In tema di patteggiamento

Corte di Cassazione, sezione sesta penale, Sentenza 3 aprile 2019, n. 14721.

La massima estrapolata:

In tema di patteggiamento, è inammissibile il ricorso per cassazione proposto in ordine al vizio della motivazione concernente la durata della sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida. (In motivazione, la Corte ha precisato che l’accettazione della definizione del procedimento con il rito alternativo implica l’applicazione dello speciale regime per l’impugnazione anche con riguardo ai punti della decisione sottratti all’accordo tra le parti).

Sentenza 3 aprile 2019, n. 14721

Data udienza 19 dicembre 2018

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MOGINI Stefano – Presidente

Dott. TRONCI Andrea – rel. Consigliere

Dott. AGLIASTRO Mirella – Consigliere

Dott. CAPOZZI Angelo – Consigliere

Dott. SCALIA Laura – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato il (OMISSIS);
avverso la sentenza del 06/03/2018 del G.U.P. del TRIBUNALE di BUSTO ARSIZIO;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso, sentita la relazione svolta dal consigliere Dott. Andrea Tronci;
letto il parere del P.M., in persona del Sost. Proc. Gen. Dott. Di Nardo Marilia, che ha chiesto dichiararsi l’inammissibilita’ del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. L’avv. (OMISSIS), nell’interesse di (OMISSIS), impugna la sentenza indicata in epigrafe, con cui il G.u.p. del Tribunale di Busto Arsizio, sull’accordo delle parti, ha applicato all’imputato la pena di mesi due e giorni venti di reclusione, in relazione al delitto contestato, qualificato ai sensi dell’articolo 336 c.p., e quella ulteriore di mesi due, giorni venti di arresto ed Euro 800,00 di ammenda, in relazione al fatto contravvenzionale ascritto, ex articolo 186 C.d.S., comma 7, determinando inoltre in misura di mesi dodici la durata della sanzione accessoria della sospensione della patente di guida.
Assume il legale ricorrente, con riferimento appunto a tale ultima statuizione, che, essendosi discostato il giudice dalla durata minima della sanzione accessoria, fissata dalla legge in mesi sei, avrebbe dovuto dar conto dei parametri valorizzati onde pervenire a siffatta decisione, correlativamente allo “specifico obbligo motivazionale” in tal caso gravante a suo carico, il cui mancato adempimento non potrebbe che condurre all’annullamento, in parte qua, dell’impugnata sentenza.
2. Il P.G. in sede ha chiesto dichiararsi l’inammissibilita’ del ricorso, nel caso di specie dovendosi ritenere di fatto assolto l’obbligo di motivazione.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Reputa il Collegio che la richiesta del requirente P.G. meriti accoglimento e pero’ sia opportuno soffermarsi sulle reali ragioni a supporto di siffatta decisione.
2. Il P.G., richiamandosi alla giurisprudenza di questa Corte, ha sostenuto che l’anzidetto obbligo di motivazione, da assolversi nelle forme agili connesse alla peculiarita’ del rito prescelto, deve intendersi implicitamente assolto, qualora la sanzione non vada oltre la media edittale, in assenza di specifici elementi, suscettibili di essere apprezzati a beneficio dell’imputato, che qui non sono stati nemmeno allegati (cfr. Sez. 4, sent. n. 21574 del 29.01.2014, Rv. 259211; v. anche Sez. 4, sent. n. 35839 del 12.03.2013, Rv. 256956, di annullamento della pronuncia che aveva applicato la sanzione nel massimo allora previsto, in assenza di motivazione di sorta, nonche’ Sez. 4, sent. n. 21194 del 27.03.2012, Rv. 252738).
Per l’effetto, facendo applicazione di siffatto criterio al caso in esame, e’ pervenuto alla conclusione che, a fronte di una durata media della sanzione della sospensione della patente di guida pari a quindici mesi – valore intermedio, appunto, fra il minimo di mesi sei ed il massimo di anni due – il giudice di Busto Arsizio si e’ attestato su di un valore inferiore a quello intermedio, che troverebbe percio’ implicitamente la propria ragion d’essere nella valutazione della condotta posta in essere e della personalita’ del soggetto agente, adeguatamente illustratata dalla disamina complessiva del comportamento tenuto nella vicenda per cui e’ processo.
