Cassazione 11

Suprema Corte di Cassazione

sezione I

sentenza 14 aprile 2016, n. 15479

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 13 dicembre 2013, il Tribunale di Roma, dichiarava R.U. responsabile dei reati di tentato omicidio ai danni di C.E. e della propria moglie S.R. e, unificati gli stessi sotto il vincolo della continuazione, esclusa l’aggravante di cui all’art. 577 cod. pen., concesse circostanze attenuanti generiche equivalenti alla contestata recidiva, lo condannava alla pena di anni nove, mesi quattro di reclusione; applicava al predetto le pene accessorie dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici e di quella legale per la durata della pena; condannava, altresì, il R. al risarcimento del danno – da liquidarsi in separata sede – nei confronti della costituita parte civile, alla rifusione delle spese da questa sostenute nel giudizio e al pagamento di una provvisionale determinata nella misura di €. 10,000,00 immediatamente esecutiva..
2. La Corte di appello di Roma, in data 6 novembre 2014, in parziale riforma della citata pronuncia, “riqualificato il fatto nella previsione di cui all’art. 82, 2° comma, cod. pen. in relazione al reato di tentato omicidio ai danni di C.E., ritenuta la prevalenza delle già concesse circostanze attenuanti generiche sulla recidiva specifica, come contestata in imputazione”, rideterminava la pena inflitta all’imputato in anni sei, mesi due, giorni venti di reclusione, confermando nel resto l’appellata sentenza.
Secondo la Corte territoriale, nella ricostruzione della vicenda andava attribuita credibilità alla versione resa dalla persona offesa C.E., il quale aveva riferito che il giorno dei fatti, mentre si trovava nel parco sottostante lo stabile condominiale comune anche all’imputato, era stato da questi chiamato dalla finestra; che, su invito del R., era, quindi, salito nell’appartamento dell’imputato e aveva notato, attraverso la porta, che costui aveva dato uno schiaffo alla moglie; che, immediatamente dopo, era stato aggredito dal R. che lo colpiva con delle coltellate, alcune delle quali lo avevano attinto di striscio, mentre altre erano penetrate nell’addome; che aveva reagito ed era sorta una colluttazione nella quale era rimasta ferita anche la moglie del R.; che, allora, si era armato di un pezzo di legno che si trovava sul pianerottolo e, per difendersi, aveva colpito alla testa il suo aggressore; che erano poi giunte alcune persone e il litigio era cessato; che, mentre il R. era rimasto accanto alla moglie ferita, egli era salito nel suo appartamento e, dopo essersi lavato e cambiato d’abito, era riuscito incontrando gli operanti all’interno dello stabile; che, soltanto in quel momento, aveva avvertito dolori molto intensi e una forte debolezza ed era stato, quindi, trasportato in ospedale.
Riteneva la Corte che, al contrario, la versione dei fatti riferita dall’imputato – secondo cui egli si sarebbe sostanzialmente difeso dal C., gettandosi addosso al medesimo, e che quest’ultimo si sarebbe ferito col coltello che aveva in mano, colpendo con lo stesso anche la moglie – era del tutto illogica e non credibile, nonché in contrasto con le altre emergenze processuali e, in particolare, con le certificazioni sanitarie (era risultato che il R. – secondo il referto dell’ospedale – aveva riportato una ferita lacero contusa cranica e un’abrasione alla nocca del terzo dito della mano destra, riferita dallo stesso a una precedente aggressione patita da una persona armata da bastone; al C., invece, erano state riscontrate ben quattro ferite da coltello, due delle quali particolarmente lesive in quanto i fendenti erano penetrati nell’addome e uno di questi aveva prodotto la lesione del margine epatico).
Reputava, altresì, non decisivi gli altri elementi acquisiti al processo e cioè la testimonianza della guardia giurata, sopraggiunta nella fase terminale della colluttazione, allorché le coltellate era state già sferrate e gli antagonisti, avvinghiati tra loro, si stavano contendendo il bastone di legno, nonché quella della moglie dell’imputato, la quale aveva riferito – in maniera del tutto non credibile – di non aver visto alcun coltello, nonostante il C., in sua presenza, fosse stato colpito da quattro fendenti ed ella stessa attinta da una coltellata che le aveva causato una lacerazione epatica; parimenti del tutto irrilevante era da ritenersi la circostanza del mancato rinvenimento nell’abitazione del R. del coltello utilizzato nell’aggressione.
