell’articolo 620 c.p.p., comma 1, lettera l), la causa di non punibilita’ quando risulti palese dalla sentenza impugnata la ricorrenza dei presupposti oggettivi e soggettivi formali della stessa, e un apprezzamento del giudice di merito che consenta di ritenere coerente la conclusione che il caso di specie debba essere ricondotto alla previsione di cui all’articolo 131-bis cod. pen. (Sez. 6, n. 45073 del 16/09/2015, Barrara, Rv. 265224; Sez. 5, n. 48020 del 07/10/2015, V., Rv. 265467).
Il tema di cui si discute chiama effettivamente in campo l’articolo 620 c.p.p., comma 1, lettera i), che consente alla Corte di cassazione di adottare pronunzia di annullamento senza rinvio quando la restituzione del giudizio nella sede di merito e’ “superflua”; quando, cioe’, per quel che qui interessa, non e’ richiesta una valutazione sul fatto estranea al sindacato di legittimita’.
Tale norma e’ stata ripetutamente ritenuta dalle Sezioni Unite fonte per l’adozione di pronunzie assolutorie nella sede di legittimita’ (Sez. U, n. 22327 del 30/10/2003, Andreotti, Rv. 226100; Sez. U, n. 22327 del 21/05/2003, Carnevale, Rv. 224181); oltre che dalle sezioni semplici (ad es. Sez. 2, 11/11/2010, n. 41461, Franzi, Rv. 248927) Essa ha costituito pure la base normativa per applicare una causa di non punibilita’ sopravvenuta (ad es. Sez. 6, n. 9727 del 18/02/2014, Grieco, Rv 259110; Sez. 6, n. 17065 del 26/04/2012, Cirillo, Rv. 252506).
In tali situazioni la pronunzia e’ adottata ai sensi dell’articolo 129 cod. proc. pen. Ne’ un ostacolo puo’ essere rinvenuto nel fatto che tale articolo, pur dedicato nella rubrica all’obbligo della immediata declaratoria di determinate cause di non punibilita’, non fa menzione dell’ipotesi in cui ricorra una causa di non punibilita’. Invero la norma ha portata generale, sistemica. Essa, come gia’ ritenuto dalle Sezioni unite (Sez. U, n. 12283 del 25/01/2005, De Rosa, Rv. 230529), non attribuisce al giudice un potere di giudizio ulteriore ed autonomo rispetto a quello gia’ riconosciutogli dalle specifiche norme che regolano l’epilogo proscioglitivo nelle varie fasi e nei diversi gradi del processo, ma enuncia una regola di condotta rivolta al giudice che, operando in ogni stato e grado del processo, presuppone l’esercizio della giurisdizione con effettiva pienezza del contraddittorio. In breve, atteso l’indicato ruolo sistemico, l’articolo citato consente l’adozione di tutte le formule di proscioglimento.
Occorre infine aggiungere che l’applicazione del meccanismo processuale di cui si discute non e’ preclusa nell’ambito del nuovo istituto, a causa del diritto dell’imputato all’interlocuzione. Invero, il giudizio di legittimita’ e’ caratterizzato da ampio contraddittorio scritto ed orale su ogni aspetto della regiudicanda. E d’altra parte, naturalmente, la Corte non potrebbe comunque prosciogliere l’imputato con una formula meno favorevole di quella enunciata nella sentenza di merito; ma dovrebbe semmai addivenire ad esito piu’ favorevole, come nel caso di sopravvenuta prescrizione, pure se il fatto e’ specialmente tenue.
3. Resta da intendere quale sia la natura e la conformazione del giudizio demandato alla Corte di cassazione.
Anticipando quanto sara’ esposto piu’ avanti, va considerato che la valutazione sulla particolare tenuita’ del fatto richiede l’analisi e la considerazione della condotta, delle conseguenze del reato e del grado della colpevolezza. Si tratta di ponderazioni che sono parte ineliminabile del giudizio di merito e che sono conseguentemente espresse in motivazione, magari in guisa implicita. Sulla base del fatto accertato e valutato dalla sentenza impugnata, dunque, il giudice di legittimita’ e’ nella condizione di esperire il giudizio che gli e’ proprio, afferente all’applicazione della legge; di accertare, cioe’, se la fattispecie concreta e’ collocata entro il modello legale espresso dal nuovo istituto.
Conclusivamente, quando la sentenza impugnata sia anteriore alla novella, l’applicazione dell’istituto nel giudizio di legittimita’ va ritenuta o esclusa senza che si debba rinviare il processo nella sede di merito. Ove esistano le condizioni di legge, l’epilogo decisorio e’ costituito, alla luce di quanto si e’ prima esposto ed alla stregua dell’articolo 620 c.p.p., comma 1, lettera l), e articolo 129 c.p.p., da pronunzia di annullamento senza rinvio perche’ l’imputato non e’ punibile a causa della particolare tenuita’ del fatto.
4. Chiarito il contenuto del giudizio di legittimita’, occorre intendere se l’articolo 131-bis cod. pen. sia applicabile al reato oggetto del giudizio.
Il quesito di diritto devoluto alle Sezioni Unite e’ infatti “se la causa di non punibilita’ per particolare tenuita’ del fatto sia compatibile con il reato di guida in stato di ebbrezza”.
La sentenza Longoni, evocata nell’ordinanza di rimessione, ha dato risposta positiva. Si e’ considerato che il nuovo istituto si giustifica alla luce della riconosciuta graduabilita’ del reato in relazione al disvalore d’azione e d’evento nonche’ all’intensita’ della colpevolezza. Occorre, dunque, compiere una valutazione relativa al fatto concreto; verificare se la irripetibile manifestazione dell’illecito presenti un ridottissimo grado di offensivita’.