3. Siffatte considerazioni sono indubbiamente in se’ corrette, ma il Collegio e’ dell’avviso che l’inammissibilita’ del ricorso discenda da preliminari ragioni di fondo, sulle quali e’ pertanto necessario soffermarsi.
4. Costituisce ius receptum l’elaborazione giurisprudenziale formatasi in tema di c.d. sentenza patteggiata, ai sensi dell’articolo 444 c.p.p., per cui, in sede di applicazione della pena su richiesta delle parti, la valenza dell’accordo fra le stesse intervenuto – purche’ validamente, com’e’ ovvio – e’ tale da esonerare l’accusa dall’onere della prova e comportare che la sentenza che abbia recepito l’accordo medesimo e’ da considerare sufficientemente motivata con una succinta descrizione del fatto (anche deducibile dal capo d’imputazione); con l’affermazione della correttezza della sua qualificazione giuridica; con il richiamo all’articolo 129 codice di rito (sufficiente a dar conto dell’avvenuta pertinente delibazione, onde escludere la ricorrenza di alcuna delle ipotesi ivi previste); ancora e da ultimo, con la verifica della congruita’ della pena patteggiata ai fini e nei limiti di cui all’articolo 27 Cost. (senza necessita’ di specifica motivazione con riferimento ai singoli passaggi, fermo l’accertamento del carattere non illegale della pena medesima: cfr. in termini, seppur con riferimento ad una questione relativa all’entita’ degli aumenti apportati a titolo di continuazione, Cass. Sez. 6, sent. n. 7401 del 31.01.2013, Rv. 254879).
Di qui la conclusione giusta la quale, antecedentemente all’entrata in vigore della L. 23 giugno 2017, n. 103, in assenza di specifiche disposizioni da parte del codice di rito, esplicito solo nel prevedere l’inappellabilita’ della sentenza di cui all’articolo 444 c.p.p. (salva, non a caso, l’ipotesi di applicazione della relativa riduzione da parte del giudice del dibattimento, all’esito dell’espletata istruttoria, celebratasi per via del dissenso manifestato dal pubblico ministero di fronte alla tempestiva formulazione o reiterazione dell’istanza ad opera della difesa: cfr. il pregresso articolo 448 cit. codice), la latitudine del ricorso per cassazione doveva ritenersi circoscritta e delimitata dalle specifiche caratteristiche della motivazione propria del rito, quale sopra tratteggiata.
Paradigmatica, per tutte, e’ la massima seguente, con cui, appunto in sintonia con i principi dianzi enunciati, si affermava che:
“E’ inammissibile il ricorso per cassazione proposto nei confronti della sentenza di patteggiamento e diretto a far valere asseriti vizi afferenti a questioni incompatibili con la richiesta di patteggiamento formulata per il fatto contestato e per la relativa qualificazione giuridica risultante dalla contestazione, poiche’ l’accusa, come giuridicamente formulata, non puo’ essere rimessa in discussione, in quanto l’applicazione concordata della pena presuppone la rinuncia a far valere qualunque eccezione di nullita’, anche assoluta, diversa da quelle attinenti alla richiesta di patteggiamento ed al consenso ad essa prestato” (cosi’ Cass. Sez. 5, sent. n. 21287 del 25.03.2010, Rv. 247539, ma vedi gia’ Sez. U., sent. n. 5777 del 27.03.1992, Di Benedetto, Rv. 191135).