La Corte territoriale, infatti, pur prendendo atto che non era stata effettuata alcuna perquisizione nell’appartamento della persona offesa, escludeva, sulla base della testimonianza della guardia giurata, che il C. avesse avuto con sé l’arma ed evidenziava che il R. era rimasto da solo accanto alla moglie ferita in attesa dei soccorsi nel frangente in cui la vittima, insieme alla guardia giurata, si era recata nel suo appartamento per ripulirsi e cambiarsi d’abito.
Qualificata la condotta posta in essere dall’imputato quale tentato omicidio, la Corte escludeva la ricorrenza dell’invocata esimente della legittima difesa che non trovava conforto in alcun atto processuale e non riteneva sussistenti le condizioni per l’applicazione dell’attenuante della provocazione; reputava, altresì, che il primo giudice – benché avesse rilevato che la moglie del R. era rimasta involontariamente colpita dal marito – aveva erroneamente qualificato detta condotta ai sensi dell’art. 82, comma 1°, cod. pen., anziché ai sensi del 2° comma stessa norma e che altrettanto erroneamente aveva ritenuto la sussistenza della recidiva di cui all’art. 99, 4° comma, cod. pen. e non di quella specifica contestata nel capo di imputazione; procedeva, quindi, previo giudizio di prevalenza tra le già concesse circostanze attenuanti generiche e la recidiva specifica, alla determinazione della pena nella misura in precedenza indicata.
3. Avverso detta pronuncia ha proposto ricorso per cassazione l’imputato per il tramite dei suoi difensori di fiducia, avvocati M.L. e V.M..
3.1. Con il primo motivo, il ricorrente ha denunciato violazione di legge e difetto di motivazione in relazione alla idoneità e univocità dell’azione posta in essere dall’imputato a cagionare la morte del C.: in proposito, ha evidenziato che il coltello utilizzato per il ferimento del C., che secondo la sentenza sarebbe stato senz’altro idoneo a cagionare la morte della vittima, non sarebbe stato rinvenuto nell’abitazione del R., sicché non si conoscerebbero neppure le caratteristiche dello stesso; che il consulente del pubblico ministero, esaminata la documentazione medica, avrebbe concluso affermando che le lesioni non avevano compromesso l’attività cardiaca, nervosa e/o respiratoria e che il paziente non aveva mai corso pericolo per la sua vita; che l’azione posta in essere dal R. si sarebbe esaurita nella causazione di ferite scarsamente profonde, prodotte di striscio, che avevano attinto parti non vitali, tanto che il C., subito dopo essere stato ferito, era riuscito ad andare nel suo appartamento, a lavarsi, a cambiarsi d’abito e, successivamente, a uscire.
3.2. Con il secondo motivo, il ricorrente ha denunciato difetto di motivazione quanto alla valutazione della consulenza medico – legale, quanto alle emergenze dichiarative all’esito dell’esame del consulente, quanto all’idoneità dell’arma a cagionare la morte: la decisione non sarebbe sorretta da congruo e completo apparato argomentativo e, comunque, sarebbe illogica e contraddittoria; l’elaborato peritale avrebbe escluso che la lacerazione del margine del fegato, in presenza di una minima penetrazione, potesse determinare pericolo per la vita del C.; la malattia del C. non avrebbe superato la durata di giorni quaranta; non condivisibile sarebbe l’affermazione secondo cui il tempestivo ricovero della persona offesa avrebbe scongiurato conseguenze più gravi.
3.3. Con il terzo motivo, il ricorrente ha denunciato vizio di motivazione avuto riguardo alla misura dell’aumento di pena per il ferimento della moglie del R.: la Corte di appello, benché abbia ritenuto che non si trattasse di duplice tentato omicidio e abbia sussunto il fatto sotto il paradigma di cui al 2° comma dell’art. 82 cod. pen., avrebbe, immotivatamente, lasciato inalterato l’aumento di pena indicato, a titolo di continuazione, dal primo giudice nella misura di anni due, mesi quattro di reclusione; al contrario, la Corte avrebbe dovuto determinare l’aumento della pena in modo proporzionato e coerente alla diversa e più favorevole qualificazione di fatti.
3.4. Con il quarto motivo il ricorrente ha denunciato vizio di motivazione sulla denegata concessione dell’attenuante della provocazione: la Corte territoriale, del tutto immotivatamente, avrebbe escluso la ricorrenza dell’attenuante in parola, senza tenere conto delle chiare e univoche risultanze probatorie dalle quali sarebbe risultato evidente sia il fatto ingiusto posto in essere dal C. – il quale, in maniera assillante, pressante e quotidiana, insidiava la giovane moglie del R. – sia lo stato d’ira di quest’ultimo determinato proprio dal descritto comportamento del C..
4. In data 22 gennaio 2016, è stata depositata memoria nell’interesse della parte civile, con la quale sono stati confutati tutti i motivi di ricorso proposti dalla difesa dell’imputato.