Si e’ conseguentemente ritenuto che non vi sono ostacoli ad applicare l’istituto anche ai reati di pericolo astratto o presunto. In particolare, la previsione di un valore-soglia per la configurazione del reato svolge la sua funzione sul piano della selezione categoriale, mentre la particolare tenuita’ del fatto richiede un “vaglio tra le epifanie nella dimensione effettuale”.
Il principio, si e’ aggiunto, e’ applicabile anche il relazione alla piu’ grave fattispecie di cui all’articolo 186 C.d.S., comma 2, lettera c), dovendosi considerare non solo l’entita’ dello stato di ebbrezza, ma anche le modalita’ della condotta e l’entita’ del pericolo o del danno cagionato.
Tale esito interpretativo non e’ pregiudicato dalla previsione di un minore grado di alterazione che configura un illecito amministrativo. Infatti, reato ed illecito amministrativo presentano differenze evidenti e rilevanti, che definiscono autonomi statuti e discipline differenziate. Peraltro, si e’ infine aggiunto, l’applicazione della causa di non punibilita’ presuppone l’accertamento del reato, dal quale discende l’applicazione della sanzione amministrativa accessoria ad opera del giudice penale.
5. Questo approccio non presenta aspetti critici per cio’ che attiene all’applicabilita’ del nuovo istituto al caso in esame; e le obiezioni esposte nell’ordinanza di rimessione non colgono nel segno.
Il tema, peraltro, non puo’ essere esaminato in astratto, ma richiede di partire dal dato testuale. Occorre considerare che il legislatore ha limitato il campo d’applicazione del nuovo istituto in relazione alla gravita’ del reato, desunta dalla pena edittale massima; ed alla non abitualita’ del comportamento. In tale ambito, come sara’ meglio esplicitato piu’ avanti, il fatto particolarmente tenue va individuato alla stregua di caratteri riconducibili a tre categorie di indicatori: le modalita’ della condotta, l’esiguita’ del danno o del pericolo, il grado della colpevolezza.
L’ordinanza di rimessione, dunque, non coglie nel segno e pecca di astrattezza quando lega il nuovo istituto al principio di offensivita’.
Le Sezioni Unite hanno gia’ avuto occasione, recentemente, di evocare le radici e le inespresse potenzialita’ ermeneutiche del principio di offensivita’ (Sez. U, n. 40354 del 18/07/2013, Sciuscio, Rv. 255974). Si e’ rammentata la sua costituzionalizzazione, conseguita attraverso la lettura integrata di diverse norme della legge fondamentale. Si e’ pure posto in luce (e lo si ribadisce nella presente sede) che l’interprete delle norme penali ha l’obbligo di adattarle alla Costituzione in via ermeneutica, rendendole applicabili solo ai fatti concretamente offensivi; offensivi in misura apprezzabile. I beni giuridici e la loro offesa costituiscono la chiave per una interpretazione teleologica dei fatti che renda visibile la specifica offesa gia’ contenuta nel tipo legale del fatto. Sul piano ermeneutico viene cosi’ superato lo stacco tra tipicita’ ed offensivita’. I singoli tipi di reato vanno ricostruiti in conformita’ al principio di offensivita’, sicche’ tra i molteplici significati eventualmente compatibili con la lettera della legge si dovra’ operare una scelta con l’aiuto del criterio del bene giuridico, considerando fuori del tipo di fatto incriminato i comportamenti non offensivi dell’interesse protetto. In breve, e’ proprio il parametro valutativo di offensivita’ che consente di individuare gli elementi fattuali dotati di tipicita’; e di dare contenuto tangibile alle espressioni vaghe che spesso compaiono nelle formule legali.
Da quanto precede emerge che il principio di offensivita’ attiene all’essere o non essere di un reato o di una sua circostanza; e non e’ invece implicato nell’ambito di cui ci si occupa, che riguarda per definizione fatti senza incertezze pienamente riconducibili alla fattispecie legale.
La distinzione va sottolineata, anche per rispondere alle preoccupazioni espresse da chi teme che la nuova figura, consentendo di devitalizzare vicende marginali, finisca con il depotenziare il principio di offensivita’ quale chiave per la congrua restrizione dell’area del penalmente rilevante.
6. In realta’ il nuovo istituto e’ esplicitamente, indiscutibilmente definito e disciplinato come causa di non punibilita’ e costituisce dunque figura di diritto penale sostanziale. Esso persegue finalita’ connesse ai principi di proporzione ed extrema ratio; con effetti anche in tema di deflazione. Lo scopo primario e’ quello di espungere dal circuito penale fatti marginali, che non mostrano bisogno di pena e, dunque, neppure la necessita’ di impegnare i complessi meccanismi del processo. Proporzione e deflazione s’intrecciano coerentemente.
Il dato normativo conduce senza dubbi di sorta a tale esito interpretativo. Il giudizio sulla tenuita’ del fatto richiede, infatti, una valutazione complessa che ha ad oggetto le modalita’ della condotta e l’esiguita’ del danno o del pericolo valutate ai sensi dell’articolo 133 c.p., comma 1. Si richiede, in breve, una equilibrata considerazione di tutte le peculiarita’ della fattispecie concreta; e non solo di quelle che attengono all’entita’ dell’aggressione del bene giuridico protetto.
Per cio’ che qui interessa, non esiste un’offesa tenue o grave in chiave archetipica. E’ la concreta manifestazione del reato che ne segna il disvalore. Come e’ stato persuasivamente considerato, qualunque reato, anche l’omicidio, puo’ essere tenue, come quando la condotta illecita conduce ad abbreviare la vita solo di poco.