4.1 Parallelamente, pur dopo qualche oscillazione, la giurisprudenza di legittimita’ si e’ assestata nello statuire che le pene accessorie, la confisca e, piu’ in generale, le misure di sicurezza – tenendo naturalmente conto delle differenze fra patteggiamento c.d. “allargato” e non – esulino dalla disponibilita’ delle parti, onde tali punti, ove pure ricompresi nell’ambito dell’accordo raggiunto, non possono condizionare il giudice, il quale non e’ quindi in alcun modo obbligato a recepire i termini dell’intesa in proposito, essendo vincolato solo dalle componenti dell’accordo medesimo inerenti a punti di cui le stesse possono effettivamente disporre (cfr. Sez. 2, sent. n. 19945 del 19.04.2012, Rv. 252825; Sez. 5, sent. n. 1154 del 22.03.2013 – dep. 2014, Rv. 258819; Sez. 2, sent. n. 1934 del 18.12.2015 – dep. 2016, Rv. 265823). Con il connesso corollario, per cui, non operando in tale ambito la rinuncia dell’imputato ad avvalersi del concreto esercizio delle sue facolta’ difensive – da intendersi, ad un tempo, come ragione legittimante l’estrema sinteticita’ della motivazione propria della sentenza che definisce il giudizio connotato dal ricorso al rito speciale di cui trattasi, giusta Sez. U., sent. n. 10372 del 27.09.1995, Serafino, Rv. 202270 – compete al giudice l’obbligo di fornire adeguata giustificazione delle statuizioni assunte, massimamente ove egli si sia determinato in senso difforme rispetto alla (pur non dirimente) indicazione delle parti (cfr., in particolare sul punto, Sez. 6, sent. n. 54977 del 14.10.2016, Rv. 268740; piu’ in generale, v. Sez. 2, sent. n. 3247 del 18.09.2013 – dep. 2014, Rv. 258546; Sez. 6, sent. n. 11497 del 21.10.2013 – dep.- 2014, Rv. 260879; Sez. 2, sent. n. 6618 del 21.01.2014, Rv. 258275; Sez. 3, sent. n. 2444 del 23.10.2014 – dep. 2015, Rv. 262339; Sez. 5, sent. n. 32678 dell’11.03.2015, Rv. 264254, tutte in tema di confisca).
5. Com’e’ noto, il contesto normativo di riferimento e’ mutato con l’entrata in vigore della richiamata L. n. 103 del 2017, cui si deve, ferma restando l’immutata struttura della sentenza ex articolo 444 c.p.p., l’introduzione dell’articolo 448 codice di rito, comma 2 bis che recita: “Il pubblico ministero e l’imputato possono proporre ricorso per cassazione contro la sentenza solo per motivi attinenti all’espressione della volonta’ dell’imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all’erronea qualificazione giuridica del fatto e all’illegalita’ della pena o della misura di sicurezza”. Ne consegue la doverosa verifica degli approdi giurisprudenziali in precedenza tratteggiati, con riguardo all’ambito dell’impugnazione di legittimita’, alla luce del rinnovato quadro di diritto positivo.
6. Per certi versi, il dato testuale e’ di indiscutibile chiarezza e trova coerente riscontro nella ratio dell’intervento del legislatore del 2017, quale esplicitata nel corso dei lavori parlamentari che hanno condotto all’approvazione della legge in questione, posto che nella “Relazione governativa” di accompagnamento dell’originario disegno di legge (A.Euro 2798 – XVII Legislatura), con specifico riferimento alla disposizione che qui interessa, poi confluita nella piu’ volte citata L. n. 103 del 2017, articolo 1, comma 50 e’ dato leggere un espresso giudizio di non “meritevolezza” della “attuale troppo ampia ricorribilita’ per cassazione”, alla stregua del constatato esito in termini d’inammissibilita’ di larga parte dei ricorsi proposti in materia, si’ da imporre un intervento volto a restringere gli spazi d’impugnazione, onde evitare un “inutile dispendio di tempi e di costi organizzativi… a fronte della gia’ disposta soluzione negoziale del caso”.