Considerato in diritto

Il ricorso va parzialmente accolto per le ragioni di seguito esplicitate.
1. Infondati sono i primi due motivi di ricorso, da valutare unitariamente in quanto sostanzialmente il ricorrente con gli stessi ha denunciato violazione di legge e difetto di motivazione in relazione alla idoneità e univocità degli atti posti in essere dal R. a cagionare la morte del C..
E in vero, la decisione della Corte territoriale è fondata sull’accertamento del fatto perfettamente corrispondente alla norma incriminatrice come correttamente interpretata dalla giurisprudenza di legittimità.
Secondo la giurisprudenza della Suprema Corte, infatti, “l’idoneità degli atti, richiesta per la configurabilità del reato tentato, deve essere valutata con giudizio “ex ante”, tenendo conto delle circostanze in cui opera l’agente e delle modalità dell’azione, in modo da determinarne la reale adeguatezza causale e l’attitudine a creare una situazione di pericolo attuale e concreto di lesione del bene protetto” (Cass. Sez. 1, 4.32010, n. 27918, rv. 248305).
Inoltre, i giudici di legittimità hanno costantemente affermato che “in tema di tentato omicidio, la scarsa entità (o anche l’inesistenza) delle lesioni provocate alla persona offesa non sono circostanze idonee ad escludere di per sé l’intenzione omicida, in quanto possono essere rapportabili anche a fattori indipendenti dalla volontà dell’agente, come un imprevisto movimento della vittima, un errato calcolo della distanza o una mira non precisa” (Cass. Sez. 1, 10.6.2014, n. 54043, rv. 261702) e che “in tema di delitti contro la persona, per distinguere il reato di lesione personale da quello di tentato omicidio, occorre avere riguardo sia al diverso atteggiamento psicologico dell’agente sia alla differente potenzialità dell’azione lesiva, desumibili dalla sede corporea attinta, dall’idoneità dell’arma impiegata nonché dalle modalità dell’atto lesivo. (Fattispecie in cui è stato ritenuto sussistente il tentato omicidio per essere stata la vittima colpita da cinque coltellate di cui una all’addome (Cass. Sez. 1, 27.11.2013, n. 51056, rv. 257881).
Parimenti infondato è il motivo relativo alla qualificazione giuridica del fatto denunciato con specifico riguardo al difetto di motivazione sul punto.
Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, “in conformità al disposto dell’articolo 606, comma 1, lettera e), c.p.p., il difetto di motivazione valutabile in cassazione può consistere solo in una mancanza (o in una manifesta illogicità della motivazione stessa), ma esclusivamente se il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato; il che significa che deve mancare del tutto la presa in considerazione del punto sottoposto all’analisi del giudice e che non può costituire vizio che comporti controllo di legittimità la mera progettazione di una diversa e, per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali. Esula, infatti, dai poteri della corte di legittimità quello di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, potendo e dovendo, invece, la Corte accertare se quest’ultimo abbia dato adeguatamente conto, attraverso l’iter argomentativo seguito, delle ragioni che l’hanno indotto ad emettere il provvedimento” (Cass. Sez. 2, 11.6.1998, n. 3438, rv. 210938; cfr. anche Cass. Sez. 6, 14.1.2010, n. 7651, rv. 246172).
Ebbene, non sembra che le argomentazioni dei giudici di merito possano dirsi manifestamente illogiche; e anzi, il Collegio osserva che i giudici della Corte di appello di Roma, nella motivazione del provvedimento impugnato, si sono puntualmente attenuti a un coerente, ordinato e conseguente modo di disporre i fatti, le idee e le nozioni necessari a giustificare la loro decisione; questa, perciò, resiste alle censure del ricorrente sul punto.