7. Di particolare ed illuminante rilievo e’ il riferimento testuale alle modalita’ della condotta, al comportamento. La nuova normativa non si interessa della condotta tipica, bensi’ ha riguardo alle forme di estrinsecazione del comportamento, al fine di valutarne complessivamente la gravita’, l’entita’ del contrasto rispetto alla legge e conseguentemente il bisogno di pena.
Insomma, si e’ qui entro la distinzione tra fatto legale, tipico, e fatto storico, situazione reale ed irripetibile costituita da tutti gli elementi di fatto concretamente realizzati dall’agente; secondo l’insegnamento espresso nella pagina fondativa del fatto nella teoria generale del reato. Ed e’ chiaro che la novella intende per l’appunto riferirsi alla connotazione storica della condotta, essendo in questione non la conformita’ al tipo, bensi’ l’entita’ del suo complessivo disvalore.
Allora, essendo in considerazione la caratterizzazione del fatto storico nella sua interezza, non si da’ tipologia di reato per la quale non sia possibile la considerazione della modalita’ della condotta; ed in cui sia quindi inibita ontologicamente l’applicazione del nuovo istituto. L’opinione contraria manifestata dall’ordinanza di rimessione e’ deviata dalla impropria sovrapposizione tra il fatto tipico ed il fatto storico; tra l’offesa e la sua entita’.
Dunque, pure nei reati senza offesa, di disobbedienza, o comunque poveri di tratti descrittivi, contrassegnati magari da una mera omissione o da un rifiuto, la valutazione richiesta dalla legge e’ possibile e doverosa, dovendosi considerare la concreta manifestazione del fatto illecito.
Del resto, l’esperienza giuridica mostra esempi eloquenti: non e’ certo indifferente, nella ponderazione del disvalore del fatto e del bisogno di pena, se un comportamento che si estrinseca in un mero rifiuto sia accompagnato da manifestazioni di irriguardosa e violenta opposizione o sia invece dovuto ad una non completa comprensione del contesto, ovvero a concomitanti esigenze personali socialmente apprezzabili.
Per di piu’, la tesi espressa dall’ordinanza di rimessione condurrebbe a conseguenze paradossali: l’inapplicabilita’ dell’istituto ai reati bagatellari, caratterizzati di solito dall’omissione di una prescrizione, con conseguente frustrazione delle finalita’ deflative sottese alla novella. Pure per tali reati, invece, occorre considerare il contesto: l’entita’, l’oggetto, gli effetti della condotta ed ogni altro elemento significativo.
8. Tale ricostruzione dell’istituto trova ulteriore conferma nella necessita’ di compiere le valutazioni di cui si discute alla luce dell’articolo 133 c.p., comma 1.
Il richiamo mette in campo, oltre alle caratteristiche dell’azione e alla gravita’ del danno o del pericolo, anche l’intensita’ del dolo e il grado della colpa. A tale riguardo sono state manifestate perplessita’, alimentate dal timore che vengano richieste indagini complesse sulla sfera interiore, incompatibili con la spedita applicazione del nuovo istituto, e possibili cause di derive incontrollabili nell’esercizio della discrezionalita’
Si tratta di dubbi che non sono fondati. La pertinenza del richiamo emerge icasticamente dalla stessa intitolazione dell’articolo 133, dedicato alla valutazione della gravita’ del reato agli effetti della pena; atteso che il nuovo istituto e’ stato configurato proprio come una causa di esclusione della punibilita’.
D’altra parte, occorre considerare che se e’ vero che lo sviluppo del progetto normativo ha in piu’ occasioni mostrato di preferire la considerazione dei tratti piu’ obiettivabili rifuggendo dai profili interiori, tuttavia, come ormai comunemente ritenuto, anche l’elemento soggettivo del reato penetra nella tipicita’ oggettiva. Cio’ e’ particolarmente chiaro nell’ambito della colpa, ove rileva il tratto obiettivo della violazione della regola cautelare. Ma anche nell’ambito del dolo condotta e colpevolezza s’intrecciano.
Soprattutto, infine, la dottrina della colpevolezza e’ troppo profondamente legata al tema della pena e della sua commisurazione perche’ se ne possa prescindere del tutto nell’ambito della valutazione sulla sua meritevolezza richiesta dalla novella. Si vuol dire che razionalmente, nel disciplinare la graduazione dell’illecito, si e’ fatto riferimento non solo al disvalore di azione e di evento ma anche al grado della colpevolezza.
La rilevanza del profilo soggettivo emerge, del resto, dal parere espresso dalla Camera sullo schema di decreto legislativo. Si e’ considerato che il parametro della modalita’ della condotta consente valutazioni anche di natura soggettiva sul grado della colpa e sull’intensita’ del dolo; e si e’ quindi proposto di introdurre il richiamo esplicito all’articolo 133 c.p., comma 1, che compare nell’atto normativo.
Tali brevi considerazioni corroborano la prospettata ricostruzione della nuova figura giuridica. Essendo richiesta la ponderazione della colpevolezza in termini di esiguita’ e quindi la sua graduazione, e’ del tutto naturale che il giudice sia chiamato ad un apprezzamento di tutte le rilevanti contingenze che caratterizzano ciascuna vicenda concreta ed in specie di quelle afferenti alla condotta; ed e’ quindi escluso che una preclusione possa derivare dalla modesta caratterizzazione, sul piano descrittivo, della fattispecie tipica.