Cosi’, non solo vengono recepiti e cristallizzati in formale disposizione di legge gli esiti dell’elaborazione giurisprudenziale, nei termini che si sono in precedenza sintetizzati, ma anzi, pur senza incidere sul persistente obbligo del giudice di accertare l’eventuale sussistenza di cause di proscioglimento a mente dell’articolo 129 c.p.p., si sancisce che l’eventuale vizio di motivazione sul punto non puo’ piu’ essere oggetto di ricorso per cassazione, in tal modo viepiu’ circoscrivendo la gia’ limitata ricorribilita’ per cassazione della pronuncia di cui all’articolo 444 c.p.p., attraverso l’ulteriore valorizzazione del riconoscimento di responsabilita’ implicito nel consenso prestato dall’imputato, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, all’adozione della sentenza in questione (cfr., anche in motivazione, Sez. 2, sent. n. 4727 dell’11.01.2018, Rv. 272014). E, per altro verso e lungo la medesima linea, si stabiliscono i “paletti” in tema di ricorribilita’ della statuizione che, in seno a detta sentenza, abbia avuto ad oggetto l’irrogazione di una misura di sicurezza – dunque, in primo luogo, la confisca – limitando la possibilita’ di aggredirla, ancora una volta, sul solo versante della sua “illegalita’”, con esclusione del vizio di motivazione (cfr. Sez. 6, sent. n. 52205 del 16.10.2018, Rv. 274292, nonche’ Sez. 6, sent. n. 3819 del 19.12.2018 – dep. 2019, Boutamara, n. m.), ancorche’ talune pronunce di questa Corte, indipendentemente dalla soluzione adottata, affermino tralaticiamente, pur dopo l’entrata in vigore della L. n. 103 del 2017, la ricorribilita’ per vizio di motivazione della statuizione di confisca, in quanto estranea all’accordo fra le parti, senza operare il doveroso distinguo fra i distinti piani della completezza del discorso argomentativo e dei limiti alla possibilita’ di proporre impugnazione (cfr. Sez. 3, sent. n. 30064 del 23.05.2018, Rv. 273830, e Sez. 4, sent. n. 22824 del 17.04.2018, n. m.).
7. Le considerazioni che precedono sono funzionali all’annotazione piu’ significativa che scaturisce dall’intervento legislativo del giugno 2017, rilevante dal punto di vista sistematico.
Il vigente articolo 448 c.p.p., comma 2 bis, nel tratteggiare, per la prima volta, la specifica disciplina cui va ancorata la proponibilita’ del ricorso per cassazione avverso la pronuncia di patteggiamento, definisce per tale tipo di sentenza un regime apposito, nel quale la casistica che legittima l’utilizzo di siffatto mezzo d’impugnazione – come opportunamente puntualizzato nella gia’ richiamata sentenza Boutamara, n. 3819/2019 – e’ individuata “in modo tassativo e derogatorio” rispetto alla previsione di ordine generale, “anche in riferimento a punti della decisione, quale quello relativo all’applicazione di misure di sicurezza (espressamente ricorribile solo in caso di illegalita’ della disposta misura), certamente estranei all’accordo delle parti”.
Il corollario che ne consegue, inevitabile, e’ il venir meno della possibilita’ di “costruire” il ricorso per cassazione in subiecta materia, sia pur con gli “adattamenti” imposti dalla peculiare tipologia della sentenza emessa ai sensi dell’articolo 444 codice di rito, alla stregua della disposizione generale di cui all’articolo 606, comma 1 cit. codice, per effetto del rinvio dettato dal successivo comma 2 medesimo articolo per l’ipotesi di sentenze inappellabili: cio’, appunto, in quanto la disciplina di carattere generale e’ superata da quella di tipo speciale dettata dal piu’ volte citato articolo 448, comma 2 bis.
8. Giunti a tale stadio del discorso, occorre affrontare la problematica, peraltro strettamente connessa a quanto fin qui rappresentato, che direttamente inerisce al presente giudizio: quella, cioe’, afferente alla possibilita’ d’impugnazione che investa la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida dell’imputato, con peculiare riguardo al profilo della durata della stessa e, quindi, della motivazione a tal fine necessaria.