In particolare, hanno messo in rilievo che l’animus necandi del R. era desumibile da una serie di precise e univoche circostanze, quali la reiterazione dei colpi inferti con un coltello (non meno di quattro), la violenza con la quale erano state sferrate le predette coltellate, penetrate in parti vitali del corpo, l’ulteriore e violenta coltellata inferta per errore alla moglie nel corso dell’aggressione posta in essere ai danni del C.; e hanno concluso che “se il R. avesse voluto soltanto causare lesioni al suo antagonista, avrebbe arrestato la sua azione violenta dopo il primo colpo”.
2. Meritano, invece, accoglimento il terzo e quarto motivo di ricorso.
2.1. Quanto all’attenuante della provocazione, ritiene il Collegio che la motivazione svolta dalla Corte territoriale al fine di escluderla sia del tutto insufficiente, oltre che in contrasto con la giurisprudenza di questa Corte che costantemente afferma che “ai fini della configurabilità dell’attenuante della provocazione occorrono: a) lo “stato d’ira”, costituito da un’alterazione emotiva che può anche protrarsi nel tempo e non essere in rapporto di immediatezza con il “fatto ingiusto altrui”; b) il “fatto ingiusto altrui”, che deve essere connotato dal carattere della ingiustizia obiettiva, intesa come effettiva contrarietà a regole giuridiche, morali e sociali, reputate tali nell’ambito di una determinata collettività in un dato momento storico e non con riferimento alle convinzioni dell’imputato e alla sua sensibilità personale; c) un rapporto di causalità psicologica e non di mera occasionalità tra l’offesa e la reazione, indipendentemente dalla proporzionalità tra esse, sempre che sia riscontrabile una qualche adeguatezza tra l’una e l’altra condotta” (Cass. Sez. 1, 2.12.2013, n. 47840, rv. 258454).
Nel caso di specie, i giudici di merito si sono limitati ad osservare che “pur volendo dare credito alla tesi difensiva, secondo la quale il C. aveva nel recente passato tenuto condotte non ortodosse nei confronti della moglie del R., deve, in ogni caso, escludersi la ricorrenza della chiesta circostanza attenuante non rinvenendosi una relazione di adeguatezza tra la condotta dell’odierno appellante e quella precedentemente tenuta dalla costituita parte civile nei confronti della moglie del R.”.
Al contrario, la Corte avrebbe dovuto accertare se “le condotte non ortodosse” poste in essere dal C. nei confronti della moglie dell’imputato costituissero o meno “fatto ingiusto”, nonché verificare se l’azione del R. fosse stata causata da uno “stato d’ira” e se tra l’offesa e la reazione ci fosse un nesso di causalità.
Si impone, pertanto, l’annullamento della sentenza con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Roma che dovrà colmare tale profilo motivazionale.
2.2. Anche con riguardo alla censura relativa all’aumento di pena di cui all’art. 82, comma 2°, cod. pen., la decisione impugnata va annullata.
E in vero – poiché quando viene effettivamente colpita la persona avuta di mira e ferita un’altra in ordine a questa ultima offesa risulta integrato il delitto di lesione, in quanto la persona diversa non è entrata nella sfera psichica dell’agente – la Corte territoriale, dopo avere correttamente sussunto il fatto sotto il paradigma di cui all’art. 82. Comma 2°, del codice penale, avrebbe dovuto determinare l’aumento per il ferimento della moglie del R. tenendo conto di tale decisione.
3. l’accoglimento parziale del ricorso induce il Collegio a rimettere alla valutazione del giudice del rinvio la liquidazione delle spese sostenute dalla costituita parte civile relativamente al giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla provocazione e all’aumento di pena di cui all’art. 81, comma 2°, codice penale e rinvia per nuovo giudizio al riguardo ad altra sezione della Corte di appello di Roma.

Rigetta nel resto il ricorso

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