9. L’approccio proposto puo’ essere ripetuto in guisa non molto dissimile per cio’ che riguarda la ponderazione dell’entita’ del danno o del pericolo. Anche qui nessuna precostituita preclusione categoriale e’ consentita, dovendosi invece compiere una valutazione mirata sulla manifestazione del reato, sulle sue conseguenze.
L’ordinanza di rimessione sembra dubitare che siffatta valutazione possa esser fatta con riguardo a illeciti nei quali sia impossibile o difficile compiere un apprezzamento gradualistico rapportato all’entita’ della lesione od esposizione a pericolo di un bene giuridico; o nei quali la misurazione sia stata espressa direttamente dal legislatore attraverso l’individuazione di soglie, fasce di rilevanza penale odi graduazione dell’entita’ dell’illecito.
Pure tale dubbio e’ ingiustificato. Esso e’ ancora una volta determinato dall’idea che la valutazione afferente all’esiguita’ del fatto o dell’offesa debba essere articolata nel rispetto della tradizione che lega il principio di offensivita’ alla lesione od esposizione a pericolo del bene giuridico. Si tratta di un approccio che non tiene conto della disciplina legale.
Il legislatore, come si e’ accennato, ha esplicato una complessa elaborazione per definire l’ambito dell’istituto. Da un lato ha compiuto una graduazione qualitativa, astratta, basata sull’entita’ e sulla natura della pena; e vi ha aggiunto un elemento d’impronta personale, pure esso tipizzato, tassativo, relativo alla abitualita’ o meno del comportamento. Dall’altro lato ha demandato al giudice una ponderazione quantitativa rapportata al disvalore di azione, a quello di evento, nonche’ al grado della colpevolezza. Ha infine limitato la discrezionalita’ del giudizio escludendo alcune contingenze ritenute incompatibili con l’idea di speciale tenuita’: motivi abietti o futili, crudelta’, minorata difesa della vittima ecc..
Da tale connotazione dell’istituto emerge un dato di cruciale rilievo, che deve essere con forza rimarcato: l’esiguita’ del disvalore e’ frutto di una valutazione congiunta degli indicatori afferenti alla condotta, al danno ed alla colpevolezza. E potra’ ben accadere che si sia in presenza di elementi di giudizio di segno opposto da soppesare e bilanciare prudentemente.
Da quanto precede discende che la valutazione inerente all’entita’ del danno o del pericolo non e’ da sola sufficiente a fondare o escludere il giudizio di marginalita’ del fatto. Tale conclusione e’ desunta non solo dalla complessiva articolazione della disciplina cui si e’ sopra fatto cenno, ma anche da due argomenti specifici.
In primo luogo, il legislatore ha espressamente previsto che la nuova disciplina trova applicazione anche quando la legge prevede la particolare tenuita’ del danno o del pericolo come circostanza attenuante. Dunque, anche in presenza di un danno di speciale tenuita’ l’applicazione dell’articolo 131-bis e’ pur sempre legata anche alla considerazione dei gia’ evocati indicatori afferenti alla condotta ed alla colpevolezza.
D’altra parte, quando si e’ voluto evitare che la graduazione del reato espressa in una circostanza aggravante ragguagliata all’entita’ della lesione sia travolta da elementi di giudizio di segno opposto afferenti agli altri indicatori previsti dalla legge lo si e’ ha fatto esplicitamente: l’offesa non puo’ essere ritenuta tenue quando la condotta ha cagionato, quale conseguenza non voluta, lesioni gravissime.
In breve, e’ stata accolta in tutto e per tutto la concezione gradualistica del reato gia’ nitidamente scolpita nell’insegnamento Carrariano: “nella ricerca sul grado si esamina un fatto nelle eccezionali accidentalita’ del suo concreto modo di essere nella individualita’ criminosa nella quale si estrinseca”; e, nel rispetto della legge, tale giudizio non puo’ che essere rimesso al magistrato “perche’ l’uomo deve essere condannato secondo la verita’ e non secondo le presunzioni”. Si tratta, d’altra parte, di approccio non solo tradizionale ma anche moderno, ripreso dagli studiosi che hanno analizzato i mutevoli pesi dell’esperienza giuridica proprio per cogliervi criteri di selezione di comportamenti per l’appunto minori, meritevoli di trattamento differenziato.
10. Alla luce di tali considerazioni e’ possibile rispondere agli interrogativi che riguardano la fattispecie in esame. Essa si inscrive nella categoria degli illeciti che presentano una soglia quantitativa che segna l’ambito di rilevanza penale del fatto o che regola la gravita’ dell’offesa. Qui il dato oggetto di misurazione e’ il tasso alcoolemico.
Orbene, e’ chiaro che il superamento della soglia di rilevanza penale coglie il minimo disvalore della situazione dannosa o pericolosa. Il giudice che ritiene tenue una condotta collocata attorno all’entita’ minima del fatto conforme al tipo, contrariamente a quanto ritenuto dall’ordinanza di rimessione, non si sostituisce al legislatore, ma anzi ne recepisce fedelmente la valutazione.
Naturalmente, pure in tale caso la valutazione riguarda la fattispecie concreta nel suo complesso e quindi tutti gli aspetti gia’ piu’ volte evocati, che afferiscono alla condotta, alle conseguenze del reato ed alla colpevolezza.
Chiaramente, quanto piu’ ci si allontana dal valore-soglia tanto piu’ e’ verosimile che ci si trovi in presenza di un fatto non specialmente esiguo. Tuttavia, nessuna conclusione puo’ essere tratta in astratto, senza considerare cioe’ le peculiarita’ del caso concreto. Insomma, nessuna presunzione e’ consentita.
Tale conclusione, desunta dai principi espressi dalla nuova normativa, e’ anche perfettamente aderente al senso comune ed alla pratica giudiziaria. E’ illuminante l’esempio, gia’ evocato dalla sentenza Longoni, dell’agente che, in stato di grave alterazione alcoolica integrante la fattispecie di cui all’articolo 186, comma 2, lettera c), si pone alla guida di un’auto in un parcheggio isolato, spostandola di qualche metro e senza determinare alcuna situazione pregiudizievole.
11. Resta da esaminare l’obiezione per cui la valutazione sulla tenuita’ del fatto e’ preclusa nell’ambito delle fattispecie in cui non e’ richiesto l’accertamento della concreta pericolosita’ della condotta tipica.
A tale riguardo occorre considerare che la contravvenzione di cui si discute si inscrive effettivamente nella categoria di illeciti in cui la pericolosita’ della condotta tipica e’ tratteggiata in guisa categoriale: e’ ritenuta una volta per tutte dal legislatore, che individua comportamenti contrassegnati, alla stregua di informazioni scientifiche o di comune esperienza, dall’attitudine ad aggredire il bene oggetto di protezione. Si tratta, in breve, dei reati di pericolo presunto: nessuna indagine e’ richiesta sulla fattispecie concreta e sulla concreta pericolosita’ in relazione al bene giuridico oggetto di tutela. Si tratta, e’ bene rammentarlo, di una categoria di illeciti che trova frequente espressione in reati contravvenzionali connotati proprio dal superamento di valori soglia ritenuti per l’appunto tipicamente pericolosi.
Orbene, non e’ da credere che tale conformazione della fattispecie faccia perdere il suo ancoraggio all’idea di pericolo ed ai beni giuridici che si trovano sullo sfondo. Al contrario, come ormai diffusamente ritenuto, si tratta di illeciti che presentano un forte legame con l’archetipo della pericolosita’ e garantiscono, anzi, il rispetto del principio di tassativita’, assicurando la definita conformazione della fattispecie alla stregua di accreditate informazioni scientifiche e di razionale ponderazione degli interessi in gioco; ed eliminando gli spazi di vaghezza e discrezionalita’ connessi alla necessita’ di accertare in concreto l’offensivita’ del fatto.
Da tale ricostruzione della categoria discende che, accertata la situazione pericolosa tipica e dunque l’offesa, resta pur sempre spazio per apprezzare in concreto, alla stregua della manifestazione del reato, ed al solo fine della ponderazione in ordine alla gravita’ dell’illecito, quale sia lo sfondo fattuale nel quale la condotta si inscrive e quale sia, in conseguenza, il concreto possibile impatto pregiudizievole rispetto al bene tutelato.
Per esemplificare, non e’ per nulla indifferente nella ottica gradualistica che qui interessa, che l’irregolare scarico di acque reflue avvenga in un territorio riccamente urbanizzato, magari con fonti di approvvigionamento idrico; o che avvenga, invece, in un luogo assai remoto privo di significative connessioni, dirette o indirette, con oggetti pertinenti alla tutela ambientale.
E’ agevole, a questo punto, tradurre le indicate enunciazioni di principio nell’ambito di cui ci si occupa, non prima, pero’, di aver posto un’ultima preliminare precisazione. Non puo’ ritenersi che lo sfondo di tutela del reato di cui all’articolo 186, comma 2, sia quello della regolarita’ della circolazione. Istanze di sicurezza e regolarita’ della circolazione permeano, nel complesso, il codice della strada. Tuttavia la nostra contravvenzione ha una evidente e ben poco mediata correlazione con i beni della vita e dell’integrita’ personale. Tale conclusione non si trae solo da diretta, vivida e comune fonte esperienziale. E’ la stessa disciplina legale a fornire univoca indicazione in tal senso. Il comma 2-bis prevede che se il conducente in stato di ebbrezza provoca un incidente stradale, il reato e’ aggravato. Piu’ in generale, l’articolo 222 prevede severe sanzioni amministrative accessorie quando dalla violazione di norme del Codice derivano danni alle persone.
Dunque, conclusivamente, il doveroso apprezzamento in ordine alla gravita’ dell’illecito connesso all’applicazione dell’articolo 131-bis consente ed anzi impone di considerare se il fatto illecito abbia generato un contesto concretamente e significativamente pericoloso con riguardo ai beni indicati. Nuovamente, appare illuminante l’esempio prima proposto: non e’ indifferente che il veicolo sia stato guidato per pochi metri in un solitario parcheggio o ad elevata velocita’ in una strada affollata, magari generando un incidente.
12. Tale conclusione non e’ ostacolata neppure dalla considerazione che al di sotto della soglia di rilevanza penale esiste una fattispecie minore che integra un illecito amministrativo. Invero, come gia’ evidenziato dalla sentenza Longoni, l’illecito penale e quello amministrativo, pur essendo parti del piu’ ampio diritto punitivo, presentano differenze tanto evidenti quanto rilevanti, che delineano autonomi statuti. Tale condivisa enunciazione si pone sulla scia di ripetute prese di posizioni delle Sezioni Unite che, da ultimo, hanno avuto occasione di ribadire la piena autonomia dei connotati e dei principi delle violazioni amministrative rispetto a quelle penali (Sez. U, n. 25457 del 29/03/2012, Campagne Rudie, Rv. 252694).
Ancor piu’, occorre considerare che la pena costituisce sanzione specialmente afflittiva e reca comunque un peculiare stigma. Cio’ giustifica razionalmente che la sua inflizione sia oggetto di una speciale considerazione ispirata, appunto, dalla valutazione in ordine sua concreta necessita’.
13. Il tema da ultimo trattato impone di esaminare, infine, la questione problematica afferente agli effetti della pronunzia ex articolo 131-bis cod. pen. sulle sanzioni amministrative accessorie. Come si e’ visto, la sentenza Longoni e l’ordinanza di rimessione propongono soluzioni opposte: l’una ammette, l’altra esclude l’irrogazione di tale sanzione. Le diverse soluzioni, come pure si e’ accennato, hanno qualche riflesso nella discussione sull’applicabilita’ del nuovo istituto al reato di guida in stato di ebbrezza.
Nessuna delle due prospettazioni e’ fondata. La nuova normativa non reca alcuna indicazione al riguardo. Tuttavia, la fattispecie di cui ci si occupa e’ collocata in un organico corpus normativo che agli articoli 224 e 224-ter disciplina l’applicazione delle dette sanzioni. Quando la sentenza di condanna, di applicazione della pena ex articolo 444 cod. proc. pen. o il decreto penale sono irrevocabili, l’autorita’ amministrativa da’ corso all’esecuzione delle sanzioni accessorie disposte dal giudice. Invece, in caso di sentenza di proscioglimento, la stessa autorita’ dispone le cessazione delle eventuali misure adottate in via provvisoria: la patente ed il veicolo vengono restituiti.
La normativa si occupa pure dell’estinzione del reato per causa diversa dalla morte dell’imputato: l’amministrazione, verificata l’esistenza delle condizioni di legge, procede all’applicazione delle sanzioni amministrative.
In breve, quando manca una pronunzia di condanna o di proscioglimento, le sanzioni amministrative riprendono la loro autonomia ed entrano nella sfera di competenza dell’amministrazione pubblica. Tale regola e’ espressa testualmente con riferimento all’istituto della prescrizione, ma ha impronta per cosi’ dire residuale: e’ cioe’ dedicata alle situazioni in cui condanna o proscioglimento nel merito manchino. Essa, dunque, trova razionale applicazione anche nel contesto in esame in cui, appunto, il fatto non e’ punibile per la sua tenuita’ e non si fa quindi luogo ad una pronunzia di condanna.
Tale soluzione interpretativa, fondata sulla ritrovata autonomia della sanzione accessoria, trova conferma nell’ultimo periodo dell’articolo 224, comma 3 e dell’articolo 224-ter, comma 6: l’estinzione della pena successiva alla sentenza irrevocabile di condanna non ha effetto sull’applicazione della sanzione amministrativa accessoria. Tale enunciazione rende viepiu’ chiara la virtuale autonomia delle sanzioni amministrative, che si manifesta anche a seguito dell’estinzione delle sanzioni penali. E non vi e’ chi non veda che coerenza del sistema impone di ritenere che tale autonomia si manifesti anche nel caso in cui la punibilita’ sia esclusa a mente della nuova normativa.
Si puo’ dunque concludere che il nuovo istituto si limita, razionalmente, a richiedere un giudizio sull’utilita’ o l’inutilita’ della pena e non ha riflessi sulle sanzioni amministrative previste dal codice della strada, che sono governate da istanze e regole distinte.
Da tutto quanto precede si trae la definitiva conclusione che nessuna preclusione osta all’applicazione della nuova normativa al reato in discussione.
14. Come si e’ sopra accennato, l’ambito applicativo del nuovo istituto e’ definito non solo dalla gravita’ del reato desunta dalla pena edittale, ma anche da un profilo soggettivo afferente alla non abitualita’ del comportamento. Tale ultimo aspetto presenta concreta rilevanza nel presente giudizio. Infatti, dal certificato penale emerge che l’imputato ha subito condanne per violazione delle norme sulla immigrazione clandestina, con pena sospesa; guida in stato di ebbrezza; guida senza patente; uso di atto falso e violazione dell’obbligo di fermarsi in caso di incidente. Occorre dunque intendere quale sia la portata del terzo comma dell’articolo 131-bis che definisce il comportamento abituale.
Sebbene la relazione al decreto legislativo ritenga esemplificative le indicazioni offerte dalla norma, e’ condivisibile l’opinione diffusa ed autorevole che si sia in presenza di norma tassativa, di tipizzazione dell’abitualita’. Tale interpretazione e’ confermata dal fatto che il progetto originario aveva deliberatamente omesso di definire l’abitualita’ al fine di lasciare al giudice spazi di manovra che, invece, il legislatore ha evidentemente ritenuto di dover eliminare.
Il testo della legge lascia subito intendere che il nuovo istituto dell’abitualita’ e’ frutto del sottosistema generato dalla riforma ed al suo interno deve essere letto. Sarebbe dunque fuorviante riferirsi esclusivamente alle categorie tradizionali, come quelle della condanna e della recidiva. In breve, secondo opinione comune e condivisa, la norma intende escludere dall’ambito della particolare tenuita’ del fatto comportamenti “seriali”.
Alcune indicazioni della nuova normativa sono chiare, atteso il riferimento ad istituti codicistici: delinquente abituale, professionale, per tendenza.
Parimenti non oscuro e’ il riferimento alla commissione di “piu’ reati della stessa indole”. In primo luogo, non si parla di condanne ma di reati. Inoltre, il tenore letterale lascia intendere che l’abitualita’ si concretizza in presenza di una pluralita’ di illeciti della stessa indole (dunque almeno due) diversi da quello oggetto del procedimento nel quale si pone la questione dell’applicabilita’ dell’articolo 131-bis. In breve, il terzo illecito della medesima indole da’ legalmente luogo alla serialita’ che osta all’applicazione dell’istituto.
Tale interpretazione e’ in linea con l’idea di serialita’ delle condotte che, come si e’ accennato, ha dall’inizio accompagnato l’iter del decreto, ma e’ controversa. Esiste, tuttavia un dato testuale che risulta dirimente. La Commissione Giustizia, nel vagliare lo schema di decreto legislativo, ne ha richiesto l’adeguamento con l’introduzione di un comma dedicato alla definizione dell’abitualita’ del comportamento recante la previsione che “Il comportamento risulta abituale nel caso in cui il suo autore… abbia commesso altri reati della stessa indole”. Tale formula e’ stata in effetti riportata nell’atto normativo con una piccola e sicuramente accidentale variazione: l’espressione “altri reati” e’ divenuta “piu’ reati”. Dunque tenendo a base il testo indicato dalla Camera e la sua ratio, emerge che l’alterita’ al plurale dei reati diversi da quello oggetto del processo non lascia dubbio che la serialita’ ostativa si realizza quando l’autore faccia seguire a due reati della stessa indole un’ulteriore, analoga condotta illecita.
I reati possono ben essere successivi a quello in esame, perche’ si verte in un ambito diverso da quello della disciplina legale della recidiva; ed e’ in questione un distinto apprezzamento in ordine, appunto, alla serialita’ dei comportamenti.
La pluralita’ dei reati puo’ concretarsi non solo in presenza di condanne irrevocabili, ma anche nel caso in cui gli illeciti si trovino al cospetto del giudice che, dunque, e’ in grado di valutarne l’esistenza; come ad esempio nel caso in cui il procedimento riguardi distinti reati della stessa indole, anche se tenui.
Ulteriore questione e’ se il reato ritenuto non punibile per tenuita’ (e conseguentemente iscritto nel casellario) rilevi ed in che modo ai fini di cui si discute. A tale riguardo occorre premettere che la procedura di memorizzazione delle pronunzie adottate per tenuita’ dell’offesa costituisce strumento essenziale per la stessa razionalita’ ed utilita’ dell’istituto. Infatti e’ agevole cogliere che l’assenza di annotazione determinerebbe, incongruamente, la possibilita’ di concessione della non punibilta’ molte volte nei confronti della stessa persona.
Ne’ appaiono condivisibili le preoccupazioni di chi vede in tale memorizzazione un vulnus a diritti fondamentali, quando l’accertamento dell’esistenza del reato implicato in tale genere di pronunzia non sia avvenuto all’esito del giudizio. Tali perplessita’ non tengono conto del fatto che l’annotazione e’ l’antidoto indispensabile contro l’abuso dell’istituto. Se questo e’ il trasparente scopo della previsione, non si scorge per quale ragione chi abbia fruito del beneficio all’esito di una procedura che lo ha personalmente coinvolto, possa dolersi della discussa annotazione. Occorre tuttavia ribadire che la trascrizione della decisione serve e rileva solo all’interno del sottosistema di cui ci si occupa.
Il rilievo dell’accertamento in ordine all’esistenza dell’illecito implicato dalla dichiarazione di non punibilita’ e’ allora esattamente e solo quello di costituire un “reato” che, sommato agli altri della stessa indole richiesti dalla legge nei termini di cui si e’ detto, da’ luogo alla legale abitualita’ del comportamento.
Insomma, nella valutazione complessiva afferente al giudizio di abitualita’ ben potranno essere congiuntamente considerati reati oggetto di giudizio ed illeciti accertati per cosi’ dire incidentalmente ex articolo 131-bis.
Infine e’ da considerare l’ultima categoria di reati Indicati dalla norma: quelli che hanno ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate. Il legislatore evoca senz’altro, in primo luogo, reati che presentano l’abitualita’ come tratto tipico: il pensiero corre subito, esemplificativamente, al reato di maltrattamenti in famiglia. Analogamente per cio’ che riguarda i reati che presentano nel tipo condotte reiterate. Anche qui un esempio si rinviene agevolmente nel reato di atti persecutori. In tali ambiti, puo’ dirsi, la serialita’ e’ un elemento della fattispecie ed e’ quindi sufficiente a configurare l’abitualita’ che esclude l’applicazione della disciplina; senza che occorra verificare la presenza di distinti reati.
Meno agevole e’ intendere il riferimento alle condotte plurime. Non e’ tuttavia inevitabile liberarsi del problema interpretativo ritenendo che si sia in presenza di una mera, sciatta ripetizione di cio’ che e’ stato denominato abituale o reiterato; ed occorre piuttosto cercare di dare un distinto senso all’espressione. Orbene, l’unica praticabile soluzione interpretativa e’ quella di ritenere che si sia fatto riferimento a fattispecie concrete nelle quali si sia in presenza di ripetute, distinte condotte implicate nello sviluppo degli accadimenti. Anche qui un esempio: un reato di lesioni colpose commesso con violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro, generato dalla mancata adozione di distinte misure di prevenzione, da un consolidato regime di disinteresse per la sicurezza. In una situazione di tale genere la pluralita’ e magari la protrazione dei comportamenti colposi imprime al reato un carattere seriale, id est abituale.
15. I principi sin qui esposti possono essere sintetizzati come segue.
“L’articolo 131-bis cod. pen. si applica ad ogni fattispecie criminosa, in presenza dei presupposti e nel rispetto dei limiti fissati dalla medesima norma”.
“Il comportamento e’ abituale quando l’autore ha commesso, anche successivamente, piu’ reati della stessa indole, oltre quello oggetto del procedimento”.
“Alla esclusione della punibilita’ per particolare tenuita’ del fatto consegue l’applicazione, demandata al Prefetto, delle sanzioni amministrative accessorie stabilite dalla legge”.
“La inammissibilita’ del ricorso per cassazione preclude la deducibilita’ e la rilevabilita’ di ufficio di tale causa di esclusione della punibilita’”.
“Nei soli procedimenti pendenti davanti alla Corte di cassazione per fatti commessi prima dell’entrata in vigore della nuova normativa, la relativa questione, in applicazione dell’articolo 2 c.p., comma 4, e’ deducibile e rilevabile d’ufficio ai sensi dell’articolo 609 c.p.p., comma 2”.
“La Corte di cassazione, se riconosce la sussistenza di tale causa di non punibilita’, la dichiara d’ufficio ex articolo 129 c.p.p., comma 1, annullando senza rinvio la sentenza impugnata a norma dell’articolo 620 c.p.p., comma 1, lettera l)”.
16. Alla luce di tale lettura della disciplina legale occorre ritenere che le indicate precedenti condanne configurino l’abitualita’ del comportamento che esclude l’applicazione del nuovo istituto. Infatti, anche a tralasciare la condanna per guida senza patente, illecito recentemente depenalizzato, figurano le indicate due condanne per illeciti previsti dal codice della strada che vanno senz’altro ritenute della stessa indole di quella oggetto del presente giudizio.
E’ sufficiente rammentare, a tale proposito, che l’articolo 101 cod. pen. reca una definizione di illecito della stessa indole che individua due categorie: una formale, riferita alla violazione della stessa disposizione di legge, ed una per cosi’ dire sostanziale, connessa ai caratteri fondamentali comuni dovuti alla natura dei fatti che li costituiscono o ai motivi determinanti.
La categoria sostanziale individua diversi parametri, di cui va rimarcata la alternativita’; e che, per espressa enunciazione della definizione legale, afferiscono ai casi concreti. Il primo parametro, d’impronta oggettiva, attiene alla natura dei fatti. L’altro, soggettivo, coglie i motivi determinanti, le finalita’ della condotte.
Interessa qui considerare che il parametro oggettivo, nella sua vaghezza legata all’evocazione della natura dei fatti, chiama in causa diversi fattori. Da un lato la natura dei beni giuridici protetti dalle diverse incriminazioni che, con tutta evidenza, costituisce il piu’ sicuro e tangibile “collante” tra i reati; dall’altro le connotazioni delle diverse condotte concrete, che pure possono ben esprimere le sostanziali connessioni tra gli illeciti rilevanti ai fini del giudizio affidato al giudice.
Gia’ In passato la Corte di cassazione ha colto, non sempre organicamente, la indicata varieta’ di parametri che, alternativamente, valgono a definire la stessa indole dei reati, ponendo l’accento sul bene giuridico e sulle modalita’ esecutive (da ultimo, Sez. 6, n. 53590 del 20/11/2014, Genchi, Rv. 261869; Sez. 1, n. 44255, del 17/09/2014, Durdev, Rv. 260800; Sez. 1, n. 27906 del 15/04/20/14, Stocco, Rv. 260500). Si e’ in particolare fatto riferimento, tra l’altro, alle circostanze oggettive, alle condizioni di ambiente e di persona nelle quali le azioni sono state compiute, ad aspetti che in qualche guisa rendano evidente l’inclinazione verso un’identica tipologia criminosa, a modalita’ di esecuzione che rivelino una propensione verso la medesima tecnica delittuosa (Sez. 3, n. 3362 del 04/10/1996, Barrese, Rv. 206531).
Tale varieta’ dei parametri rende chiaro che il criterio classificatorio prescinde dalla distinzione tra delitti e contravvenzioni, reati dolosi e colposi.
D’altra parte va rimarcato, per l’interesse che la questione presenta nel presente giudizio, che il ripetuto, condiviso riferimento all’importante criterio dell’identita’ o affinita’ del bene giuridico proietta la valutazione di cui si discute in una dimensione categoriale; e la allontana dall’ambito delle contingenti vicende giuridiche. Cio’ conduce a ritenere che si tratta di valutazione afferente alla sfera legale e quindi non estranea al giudizio di legittimita’.
Orbene, il criterio oggettivo del bene giuridico accomuna i reati di cui all’articolo 186 C.d.S., comma 2, e articolo 189 C.d.S., commi 6 e 7. Infatti, come si e’ sopra accennato, le indicate incriminazioni vietano comportamenti posti in essere nell’ambito della circolazione stradale che rischiano di determinare o aggravare conseguenze lesive nei confronti delle persone e quindi, sia pure in modo mediato, colgono i beni giuridici della vita e dell’integrita’ personale.
Dunque, conclusivamente, essendosi in presenza di comportamento abituale desunto dalla serialita’ dei reati, non vi sono le condizioni per l’applicazione al caso in esame dell’istituto di cui all’articolo 131-bis cod. pen..
17. Il primo ed il terzo motivo di ricorso sono privi di pregio. La pronunzia impugnata considera che l’imputato ha riportato numerose condanne anche per reati analoghi ed ha gia’ fruito della sospensione condizionale della pena. Se ne inferisce che la prognosi e’ assolutamente negativa; e quindi, con implicita evidenza, che non vi sono le condizioni per la concessione del richiesto beneficio della sospensione condizionale della pena.
Pur in presenza di tale negativo profilo di personalita’, la pena e’ stata comunque diminuita per effetto dell’esclusione dell’aggravante.
Si tratta di valutazioni basate su significativi elementi di giudizio ed immuni da vizi logici o giuridici; e quindi non sindacabili nella presente sede di legittimita’.
Il ricorso deve essere conseguentemente rigettato. Segue per legge la condanna al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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