Potrebbe sostenersi in proposito che il silenzio serbato dall’articolo 448 c.p.p., comma 2 bis relativamente alle sanzioni amministrative accessorie, quale pacificamente e’ la sospensione della patente di guida di cui all’articolo 186 C.d.S., comma 7, consente il rinvio alle disposizioni generali in tema d’impugnazione di legittimita’ e tale e’ stato, in effetti, il ragionamento svolto dalla sentenza della Sezione 4 di questa Corte n. 29179 del 23.05.2018 (Rv. 273091): detta sentenza, infatti, ancorche’ con riferimento alla differente ipotesi del ricorso proposto dal pubblico ministero avverso la pronuncia ex articolo 444 c.p.p. risultata monca dell’applicazione della sanzione anzidetta, si e’ espressa per l’ammissibilita’ della relativa impugnazione, appunto ravvisandone la giustificazione nella persistente operativita’ della disciplina generale di cui all’articolo 606 codice di rito, asseritamente legittimata dal carattere autonomo delle sanzioni amministrative accessorie, come tale non riconducibile alle categorie della pena e delle misure di sicurezza, cui ha riguardo il vigente articolo 448 c.p.p., comma 2 bis, nei termini risultanti dall’interpolazione compiuta dalla L. n. 103 del 2017.
8.1 L’assunto non puo’ essere condiviso.
A dar conto del convincimento del Collegio sta l’evidente asimettria che si verrebbe ad introdurre nel sistema dell’impugnazione della sentenza di cui all’articolo 444 codice di rito: da un lato, le radicali restrizioni indiscutibilmente esistenti, sul piano del vizio di motivazione, per le statuizioni aventi ad oggetto il trattamento sanzionatorio, come pure le misure di sicurezza, nonostante l’estraneita’ di queste ultime al perimetro dell’accordo negoziale; dall’altro, le statuizioni concernenti le sanzioni amministrative accessorie che – sole – non soffrirebbero per contro di limitazione alcuna. Asimmettria da ritenersi priva di razionale giustificazione, sol che si consideri la maggiore latitudine che verrebbe in tal modo a caratterizzare la possibilita’ di reazione riconosciuta avverso la sanzione amministrativa accessoria, rispetto a quella nei confronti del reato, cui pure la prima inerisce quale automatica conseguenza, svolgendo una funzione riparatoria dell’interesse pubblico correlato al valore primario tutelato dalla norma penale, al punto di esserne demandata l’applicazione al giudice penale, essendo ripristinata l’ordinaria competenza prefettizia solo nelle ipotesi di estinzione del reato per causa diversa dalla morte dell’imputato, ex articolo 224 C.d.S., comma 3, in quanto significative del venir meno della vis attractiva esercitata dal giudizio penale.
Peraltro, non e’ inutile rimarcare, a maggior supporto di quanto precede, che, avendo avuto modo di puntualizzare gia’ da tempo risalente le Sezioni Unite di questa Corte che l’applicazione della sanzione di cui trattasi e’ pienamente compatibile con la pur peculiare struttura del giudizio definito con la sentenza di cui all’articolo 444 codice di rito, alla luce delle verifiche sulla legalita’ dell’accordo fra le parti e sulla corrispondenza tra fatto e fattispecie legale (cfr. Sez. U., sent. n. 8488 del 27.05.1998, Bosio, Rv. 210981, nella cui parte motiva leggesi che l’assenza di cause di proscioglimento, ex articolo 129 c.p.p. – che comunque continua a connotare la struttura della sentenza di applicazione della pena – e’ solo uno strumento ulteriore di conoscenza del fatto), la constatazione del controllo comunque consentito al giudice di legittimita’ sulla “espressione della volonta’ dell’imputato”, in funzione della legalita’ dell’accordo, nonche’ sul “difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza” e sulla “erronea qualificazione giuridica del fatto”, vale ad assicurare adeguato rispetto delle prerogative difensive anche con riferimento alle sanzioni amministrative accessorie, tenuto conto altresi’ dell’accertamento ulteriore, anche in sede d’impugnazione per cassazione, della legalita’ della irrogazione delle sanzioni medesime: cio’ che si rapporta direttamente al principio di legalita’, sancito dalla fondamentale L. 24 novembre 1981, n. 689, articolo 1 (cfr. Sez. 4, sent. n. 18081 del 24.03.2015, Rv. 263596, al di la’ del riferimento, ivi contenuto, alla rilevabilita’ di tale vizio nel giudizio di legittimita’ pur in presenza di ricorso tardivo, da ritenersi senza meno superato alla stregua della enunciazione di cui a Sez. U., sent. n. 47766 del 26.06.2015, Butera, Rv. 265106).
In definitiva, pertanto, la possibilita’ di dedurre un vizio di motivazione, quanto alla durata della sanzione amministrativa accessoria applicata, deve reputarsi precluso dal dettato dell’articolo 448 c.p.p., comma 2 bis, che e’ significativo segnalare essere stato richiamato da altra sentenza di questa Corte, onde escludere che la formalizzazione di un preteso vizio “di intelligenza da parte dell’imputato della conseguente applicazione di una sanzione amministrativa accessoria” potesse esser posto a fondamento del ricorso proposto avverso la sentenza emessa ai sensi dell’articolo 444 codice di rito (cfr. Sez. 4, sent. n. 54580 del 19.09.2018, Rv. 274505; si veda altresi’ Sez. 3, sent. n. 45559 del 07.03.2018, Rv. 273950, che, sia pur in un caso affatto peculiare che potrebbe evocare altre considerazioni, pone a fondamento della decisione adottata la disciplina dettata per l’impugnazione dall’articolo 448, comma 2 bis).
9. Conclusivamente, rileva il Collegio che l’assetto della ricorribilita’ per cassazione della sentenza di applicazione della pena, quale delineato dal ripetutamente menzionato articolo 448 c.p.p., comma 2 bis, e’ da reputarsi senza meno conforme ai parametri costituzionali e convenzionali.
Invero, la scelta del rito alternativo – che non sia inficiata da vizi afferenti all’espressione della volonta’ dell’imputato, la cui presenza si e’ visto legittimare pubblico ministero e imputato al ricorso per cassazione ai sensi dello stesso articolo 448, comma 2 bis – vale a dar conto ragionevolmente della consapevole accettazione, da parte degli interessati, del peculiare e circoscritto regime di impugnazione definito dalle nuove norme. Cio’ anche con riferimento ai punti della sentenza di patteggiamento che, pur estranei ai termini dell’accordo sulla pena, rientrano tuttavia in un’area di ragionevole prevedibilita’, come appunto nel caso della sanzione amministrativa accessoria di cui trattasi, l’applicazione della quale discende direttamente dalla sussistenza del fatto di reato oggetto della sentenza e di cui la legge contempla specie, oggetto e durata (o ammontare).
D’altro canto, detto convincimento deve ritenersi viepiu’ confermato dalla previsione di una specifica disciplina transitoria, avendo il legislatore stabilito, L. n. 103 del 2017, ex articolo 1, comma 51 che il novellato articolo 448 c.p.p., comma 2 bis si applica solo ai procedimenti nei quali la richiesta di applicazione della pena sia stata presentata successivamente alla entrata in vigore della legge di modifica: cio’ che vale a richiamare ulteriormente l’attenzione delle parti in ordine alle conseguenze relative al nuovo regime di impugnazione della sentenza di patteggiamento e rappresenta un’ulteriore conferma della razionalita’ e ponderatezza della chiara scelta operata dal legislatore, da ritenersi rispettosa dei requisiti costituzionali richiesti dall’articolo 111, comma 6 e 7 della Carta costituzionale, come pure delle esigenze di tutela del diritto di difesa e di rispetto dei principi dell’equo processo, di cui agli articoli 3 e 24 Cost. e articolo 111 Cost., comma 2 e articolo 6 C.E.D.U., anche con specifico riferimento ai parametri di ragionevolezza, proporzionalita’ e ragionevole durata del processo.
Rientra infatti nel libero esercizio delle facolta’ difensive dell’imputato il diritto di affrontare il giudizio ordinario e di avvalersi cosi’ dei mezzi di impugnazione ad esso propri, ovvero di presentare richiesta di patteggiamento, con i benefici – e i limiti – che la legge ricollega in tal caso all’accordo delle parti sulla pena (v. Corte Cost. n. 225 del 2003; v. altresi’, per il riconoscimento del principio secondo cui al rito del patteggiamento corrisponde ragionevolmente, rispetto a quello ordinario, una diversa conformazione dei mezzi di impugnazione esperibili, Sez. 6, n. 2400 del 20.12.1991 – dep. 1992, Rv. 189290, che ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimita’ costituzionale dell’articolo 448 c.p.p., comma 2, per contrasto con l’articolo 3 Cost.).
In tale prospettiva, va rimarcato come, in relazione alle garanzie dell’equo processo e del doppio grado di giurisdizione, la Corte di Strasburgo ha ritenuto che la decisione di patteggiamento implichi la consapevole rinuncia da parte dell’imputato ad una serie di diritti e garanzie procedurali che, allorche’ accompagnata da garanzie minime commisurate alla sua importanza e non contraria al pubblico interesse (tra le altre, Scoppola (n. 2), § 135-136, del 17 settembre 2009; Poitrimol c. Francia, del 23 novembre 1993, § 31, Serie A n. 277-A e Hermi c. Italia del 18 ottobre 2006, ric. n. 18114/02, § 73), fa apparire ragionevole la mancata previsione della possibilita’ di ricorrere ad un giudice superiore, trattandosi di ipotesi diversa da quella basata su condanna emessa all’esito di giudizio ordinario, con conseguente esclusione di qualsivoglia violazione dell’articolo 6, § 1 della C.E.D.U. o dell’articolo 2 del relativo Protocollo n. 7 (Corte E.D.U. Natsylishvili e Togonidze c. Georgia del 29 aprile 2014).
Piu’ precisamente, la sentenza della Corte E.D.U. teste’ ricordata ha espressamente affermato che il patteggiamento offre “gli importanti vantaggi di una rapida decisione dei casi penali e di alleviare il carico di lavoro di tribunali, pubblici ministeri e avvocati”, ritenendo quindi “normale che l’ambito dell’esercizio del diritto al controllo sulla decisione per mezzo delle impugnazioni sia piu’ limitato per una condanna basata su un patteggiamento, che rappresenta una rinuncia al diritto di avere la causa penale contro l’accusato esaminata nel merito, rispetto a una condanna pronunciata all’esito di un processo penale ordinario”.
Col medesimo provvedimento la Corte di Strasburgo ha ribadito che “gli Stati contraenti godono di un ampio margine di apprezzamento ai sensi dell’articolo 2 del Protocollo n. 7” e si e’ detta del parere che, accettando il patteggiamento, il ricorrente, oltre a rinunciare al suo diritto a un processo ordinario, rinunci validamente anche al suo diritto di impugnare la sentenza con i mezzi ordinari, con la consapevolezza discendente altresi’ dall’essere assistito da difesa tecnica. Donde la conclusione della Corte medesima, nel caso sottoposto al suo esame, della conformita’ del patteggiamento alle esigenze dell’equo processo di cui all’articolo 6, § 1 della Convenzione e l’esclusione della possibilita’ di ravvisare, nella rinuncia al diritto di impugnazione con i mezzi ordinari, una restrizione arbitraria e contraria al principio di ragionevolezza contenuto nell’articolo 2 del Protocollo n. 7 (per il principio generale relativo alla correlazione tra i requisiti dell’equo processo enunciati da queste due disposizioni, v. Galstyan c. Armenia, n. 26986/03, § 125, 15 novembre 2007).
10. Va pertanto ribadita la gia’ anticipata declaratoria d’inammissibilita’ del ricorso, cui accedono le statuizioni previste dall’articolo 616 c.p.p., nella misura di giustizia indicata in dispositivo quanto alla condanna pecuniaria a beneficio della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Per aprire la mia pagina facebook @avvrenatodisa
Cliccare qui

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *