Possesso giuridico: il potere di fatto sul bene

Possesso giuridico: il potere di fatto sul bene

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1) Nozione e natura giuridica del possesso

art. 1140 c.c.    possesso: il possesso   è il potere    sulla cosa   che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale.

Si può possedere direttamente o per mezzo di altra persona, che ha la detenzione della cosa.

Il possesso non si tratta di un diritto, ma di una situazione di fatto giuridicamente rilevante, e la differenza tra il possesso e la proprietà sta nel fatto che il possessore non può essere proprietario e, viceversa, il proprietario può non essere il possessore.

I giuristi romani colsero anche la distinzione tra:

1)              la detenzione (naturalis possessio), intesa quale mera disponibilità della cosa

2)              il possesso (possessio), caratterizzata da due elementi costitutivi:

  • la materiale disponibilità della cosa (Corpus)
  • e la volontà del soggetto di tenerla per sé (animus possidendi)

Per la Corte di legittimità[1] nell’ordinamento giuridico vigente il concetto di possesso corrisponde al potere di fatto su una cosa, che si manifesta non solo in una attività corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà ma anche di qualsiasi altro diritto reale, riassumendo l’art. 1140 c.c. in unica nozione tanto il possesso quanto il quasi-possesso figura ancora concettualmente distinta nello stesso diritto giustinianeo.

Ne segue che il possesso corrispondente ad un jus in re aliena si distingue dal possesso corrispondente al diritto di proprietà non perché sia diversa la cosa, oggetto tanto di compossesso, modellato sulla contitolarità del diritto cui corrisponde lo stato di fatto, quanto di possessi simultanei con contenuto diverso, perché relativi a situazioni corrispondenti a diritti reali di natura diversa.

La situazione di fatto del possesso è giuridicamente rilevante, considerato che produce effetti giuridici ed è oggetto specifico di tutela giuridica: il possessore, che è portatore di un interesse giuridicamente protetto, è titolare di un diritto, che non è il diritto di possedere la cosa, bensì quello di non subire spoglio o molestie.

Si discute in dottrina se il possesso sia un fatto oppure un diritto; è necessario, però, ribadire, che il diritto è una situazione giuridica di vantaggio che consiste in facoltà, pretese giuridiche, ecc., mentre il possesso è una situazione che consiste in una relazione di fatto con una cosa.

Va poi distinta, rispetto a questa situazione, la posizione giuridica che ne scaturisce, ossia il pacifico godimento del bene.



La dottrina che attribuisce al possessore una posizione giuridica non la qualifica, però, come diritto soggettivo, ravvisandovi o

1)  un diritto (Branca);

2)  un’aspettativa giuridica (Natoli)

3)  un interesse legittimo (Zanobini)

Il possesso non è, inoltre, un diritto reale, poiché al possessore non compete, come tale, un diritto sulla res, ma solo il godimento pacifico della stessa né tanto meno un diritto di credito, dato che non consiste in una pretesa verso determinati soggetti; rientra piuttosto, nell’ambito dei diritti di salvaguardia, che tutelano i beni personali e patrimoniali dalle interferenze altrui[2].

La tutela del possesso ha il suo fondamento nel contenuto della tutela accordata al possessore, che è limitata alla repressione dello spoglio, delle molestie e delle minacce di danno alle cose.

La figura in esame risponde a precise finalità socio-giuridiche tra le quali, per importanza, ricordiamo: quella di rendere più stabile la proprietà (costituendo l’usucapione una ragione giustificatrice della titolarità del bene in aggiunta a quella, generalmente ma non necessariamente, di natura derivativa-traslativa o, all’occorrenza, in sostituzione di essa, ove la medesima sia invalida e/o inefficace e quella, non meno rilevante, di premiare il soggetto che ha dimostrato una maggiore propensione allo sfruttamento e valorizzazione del bene.

Il tutto nell’ottica di una intensificazione della circolazione della ricchezza e dei traffici giuridici.

2) Elementi costitutivi

Il possesso è caratterizzato, secondo comune esegesi, da due componenti fondamentali: il corpus e l’ animus.

Il primo rappresenta il potere di fatto che si estrinseca secondo intensità variabili (in funzione della natura e destinazione della cosa) e che, purché conforme alla destinazione della cosa, può anche assumere carattere periodico (ad es., stagionale).

Oltre che direttamente, esso può altresì esprimersi per mezzo di altra persona che ha la detenzione della cosa (art. 1066 c.c.), ben potendo il possessore costituire, proprio utilizzando le facoltà appartenenti al suo status, diritti personali di godimento in capo ad altri.

A)  Potere sulla cosa

Tale poter non richiede necessariamente un contatto del soggetto con la cosa: è sufficiente che la cosa resti nella sua sfera di controllo.

Si ritiene che, ottenuto il possesso della cosa, prevale sull’elemento materiale l’animus del possessore; in tal modo si spiega il motivo per il quale chi smarrisce una cosa continua ad esserne possessore.

? il possesso diretto –

è caratterizzato dalla disponibilità materiale della cosa

? il possesso indiretto –

è attuato mediante la detenzione di un terzo che ha la disponibilità di fatto della cosa.

  •  La detenzione

 [3]  [4]  [5]

Carattere distintivo della detenzione è, appunto, la volontà di tenere la cosa per altri (c.d animus tenendi) e quindi dal fatto che il detentore riconosce l’altruità del possesso c.d.  laudatio possessoris).

Per stabilire se, in conseguenza di una convenzione con la quale un soggetto riceve da un altro il godimento di un immobile, si abbia un possesso idoneo all’usucapione, ovvero una mera detenzione, occorre far riferimento all’elemento psicologico del soggetto stesso e, a tal fine, occorre stabilire se la convenzione sia

1)    un contratto ad effetti reali o

2)    un contratto a effetti obbligatori;

solo nel primo caso, infatti, il contratto è idoneo a determinare nel soggetto investito del relativo diritto l’animus possidendi, anche se la convenzione non rivesta la forma scritta richiesta ad substantiam dalla legge o manchi la legittimazione a disporre dell’alienante o del costituente, mentre nel secondo caso, attuandosi unicamente l’attribuzione di un diritto di credito, può giustificarsi solo la sussistenza di un animus detinendi dell’accipiens, irrilevante agli effetti dell’usucapione[6].

La medesima Corte[7] da ultimo ha precisato, ulteriormente, che il principale carattere differenziale della detenzione è la mancanza nel titolare dell’elemento psicologico tipico del possesso, parlandosi, al contrario, di animus detinendi.

Il detentore non ha la volontà di esercitare poteri sulla res a nome proprio, poichè la sua relazione con lai cosa si fonda sempre sulla titolarità di un diritto personale di godimento o su un’obbligazione.

A sua volta, considerate le difficoltà probatorie circa l’accertamento in concreto dell’animus possidendi ovvero detinendi, l’articolo 1141 c.c. ha introdotto una presunzione relativa generale di possesso, attribuendo a chi esercita il potere di fatto sulla cosa la qualifica di possessore, a meno che non si provi che costui abbia iniziato (e/o continua) ad esercitarlo come mero detentore o per ragioni di ospitalità o di servizio.

La detenzione si consegue, dunque, sempre e solo con la consegna collegata ad un contratto non traslativo né costitutivo di diritti reali, ma obbligatorio (locazione[8], comodato[9], deposito e lavoro) per cui chi consegna resta possessore, salvo interversione.

Ad esempio, poi, secondo la S.C.[10] nel contratto preliminare ad effetti anticipati[11] — in base al quale le parti, nell’assumere l’obbligo della prestazione del consenso a contratto definitivo, convengono l’anticipata esecuzione di alcune delle obbligazioni nascenti da questo, quale la consegna immediata della cosa al promissario acquirente, con o senza corrispettivo — la disponibilità del bene conseguita dal promissario acquirente ha luogo con la piena consapevolezza dei contraenti che l’effetto traslativo non s’è ancora verificato, risultando, piuttosto, dal titolo l’altruità della cosa.

Ne consegue che deve ritenersi inesistente nel promissario l’acquirente l’animus possidendi, sicché la sua relazione con la cosa va qualificata come semplice detenzione, con esclusione dell’applicabilità alla fattispecie della disciplina di cui all’art. 1148 c.c., relativa all’obbligo del possessore in buona fede di restituire i frutti percepiti dopo la domanda giudiziale.

Sempre in merito al preliminare, per le S.U.[12] la disponibilità del bene conseguita dal promissario acquirente, in forza di apposita clausola contenuta nel preliminare di vendita immobiliare, dà luogo ad una detenzione qualificata.

Il contratto preliminare di vendita immobiliare ha effetti obbligatori, sicché ove il promissario acquirente acquisti la disponibilità del bene, questa si intende volta al mero godimento della cosa, escludendosi il trasferimento immediato o differito del bene. Ne consegue che colui che si è immesso nel godimento del bene necessariamente stabilisce con la cosa un rapporto di mera detenzione che gli consente di mutare il titolo originario di questo rapporto con la cosa solo attraverso un atto di interversione del possesso, ai sensi dell’articolo 1141 c.c., comma 2.



Inoltre, sempre per la medesima Corte[13], a differenza della detenzione di una cosa conseguita a titolo di comodato che deriva da un contratto che, sebbene essenzialmente gratuito, attribuisce lo ius detentionis fino al termine pattuito o, se trattasi comodato senza determinazione di durata, fino a quando il comodante non chieda la restituzione della cosa, la disponibilità del bene per tolleranza del proprietario o possessore è caratterizzata, oltre che dalla normale, ma non essenziale, brevità della stessa, soprattutto dall’animus, in chi la concede, di conservare tutte le facoltà connesse alla sua qualità di proprietario o di possessore e dalla consapevolezza, in chi la consegue, della inidoneità della concessione o permissio a far sorgere a suo favore un qualsiasi potere in contrasto con quello del permittente.

Ne deriva che, mentre la detenzione di comodato, inquadrabile tra le cosiddette detenzioni autonome o qualificate previste dal combinato disposto degli artt. 1140, secondo comma, e 1168, secondo comma, c.c., è tutelabile, nei confronti di chiunque la leda, con l’azione possessoria di reintegrazione ed è suscettibile di mutamento in possesso in presenza di uno dei presupposti di cui al secondo comma dell’art. 1141 c.c., la disponibilità della cosa per tolleranza dell’avente diritto non comporta alcun effetto giuridico in capo all’utente e non è nemmeno suscettibile di tutela possessoria.

art. 1168 c.c.  azione di reintegrazione: chi è stato violentemente od occultamente spogliato del possesso può, entro l’anno dal sofferto spoglio, chiedere contro l’autore di esso la reintegrazione del possesso medesimo.

L’azione è concessa altresì a chi ha la detenzione della cosa (Qualificata) (c.c.1140), tranne il caso che l’abbia per ragioni di servizio o di ospitalità (non Qualificata).

La legge presume il possesso (e quindi l’animus possidenti) in colui che ha il potere di fatto sulla cosa, mentre la detenzione deve essere provata (art. 1141 c.c.).

Parte della dottrina[14] nega tuttavia rilevanza all’elemento dell’animus possidendi, osservando che ciò che rileva ai fini delle distinzione tra possessore e detentore non è rappresentato dalla volontà del soggetto di tenere la cosa come propria o come altrui, bensì dal titolo che lo qualifica come detentore.

Qualificata[15]

Si pensi ad esempio al conduttore, il quale detiene bensì la cosa per il possessore – locatore, ma anche per un interesse proprio che è quello al godimento dell’alloggio.

tale detenzione ha una sua specifica rilevanza e, precisamente, il detentore qualificato può avvalersi – come il possessore – dell’azione di spoglio e fa suoi i frutti della cosa; può, inoltre mantenere la sua detenzione tramite l’altrui detenzione non qualificata, che persiste fin quando la res rimanga nella sfera di controllo del detentore.

Non qualificata –

quando si detiene nell’interesse esclusivo del possessore quando essa è il frutto di un rapporto di mera ospitalità o di servizio.

  • Interversione

1 A ipotesi

art. 1141 c.c.     mutamento della detenzione in possesso: si presume il possesso in colui che esercita il potere di fatto, quando non si prova che ha cominciato a esercitarlo semplicemente come detenzione.

Se alcuno ha cominciato ad avere la detenzione, non può acquistare il possesso finché il titolo non venga ad essere mutato per causa proveniente da un terzo o in forza di opposizione da lui fatta contro il possessore. Ciò vale anche per i successori a titolo universale.

Una interversione del possesso può avvenire mediante la conversione della detenzione in possesso per causa proveniente da un terzo o per atto di opposizione nei confronti del possessore.

La presunzione del possesso

Il possesso, secondo la dizione testuale dell’art. 1141 c.c., si presume in chi esercita il potere di fatto sulla cosa, sia, cioè in relazione di contiguità fisica con la stessa sicché detta presunzione opera a vantaggio di chi è in relazione diretta ed immediata con la res ovvero con l’esercizio di un diritto reale diverso dalla proprietà, ma non anche di chi è in rapporto mediato con il bene ovvero non esercita direttamente il diritto reale su cosa altrui, dovendosi, in tal caso, accertare di volta in volta se effettivamente sussista l’elemento dell’animus possidendi e gravando il relativo onere probatorio sulla parte che invoca il possesso per fruirne gli effetti[16].

La prova contraria alla presunzione iuris tantum stabilita dal primo comma dell’art. 1141 c.c. — che presume il possesso di colui che esercita il potere di fatto, ove non si provi che lo esercizio di questo sia cominciato come mera detenzione — può essere costituita anche da presunzioni semplici e persino da una sola presunzione, purché grave e precisa; né, in materia di prova per presunzioni semplici, occorre che la relazione tra fatto noto e fatto ignoto da provare abbia il carattere dell’assoluta necessità, essendo invece sufficiente quello della prevalente probabilità alla stregua della comune esperienza (id quod plerumque accidit)[17].

L’art. 1141 non consente al detentore di trasformarsi in possessore mediante una sua interna determinazione di volontà, ma richiede, per il mutamento del titolo,

1)     l’intervento di «una causa proveniente da un terzo», per tale dovendosi intendere qualsiasi atto di trasferimento del diritto idoneo a legittimare il possesso, indipendentemente dalla perfezione, validità, efficacia dell’atto medesimo, compresa l’ipotesi di acquisto da parte del titolare solo apparente,

2)     ovvero l’opposizione del detentore contro il possessore, opposizione che può aver luogo sia giudizialmente che stragiudizialmente e che consiste nel rendere noto al possessore, e cioè a colui per conto del quale la cosa era detenuta, in termini inequivoci e contestando il di lui diritto, l’intenzione di tenere la cosa come propria.

Lo stabilire se, in conseguenza di un atto negoziale ancorché invalido, al detentore di un immobile sia stato da un terzo trasferito il possesso del bene, costituisce una indagine di fatto, riservata al giudice di merito, i cui apprezzamenti e valutazioni sono sindacabili in sede di legittimità soltanto per illogicità o inadeguatezza della motivazione[18].

In altre parole[19] la interversione nel possesso — che non può avvenire mediante un semplice atto di volizione interna, ma deve estrinsecarsi in un fatto esterno, da cui sia consentito desumere che il possessore nomine alieno ha cessato di possedere in nome altrui ed ha iniziato un possesso per conto ed in nome proprio — pur potendo realizzarsi anche mediante il compimento di attività materiali che manifestino inequivocabilmente l’intenzione di esercitare il possesso esclusivamente nomine proprio, richiede sempre, ove il mutamento del titolo in base al quale il soggetto detiene non derivi da causa proveniente da un terzo, che l’opposizione risulti univocamente rivolta contro il possessore, e cioè contro colui per cui conto la cosa era detenuta, in guisa da rendere esteriormente riconoscibile all’avente diritto che il detentore ha cessato di possedere nomine alieno e che intende sostituire alla preesistente intenzione di subordinare il proprio potere a quello altrui l’animus di vantare per sé il diritto esercitato, convertendo così in possesso la detenzione precedentemente esercitata.



Da ultimo la stessa Cassazione[20] ha avuto modo di affermare, nuovamente, che tale valutazione è riservata al giudice del merito, ed è, pertanto, inibita nel giudizio di legittimità ove questi abbia fornito una motivazione sufficiente e non illogica del proprio convincimento al riguardo.

Nella specie, la Corte capitolina ha correttamente posto in rilievo, quale elemento idoneo ad escludere la interversione, la mancata dimostrazione della avvenuta comunicazione ai proprietari del fondo della realizzazione dell’immobile abusivo sullo stesso, comunicazione che sarebbe stata necessaria ai fini della sussistenza della invocata interversione, che non può sostanziarsi in un atto di volizione interna che non si estrinsechi in una manifestazione esteriore idonea a rivelare che il detentore ha cessato di esercitare il potere di fatto sulla cosa in nome altrui ed ha iniziato ad esercitarlo esclusivamente in nome proprio.

a)    Modifica del titolo

Se il titolo è modificato con il consenso del possessore evidentemente  non nasce alcun problema.

Può avvenire una traditio brevi manu se intervenga al riguardo un accordo  o una disposizione mortis casusa (se ad esempio: il possessore proprietario dà in pegno la cosa oppure gliene trasferisce la proprietà a titolo di legato).

Ma il titolo può essere modificato anche da un terzo non possessore.

1)    Innanzitutto dal proprietario che non possiede, il quale disponga della cosa in favore del detentore per atto inter vivos o  mortis causa: in tal modo, acquistando la proprietà ed esercitando il potere sulla cosa, il detentore diverrà possessore (oltre che proprietario).

2)    Si può anche ipotizzare che un terzo, assumendo di essere proprietario del bene pur non essendolo, venda o trasferisca per testamento la cosa al detentore, che potrà anche non essere in buona fede. Egli non acquisterà la proprietà, ma acquisterà il possesso.

In un caso particolare affrontato dalla Corte Capitolina[21] è stato affermato che anche nelle ipotesi in cui il bene espropriato cessi di appartenere al patrimonio indisponibile dell’ente pubblico – non essendo stata realizzata l’opera pubblica a cui l’espropriazione mirava e potendosi esercitare il diritto di retrocessione – affinché sia configurabile un nuovo possesso necessario ad usucapire in capo all’ex proprietario rimasto detentore del bene, è comunque necessario un atto formale di interversione del possesso ex art. 1141, co. II, c.c..Tale atto deve consistere, in particolare, in una manifestazione esteriore, dalla quale sia consentito desumere che il detentore abbia cessato di esercitare il potere di fatto sulla cosa in nome altrui ed abbia iniziato ad esercitarlo in nome proprio. A tal riguardo non costituisce titolo idoneo a mutare la detenzione in possesso la circostanza dell’avvenuto rilascio della concessione in sanatoria, che non comporta di per sé il riconoscimento del diritto di proprietà dei richiedenti e non costituisce di conseguenza atto di per sé indicativo della volontà del Comune di abdicare alla destinazione urbanistica del suolo interessato.

b)   Opposizione del detentore

Quando il detentore contesti il possesso altrui ed inizia a comportarsi egli stesso come proprietario o titolare di altro diritto reale sulla cosa.

 

Tale interversio possessionis si sostanzia nella negazione, da parte del detentore, del possesso del terzo per il quale egli prima deteneva e nell’affermazione del proprio possesso autonomo.

A tal fine, anche se non occorre alcun atto materiale, è necessario che l’atto di opposizione risulti inequivocabilmente diretto contro il possessore, cioè contro colui per conto del quale la cosa era detenuta, in modo da rendere esteriormente riconoscibile all’avente diritto che il detentore intende sostituire alla preesistente intenzione di subordinare il proprio potere a quello altrui, l’animus di vantare per sé il diritto esercitato, convertendo così in possesso la detenzione precedentemente esercitata[22].

L’interversione del possesso, disciplinata dall’art. 1141, comma secondo, c.c., non può consistere in un semplice atto volitivo interno del detentore, ma deve estrinsecarsi in uno o più atti esterni dai quali possa desumersi la modificata relazione di fatto con la cosa detenuta in opposizione al possessore e anche in relazione al suo comportamento. Deve cioè desumersi che il detentore nomine alieno ha cessato di possedere in nome altrui ed ha iniziato un possesso in nome e per conto proprio e tale atteggiamento, pur potendo realizzarsi anche con il compimento di atti materiali che manifestino inequivocabilmente l’intenzione di esercitare il possesso esclusivamente nomine proprio, deve essere inequivocabilmente rivolto contro il possessore e cioè contro colui per conto del quale la cosa era detenuta in guisa da rendere esteriormente riconoscibile allo avente diritto che il detentore ha cessato di possedere nomine alieno e che intende sostituire, alla preesistente intenzione di subordinare il proprio potere a quello altrui, l’animus di vantare per sé il diritto esercitato, convertendo così in possesso la detenzione, anche se precaria, precedentemente esercitata[23]

Si pensi al caso in cui il conduttore non corrisponda più il canone al locatore da cui è stato immesso nel godimento del bene, sia poi questi il proprietario o il mero possessore, come pur è possibile.

Per ultima cassazione[24] la questione dell’interversione del possesso nel caso in cui il potere di fatto sulla cosa fosse iniziato a titolo di detenzione (nella specie locazione), per integrare il possesso utile ad usucapionem occorreva un atto di opposizione con cui fosse chiaramente manifestato nei confronti del proprietario, l’intento di mutare tale detenzione in vero e proprio possesso uti dominus, corrispondente cioè all’esercizio del diritto di proprietà[25].

Anche in questo caso, l’accertamento, in concreto, di tali circostanze si è risolto in un’indagine di fatto, rimessa al giudice di merito, sicchè nel giudizio di legittimità non può chiedersi alla Corte di Cassazione di prendere direttamente in esame la condotta della parte, al fine di trarne elementi di convincimento; si può solo censurare, per omissione o difetto di motivazione, la decisione di merito che abbia del tutto trascurato o insufficientemente esaminato la questione di fatto della interversione, ciò che nella fattispecie non è avvenuto, stante la corretta motivazione della sentenza su tale specifico punto[26].

Si badi bene, però, che non sarebbe sufficiente restare inadempienti all’obbligazione di versare il canone,  perché questo comportamento di per sé non varrebbe rifiuto di corresponsione.

È dunque necessaria una inequivoca dichiarazione di opposizione diretta al locatore[27].

Ai fini del mutamento della detenzione in possesso, non è necessaria l’opposizione del detentore nei confronti del possessore, richiesta dal secondo comma dell’art. 1141 c.c., qualora il mutamento del titolo scaturisca da un atto dello stesso possessore a beneficio del detentore.

Nel caso di specie, la S.C.[28] ha, perciò, confermato la sentenza impugnata, che aveva dichiarato l’acquisto di un fondo per usucapione, sul presupposto che il mutamento della detenzione in possesso si era verificato per avere l’ente proprietario, sia pure con atto nullo per difetto di forma, venduto l’immobile al conduttore accettandone la somma versatagli e senza che l’ente succeduto avesse preteso successivi versamenti o pigioni, considerando tale momento, verificatosi oltre venti anni prima dell’introduzione della domanda, utile ai fini del decorso del termine per l’usucapione.

Il detentore che può acquistare il possesso mediante un atto di opposizione da lui compiuto contro il possessore, è il detentore in senso proprio o detentore qualificato, il quale mutando il proprio animus e dichiarando di voler esercitare il potere di fatto animo domini, pone in essere l’elemento spirituale e materiale del possesso. Tale disposizione non può invece applicarsi al detentore non qualificato, per ragioni di servizio o di ospitalità, al quale non è sufficiente invocare un titolo diverso dalla propria qualità di ospite o di dipendente ove continui a comportarsi come tale senza compiere un atto materiale di impossessamento[29].



2 A ipotesi    [30]

art. 1164 c.c.   interversione del possesso: chi ha il possesso corrispondente all’esercizio di un diritto reale su cosa altrui non può usucapire la proprietà della cosa stessa, se il titolo del suo possesso non è mutato per causa proveniente da un terzo o in forza di opposizione da lui fatta contro il diritto del proprietario. Il tempo necessario per l’usucapione decorre dalla data in cui il titolo del possesso è stato mutato.

L’art. 1164, invero, fa riferimento ad un mutamento dell’immagine del possesso, prendendo come punto di riferimento l’immagine della proprietà, ma non si dubita che possa anche trattarsi di un diritto minore.

Il meccanismo attraverso il quale si compie il fenomeno è quello stabilito dall’art. 1141 2 co.

3 A ipotesi  [31]

art.  1102 3  co c.c.     uso della cosa comune: ………………………………………

Il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso.

È, tuttavia opportuno chiarire che, comunque si rappresenti la comunione, non viene qui in considerazione un mutamento qualitativo del possesso del singolo individuo – che mantiene la sua originaria immagine – ma solo un incremento quantitativo, che permette a quel possesso di estendersi oltre i suoi originari limiti; non sembra pertanto corretto, in tal caso, parlare di interversio.

In tema di comunione ereditaria, ai fini dell’usucapione dei beni prima della divisione, è necessario un atto d’interversione del possesso da parte del coerede contitolare, qualora egli eserciti su quei beni, in forza del consenso degli altri coeredi, un possesso “separato” quale mera realizzazione del godimento della propria quota ereditaria, salvo conguaglio in sede di divisione. A tal fine non sono sufficienti la prova del mero non uso della cosa da parte degli altri condomini, posto che non è configurabile la prescrizione del diritto di comproprietà, né la prova del pagamento delle imposte e della curata manutenzione – ovvero dell’assunzione di tutti gli oneri ordinari e straordinari di miglioria -, o del compimento di atti di gestione della cosa comune consentiti al singolo compartecipante o anche di atti familiarmente tollerati dagli altri, ex art. 1141 c.c., o ancora di atti che, comportando il solo soddisfacimento di obblighi o l’erogazione di spese per il miglior godimento della cosa comune, non possono dar luogo a un’estensione del potere di fatto sulla cosa nella sfera di altro compossessore[32].

B)   Animus possidendi

E’ una particolare forma di atteggiamento psicologico.

Esso non deve essere considerato come qualcosa di perennemente in atto, cioè privo di qualsiasi pausa, e che non richiede la capacità d’agire; infine, esso non deve riferirsi necessariamente ad ogni parte della cosa.

Ciò che conta è l’intenzione di esercitare sulla res un’attività, corrispondente, in concreto, nell’esercizio di un diritto reale.

Questo comporta, chiaramente, delle difficoltà, anche ai fini della prova del possesso, soprattutto nel caso in cui alla base di questo non vi sia un titolo – anche non valido – oppure il titolo ci sia, ma sia intervenuta un’interversione del possesso ex art. 1164.

In ogni caso, fin quando non sia stata data dimostrazione di tale fatto, si deve presumere la persistenza dell’animus iniziale inoltre, in assenza di una diversa prova, deve presumersi che il potere di fatto sia iniziato nel modo più efficace.

Il nostro codice non menziona l’elemento delle volontarietà, ma indica, piuttosto, la corrispondenza del potere sulla cosa all’esercizio della proprietà o di un altro diritto reale, ed è proprio questa corrispondenza che si considera essere elemento oggettivo costitutivo del possesso.

L’animus non è invece espressamente menzionato dall’art. 1140 c.c., ma la sua necessaria presenza si inferisce dalla corrispondenza, istituita dalla disposizione codicistica, tra potere di fatto ed esercizio di un diritto.

È infatti proprio e solo tale corrispondenza a colorare giuridicamente l’esercizio concreto del potere stesso, traendo origine dall’intento di ritenere la cosa quale proprietario o ad altro titolo (ad es., quale usufruttuario, nel qual caso si parla di possessio iuris).

Non è a tal uopo ritenuta necessaria la capacità di agire , essendo sufficiente la capacità naturale di intendere e di volere ravvisabile, ad esempio, anche in capo a minori di età (e il cui accertamento è demandato al giudice di merito)[33].

Neppure è necessaria la buona fede che caratterizza la c.d. possessio ad usucapionem [34].

L’animus possidendi, necessario, come si avrà modo poi di specificare, all’acquisto della proprietà per usucapione da parte di chi esercita il potere di fatto sulla cosa, non consiste nella convinzione di essere proprietario (o titolare di altro diritto reale sulla cosa), bensì nell’intenzione di comportarsi come tale, esercitando corrispondenti facoltà, mentre la buona fede non è requisito del possesso utile ai fini dell’usucapione.

Di conseguenza, la consapevolezza di possedere senza titolo, ed il compimento di attività negoziali o di altra natura, finalizzate a ottenere il trasferimento della proprietà del bene posseduto o la stabilità sul piano formale della situazione giuridica rispetto ad esso non esclude che il possesso sia utile ai fini dell’usucapione[35].

O ancora l’elemento soggettivo del possesso (animus rem sibi habendi) non è necessariamente collegato alla persuasione di esercitare un potere di fatto in corrispondenza dell’esistenza di un diritto, essendo unicamente espressione del potere di fatto esercitato come se si avesse il corrispondente diritto[36].

Secondo un giudizio consolidato[37] il possesso perdura anche per effetto della conservazione del solo animus se il mancato esercizio del godimento sulla cosa non dipenda da fatto estraneo alla volontà del possessore, tale da impedire che l’elemento del corpus possa essere ripristinato quando lo si voglia, salvo che la parte non abbia univocamente manifestato l’animus derelinquendi.

La conservazione del possesso acquisito animo et corpore non richiede l’esplicazione di continui e concreti atti di godimento ed esercizio del possesso, essendo sufficiente che il bene posseduto, in relazione alla sua natura e destinazione economico-sociale possa ritenersi nella virtuale disponibilità del possessore nel senso che questi possa quando lo voglia ripristinare il rapporto materiale con lo stesso. Ne consegue che, permanendo l’animus, il possesso perdura finché persista la possibilità di ripristino del corpus, la quale viene meno sia quando altri si impossessi del bene esercitando sullo stesso un potere di fatto corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale sia quando, in relazione alla natura del bene, l’animus dereliquendi sia inequivocabilmente manifestato[38].

L’animus possidendi, in qualunque suo aspetto, è un elemento intenzionale o psicologico che, tanto sotto l’impero del codice abrogato quanto sotto l’impero del codice vigente, deve iuris tantum presumersiin presenza del corpus possessionis — non mutato nel suo tipo iniziale e sempre iniziato nella specie giuridicamente più efficace, vale a dire come animo di tenere la cosa come propria o di esercitare il diritto come a sé spettante. Sino a prova contraria il mutamento dell’animus domini in animus detinendi non è ravvisabile — salvo diversa ed espressa disposizione della legge — senza un atto di volontà capace di produrlo, vale a dire senza un atto mediante il quale il possessore animo domini acconsenta ad iniziare un nuovo possesso nomine alieno[39].

  • Rinuncia

La rinuncia al possesso da parte del proprietario di un bene, in quanto limitativa dell’ius domini, non può presumersi ma deve risultare da una univoca manifestazione di volontà abdicativa.

Tale carattere non può riconoscersi, potendo il possesso essere conservato «solo animo», al mero fatto dell’abbandono del domicilio coniugale da parte del proprietario di un fondo rustico, ancorché seguito da assoluto disinteresse per la sorte del medesimo lasciato in godimento ai familiari[40].

E’ stato, inoltre, specificato che la rinunzia o la tradizione del possesso relativo a beni immobili non sono soggette alla formalità dell’atto scritto, richiesta soltanto per i contratti costitutivi, modificativi o traslativi di diritti reali immobiliari, ma possono risultare da qualsiasi comportamento degli interessati, purché idoneo a manifestare univocamente la volontà di dismettere il possesso. (In applicazione di tale principio, la C.S. ha rilevato che anche il crocesegno tracciato in calce ad una scrittura privata sia atto a manifestare in modo valido detta volontà, allorché sia accertato che esso sia stato effettivamente apposto dal rinunziante o tradente il possesso)[41].

  • Cessazione

La semplice astensione dall’esercizio del possesso non basta a determinarne la cessazione e la perdita, dovendosi ritenere che permanga l’animus possidendi, quando sia sempre possibile al possessore, ripristinarne l’esercizio. Ciò avviene quando il possesso dell’andito di un portone, da esercitare col passaggio, sia ripristinabile mediante la semplice apertura di una porta su un vano comunicante, ancorché la porta sia sprangata dalla parte dell’andito[42].

  • Modifica

Un provvedimento di aggiudicazione non determina automaticamente, per il solo fatto che esso venga pronunciato ed a prescindere dalla sua esecuzione, il mutamento dell’animus rem sibi habendi del proprietario espropriato, trasformandolo in animus detinendi alieno nomine. L’art. 2919 c.c., il quale disciplina gli effetti della vendita forzata, dispone infatti, che questa trasferisce all’acquirente i diritti che sulla cosa spettavano a colui che ha subito l’espropriazione, ma non dispone che l’espropriato perda ipso iure il possesso della cosa, mutandolo in detenzione in nome dell’espropriante. Analoga disposizione era contenuta nel codice di procedura civile abrogato[43].

  • Esclusione

Non si può escludere l’esistenza dell’animus domini in chi, pur raccogliendo regolarmente i frutti di un fondo rustico, trascuri invece (oppure non lo ritenga opportuno o conveniente) di esercitare altre facoltà tipiche del diritto di proprietà, come recingere il fondo, attuare difese contro le piene dei corsi d’acqua e modificare le colture. Né si può escludere tale animus in chi non impedisca atti di terzi, come lo scarico di rifiuti o lo scavo di ghiaia, quando un siffatto comportamento possa dipendere da mera tolleranza, giustificata dal fatto che si tratti di atti che non pregiudicano l’unico uso del bene posseduto esercitato attualmente dal possessore[44].



3) Tipi di possesso minori 

[45]

Il tipo principale di possesso è quello corrispondente al contenuto della proprietà, cioè il possesso di colui che dispone della cosa come  proprietario.

È possibile, poi, distinguere altri tipi di possesso, c.d. possessi non proprietari o minori che corrispondono al contenuto del diritto della superficie, di enfiteusi, di usufrutto, di servitù, di pegno.

Al possesso minore si applica la disciplina del possesso, salve le deroghe giustificate dalla mancanza dei presupposti dell’azione di spoglio e dell’usucapione.

Per autorevole dottrina[46] dubbi nascono per la servitù negativa – la nuda proprietà – il diritto di superficie – il pegno.

Il problema è quello dell’assenza di una relazione immediata con la cosa.

E infatti si tratta, quanto al corpus, di un possesso indiretto.

Quanto poi all’esercizio, in assenza di comportamenti materiali, si ritiene che il possesso sussista ogniqualvolta il soggetto manifesti l’animus rem sibi habendi relativamente ad un certo diritto reale, interdicendo a chi a sua volta possiede a titolo di proprietà piena, l’esercizio del diritto stesso.

Così accade se l’astensione da parte del proprietario del fondo che si assume servente, consegua all’interdizione ad opera del possessore del fondo che si assume dominante o se egli nulla obietti ed anzi faccia acquiescenza all’esercizio in fatto da parte di un terzo di poteri di controllo che spettano al nudo proprietario o alla pretesa di un terzo di impedire la costruzione sul fondo, con l’animo di possedere il diritto di superficie.

Quanto all’ipoteca si ritiene possibile l’azione di manutenzione contro le molestie di diritto.

1 –  il possesso di superficie[47]

Il possesso della superficie si realizza edificando e mantenendo una costruzione su suolo altrui.

In tema la Corte di Cassazione[48] ha affermato che il diritto di fare una costruzione su suolo altrui, ai sensi dell’art. 952 c.c., non è suscettibile di possesso, configurabile soltanto in relazione alla proprietà superficiaria, e cioè al diritto (ex art. 952 citato) di «mantenere» una costruzione già realizzata nell’esercizio del suindicato diritto di costruire.

2 –  il possesso di enfiteusi

La situazione del possesso che corrisponde al diritto di enfiteusi si ritrova nell’apprensione della cosa e nel suo godimento esercitata a titolo di diritto reale limitato cui si applicano interamente le norme sul possesso.

3 –  il possesso di usufrutto[49]

La situazione del possesso che corrisponde al diritto di usufrutto si ritrova, si ripete nuovamente, nell’apprensione della cosa e nel suo godimento esercitata a titolo di diritto reale limitato cui si applicano interamente le norme sul possesso.

4 –  il possesso di servitù[50]

 Tale possesso si caratterizza per le specifiche ingerenze sulla res  corrispondenti ai vari contenuti del diritto.

Poiché, a norma degli artt. 1140 e 1066 c.c., il possesso delle servitù prediali consiste nell’esercizio effettivo di tali diritti, in tanto può configurarsi il possesso di una servitù positiva, tutelabile con l’azione di reintegrazione, in quanto sia stato posto in essere, da parte del titolare del fondo dominante, un atto iniziale di esercizio della servitù medesima. Il possesso delle servitù negative, tutelabile con l’azione anzidetta, si esplica, invece, mediante il godimento dell’utilità derivante al fondo dominante dal comportamento di astensione cui e tenuto il titolare del fondo servente[51].

Anche una servitù altius non tollendi[52] è suscettibile di possesso o di manutenzione dal momento che l’art. 1140 c.c., definendo il possesso come il potere di fatto corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale, si richiama alla situazione dei titolari di tali diritti e che l’espressione attività corrispondente all’esercizio è riferibile ad una situazione corrispondente in fatto a quella che è in diritto la situazione di un titolare di un diritto reale, per cui in tema di servitù non costituisce una componente necessaria del possesso il requisito di un comportamento materiale che si esplichi sul fondo servente.

Il possesso di servitù negativa altius non tollendi si esercita, invero, mediante il godimento dell’utilità derivante al fondo del possessore dal contegno di astensione del possessore dell’altro fondo limitrofo, ossia mediante un’attività del fondo, che gode del vantaggio, che riveli che l’astensione del proprietario del fondo apparentemente gravato di fatto da tale servitù, costituisca un comportamento determinato dalla volontà di rispettare detta situazione, corrispondente a quella che, in diritto, e la situazione determinata dalla valida costituzione della servitù[53].

 5 –  il possesso di pegno

Il possessore esercita sul pegno un potere di custodia, tipico della funzione di garanzia.

4) Soggetti

  • Il c.d. nudo possessore  [54]

Il possesso corrispondente al contenuto di un diritto reale limitato non esclude il possesso corrispondente al contenuto del diritto di proprietà.

In tal caso sorge il problema di come sia possibile ravvisare il possesso in capo al proprietario se l’esercizio di un diritto reale limitato da parte di un terzo lo abbia privato della disponibilità di fatto della res.

Il nudo proprietario non possiede tramite gli altri titolari di diritti reali, ed è possibile consideralo quale possessore se esercita un diritto corrispondente al diritto di proprietà, poi, così è ridotto il possesso del nudo proprietario, definito come nudo possesso.

In giurisprudenza si è riconosciuto al nudo possessore il diritto di proporre l’azione di spoglio contro chi abbia sottratto la res, volta ad ottenere la restituzione della  cosa a favore di chi abbia subito lo spoglio, nell’interesse, dunque, del possessore diretto ma anche del nudo possessore.

Si ha compossesso quando più soggetti esercitano congiuntamente il possesso sulla cosa.

Il compossessore può esercitare nei confronti dei terzi l’azione di reintegrazione e l’azione di manutenzione quale che sia la sua quota di partecipazione. A sua volta il compossessore può esercitare queste stesse azioni anche nei confronti degli altri compossessori tutte le volte in cui uno di questi sopprima o turbi il possesso degli altri a meno che questi atti non vengono tollerati e non costituiscono atti univocamente idonei a rivelare un mutamento del titolo del proprio possesso.

Principio estratto da ultima sentenza della S.C.[58]

Poi, per ultima sentenza della medesima Corte[59], che di qui a presso si avrà modo di riportare estensivamente nelle motivazioni, il compossesso non consiste nell’esercizio, solidaristico e comunitario, di un’unica signoria, ma e’ il fenomeno della confluenza su di una stessa res di poteri plurimi, corrispondenti nella loro estrinsecazione ad altrettanti diritti tra loro distinti, di identico o di differente tipo

E’ il possesso esercitato contemporaneamente e ad egual titolo da più persone sul medesimo bene.

In realtà la disponibilità di fatto della cosa non richiede necessariamente un contatto fisico né continuato con la res; è allora ammissibile una situazione in cui un soggetto abbia un potere di fatto sulla cosa condivisa con altri soggetti.

Per la S.C.[60] sebbene il vigente diritto positivo non disciplini espressamente il compossesso pro indiviso, nulla impedisce la possibilità di un esercizio di fatto dell’attività corrispondente alla comunione del diritto di proprietà e, quindi, neppure la possibilità di pervenire, in presenza degli altri requisiti previsti dalla legge, all’acquisto della comproprietà a titolo di usucapione.

Mentre diverso dal compossesso è quando sulla medesima cosa possono coesistere più situazioni possessorie, nei confronti di più soggetti, in relazione ad attività corrispondenti all’esercizio di diritti diversi[61].

Infatti anche ultima Cassazione

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 28 gennaio 2015, n. 1584

ha riaffermato che in sede possessoria è possibile la coesistenza simultanea di più situazioni possessorie, anche di diverso contenuto, in relazione alla medesima cosa, in capo a differenti soggetti, esprimentesi per ognuno di essi in attività corrispondenti all’esercizio di diritti reali diversi, e, perciò, il fatto che si accerti l’esistenza di un possesso di terreno corrispondente all’esercizio di una servitù di passaggio, non esclude, di per sè, che il medesimo bene possa essere posseduto da altro soggetto, che eserciti sullo stesso un possesso corrispondente alla estrinsecazione dei poteri propri del proprietario di un bene, sia pure gravato di servitù in favore di altri, giacchè ciò che rileva è la situazione di fatto e non la titolarità del diritto corrispondente (Cass. 18 settembre 1965; Cass. 7 giugno 1973 n. 1648).

Su di un immobile di proprietà esclusiva di un soggetto può ben crearsi una situazione di con possesso «pro indiviso» tra lo stesso soggetto proprietario ed un terzo, con il conseguente possibile acquisto, da parte di quest’ultimo, della comproprietà «pro indiviso» dello stesso bene, una volta trascorso il tempo per l’usucapione, nella misura corrispondente al possesso esercitato.

Né tale situazione di compossesso, che consiste nell’esercizio del comune potere di fatto sulla cosa, «in tota et in qualibet parte» della stessa, da parte di due soggetti, esige la esclusione del possesso del proprietario (ché in tal caso si tratterebbe di possesso esclusivo); né richiede che il compossessore effettivo ignori l’esistenza del diritto altrui, non valendo la contraria eventualità ad escludere l’«animus possidendi» che sorregge i comportamenti effettivamente tenuti dal possessore il quale abbia usato della cosa uti condominus[62].

Il compossesso o la detenzione qualificata del convivente more uxorio

Sul tema da ultimo è intervenuta, come già enunciato in precedenza, una pronuncia della S.C.[63] che qui di seguito si riporta l’ampia motivazione, ovvero: dottrina e giurisprudenza, sia di merito, sia di legittimità, si sono occupate del possesso e della detenzione nella famiglia di fatto essenzialmente per due fini, quello della tutela possessoria tra conviventi e verso i terzi, e quello della successione mortis causa del convivente – conduttore nel rapporto di locazione di immobile urbano.



Il progressivo radicamento sociale di situazioni di convivenza al di fuori del matrimonio, che pur vissute sotto il segno della riconferma quotidiana presentino stabilità interna e, soprattutto, riconoscibilità esterna, e il conseguente profilarsi di nuove situazioni giustiziabili, hanno contribuito, o quanto meno occasionato, il superamento di teorie che riguardavano allo stesso modo anche la posizione del coniuge e degli altri familiari conviventi, un tempo considerati quali meri strumenti del potere esercitato dal possessore sulla res, o alla stessa stregua degli ospiti, in quanto tali non legittimati attivamente all’azione possessoria (passaggio intermedio, in dottrina, fu quello di ipotizzare in favore del familiare convivente del possessore un non meglio concettualizzato godimento mero sulle medesime cose).

L’evento che ha segnato il deciso incamminarsi verso una più ampia tutela del c.d. coniuge di fatto, è dato dalla sentenza n. 404/88 con la quale la Corte costituzionale dichiarò  illegittimo l’arto della Legge n. 392 del 1978, nella parte in cui detta norma non prevedeva tra i successibili mortis causa nella titolarità del contratto di locazione il convivente more uxorio del conduttore.

Equiparate, sia pure al limitato fine di consentire una continuità di protezione rispetto ad un bene di primaria rilevanza costituzionale, le figure del coniuge e del convivente che si comporta come tale, resta tuttavia inalterato il problema qualificatorio dei poteri di fatto esercitati, nel senso che la posizione dell’uno e dell’altro verso il detentore o il possessore si atteggia in termini affatto analoghi, non potendosi ipotizzare che al convivente more uxorio sia riconoscibile una tutela poziore rispetto a quella che compete al coniuge.

La giurisprudenza di questa Corte ha avuto modo di affermare che il solo fatto della convivenza, anche se determinata da rapporti intimi, non pone di per sè in essere nelle persone che convivono con chi possiede il bene un potere sulla cosa che possa essere configurato come possesso autonomo sullo stesso bene o come una sorta di compossesso[64].

Quanto alla posizione del coniuge, si è definita detenzione qualificata, ai fini dell’esercizio dell’azione di spoglio, la situazione di potere di fatto del coniuge convivente sui beni che arredano la casa coniugale, sia quelli necessari per il normale godimento di essa, sia quelli che vi si trovano per rendere più gradevole il soggiorno nella stessa, escludendo solo i beni non destinati all’arredamento della casa, ma portativi con una diversa e ben distinta destinazione.

Sempre in tema di tutela possessoria, è stato ritenuto che la stipulazione di un contratto di locazione di un alloggio, da parte del marito, non esclude, una volta intervenuta la separazione personale fra i coniugi, la sussistenza di un titolo di detenzione autonoma da parte della moglie, tutelabile con l’azione di reintegrazione nel possesso nei confronti del marito, ove si accerti, per effetto di tale separazione, l’esistenza di eventuali ragioni di credito della moglie per mantenimento proprio e dei figli alla stessa affidati che costituiscano titolo per tale detenzione[65].

La dipendenza della posizione dell’un coniuge rispetto a quella dell’altro avente diritto ad occupare l’immobile adibito a luogo di residenza familiare, si coglie in una sentenza che, in tema di rapporto di portierato estinto per la morte del portiere, considera senza titolo la detenzione del coniuge superstite[66].

Anche in tema di locazione di immobile, i precedenti di questa Corte risolvono in termini di detenzione qualificata la successione del coniuge del conduttore nel rapporto di locazione[67], non potendo il primo, che in base alla Legge n. 392 del 1978, articolo 6 è titolare soltanto di una mera aspettativa alla successione nel contratto di locazione, vantare nei confronti del proprietario dell’abitazione una situazione soggettiva più forte della detenzione qualificata spettante al conduttore stesso[68].

Secondo una pronuncia resa in materia di IRPEF, ai fini delle detrazioni Legge n. 449 del 1997, ex articolo 1, comma 1, invece, il rapporto di coniugio non determina una situazione di compossesso di tutti gli immobili di proprietà di ciascun coniuge, ma solo di quello (o quelli) concretamente utilizzato anche dal coniuge non proprietario, alla data di inizio lavori, a nulla rilevando la circostanza che le spese di ristrutturazione siano eventualmente sostenuto dal coniuge non proprietario; con la conseguenza che anche nel caso di convivenza more uxorio può dirsi sussistente il possesso o la detenzione dell’immobile solo nel caso in cui il contribuente vi abiti stabilmente con il convivente proprietario, fermo l’onere di dimostrarne il possesso o la detenzione sin da epoca anteriore all’inizio dei lavori[69].

Escluso che a quest’ultimo precedente, data la specificità della materia tributaria, possa attribuirsi una potenzialità espansiva, deve negarsi che il rapporto di coniugio o il menage di fatto siano idonei a configurare a favore dei coniugi o dei conviventi un compossesso della casa di residenza familiare, con l’effetto che la morte dell’un possessore consolidi il possesso nelle mani del solo superstite (e il discorso deve ritenersi valido per ogni altro familiare che conviva stabilmente col possessore).

Oltre all’articolo 1146 c.c., comma 1, che regola la successione nel possesso come continuazione nell’erede del potere già esercitato dal de cuius, e all’assenza di norme che autorizzino a ipotizzare fenomeni di consolidamento o accrescimento in materia possessoria, depone ed è decisiva la circostanza che il compossesso non è l’esercizio, solidaristico e comunitario, di un’unica signoria (ipotesi che, del resto, rimanderebbe ad una nozione di comunione diversa da quella, per quote ideali, accolta nel nostro ordinamento e derivata dal diritto romano), nè esso può atteggiarsi a contitolarità del potere di fatto (il che costituirebbe una contraddizione in termini, la titolarità inerendo al diritto, lì dove il possesso attiene alle situazioni di fatto), ma è il fenomeno della confluenza su di una stessa res di poteri plurimi, corrispondenti nella loro estrinsecazione ad altrettanti diritti tra loro distinti, di identico o di differente tipo, fra loro variamente coordinabili (si pensi al possesso iure proprietatis e iure servitutis avente ad oggetto il medesimo fondo, o al possesso esercitato dai comproprietari di uno stesso bene).

L’esclusione di un compossesso famigliare appare vieppiù manifesta nelle unioni di fatto, in cui la relazione del convivente con le res possedute dal partner è ancor più necessariamente mediata – assente il carisma del vincolo matrimoniale e con esso ogni astratta possibilità di derivarne poteri di fatto muniti di una propria autonomia perfetta – dal titolo da cui dipende detto possesso, il cui venir meno travolge le basi della tutela accordabile al convivente more uxorio.

Se dunque non vi può essere solidarietà nel medesimo possesso, è evidente che, posto un possessore iure proprietatis, al convivente more uxorio che con lui goda dei medesimi beni debba riconoscersi una posizione dipendente e recessiva, riconducibile alla detenzione autonoma, (qualificata dalla stabilità della relazione familiare e protetta dal rilievo che l’ordinamento a questa riconosce).

Pertanto alla stregua di tali motivazioni è stato espresso il principio di diritto secondo cui il compossesso non consiste nell’esercizio, solidaristico e comunitario, di un’unica signoria, ma è il fenomeno della confluenza su di una stessa res di poteri plurimi, corrispondenti nella loro estrinsecazione ad altrettanti diritti tra loro distinti, di identico o di differente tipo.

Pertanto, il convivente more uxorio del soggetto possessore iure proprietatis dell’immobile in cui risiede la famiglia di fatto, non è, in ragione di tale sola convivenza, compossessore con lui dell’immobile stesso, che dunque non può usucapire, ma detentore autonomo

Tutela

In una situazione di compossesso il godimento del bene da parte dei singoli compossessori assurge ad oggetto di tutela possessoria quando uno di essi abbia alterato e violato senza il consenso e in pregiudizio degli altri partecipanti lo stato di fatto o la destinazione della cosa oggetto del comune possesso, in modo da impedire o restringere il godimento spettante a ciascun compossessore sulla cosa medesima, o che in modo apprezzabile ne modifichi o turbi le modalità di esercizio[70].

Principio ripreso anche da ultima Cassazione

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 4 agosto 2015, n. 16369

secondo la quale, appunto, nel godimento della cosa comune e’ configurabile una posizione possessoria tutelabile con le azioni di reintegrazione e di manutenzione contro l’attivita’ del compossessore comproprietario che sopprima il godimento medesimo, ovvero ne turbi o ne renda piu’ gravose le modalita’ di esercizio. Piu’ precisamente, in una situazione di compossesso, il godimento del bene da parte dei singoli possessori assurge ad oggetto di tutela possessoria, quando uno di essi abbia alterato o violato, in pregiudizio degli altri partecipanti, lo stato di fatto o la destinazione della cosa oggetto del comune possesso, in modo da impedire o restringere il godimento spettante a ciascun compossessore sulla cosa medesima. Le concrete modalita’ di godimento della cosa comune – desumibili dagli articoli 1102, 1120, 1139 e 1121 c.c. – assurgono a possibile contenuto di una posizione possessoria tutelabile contro tutte le attivita’ con le quali uno dei compossessori comproprietari introduca unilateralmente una modificazione che sopprima o turbi il compossesso degli altri. Del pari, la violazione dei limiti alle modalita’ di esercizio del compossesso puo’ concretare una molestia possessoria tutelabile con l’azione di manutenzione contro l’attivita’ del compossessore che turbi o modifichi le dette i modalita’ di esercizio.

Interversione [71]

Il singolo comunista, ove intenda espandere in via esclusiva il possesso sul bene, pur non dovendo necessariamente compiere gli atti di interversio possessionis previsti dagli artt. 1141 e 1164 c.c., rispettivamente per il mutamento della detenzione in possesso e di un diritto reale su cosa altrui in possesso corrispondente all’esercizio della proprietà, deve tuttavia porre in essere atti integranti un comportamento durevole, tali da evidenziare un possesso esclusivo ed animo domini della cosa, incompatibili con il permanere di quello altrui sulla stessa, né tale comportamento può consistere soltanto in atti di gestione della cosa comune consentiti al singolo compartecipante o anche in atti familiarmente tollerati dagli altri o ancora in atti che, comportando solo il soddisfacimento di obblighi o erogazioni di spese per il miglior godimento della cosa comune, non possono dar luogo ad una estensione del potere di fatto sulla cosa nella sfera di altro compossessore[72].

Usucapione [73] [74]

In tema di compossesso, il godimento esclusivo della cosa comune da parte di uno dei compossessori non è, di per sé, idoneo a far ritenere lo stato di fatto così determinatosi, funzionale all’esercizio del possesso ad usucapionem, e non anche, invece, conseguenza di un atteggiamento di mera tolleranza da parte dell’altro compossessore, risultando, per converso, necessario, a fini di usucapione, la manifestazione del dominio esclusivo sulla res da parte dell’interessato attraverso un’attività apertamente contrastante ed inoppugnabilmente incompatibile con il possesso altrui, gravando l’onere della relativa prova su colui che invochi l’avvenuta usucapione del bene[75].

Accessione

Vedi par.fo 5, lettera A  –  acquisto ipso jure – Accessione  –  pag. 41



5) L’oggetto

A)  Generalità

In linea generale possono essere oggetto di possesso soltanto le cose, ossia i beni materiali, così come  indicato dall’art. 810 c.c., idonei a formare oggetto di tutti i diritti reali che prestano al possesso il loro contenuto.

Per la S.C.[76] quando si manifesta in una attività corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà sulla cosa unitariamente considerata, il possesso si estende all’intero bene ed in tal modo si conserva anche se si esprime in forme di godimento limitate solo ad una sua parte. Ne consegue che perché si riconosca l’esercizio del possesso sull’intero fondo non è necessario che il soggetto compia atti di potere su ogni singola zona di terreno essendo sufficiente che mantenga come propria la cosa nella sua individualità.

B)  Cose di cui non si può acquistare la proprietà

art. 1145 c.c.     possesso di cose fuori commercio: il possesso delle cose di cui non si può acquistare la proprietà è senza effetto.

Tuttavia nei rapporti tra privati è concessa l’azione di spoglio rispetto ai beni appartenenti al pubblico demanio e ai beni delle province e dei comuni soggetti al regime proprio del demanio pubblico (c.c.822, 824).

Se trattasi di esercizio di facoltà, le quali possono formare oggetto di concessione da parte della pubblica amministrazione, e data altresì l’azione di manutenzione (c.c.1170).

 

Si fa in tal modo generale riferimento alle cose extra commercium, e più specificamente alle cose di proprietà pubblica, appartenenti, in particolare, al pubblico demanio, alle province ed ai comuni, soggetti al regime del demanio pubblico, come stabilito dall’art. 823 c.c.

art. 823 c.c.   condizione giuridica del demanio pubblico: i beni che fanno parte del demanio pubblico sono inalienabili e non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano (C. Nav. 30 ss., 694 e ss.).

Spetta all’autorità amministrativa la tutela dei beni che fanno parte del demanio pubblico. Essa ha facoltà sia di procedere in via amministrativa, sia di valersi dei mezzi ordinari a difesa della proprietà (948 e seguenti) e del possesso (1168 e seguenti) regolati dal presente codice.

Tali beni sembrano essere considerati come insuscettibili di possesso o meglio, più precisamente, il potere di fatto su quei beni non dà luogo al possesso.

Una siffatta affermazione può non sembrare valida nel sistema del codice vigente, considerato che l’art. 1145 c.c., con riferimento ai beni demaniali, sembra porre, nei due commi successivi, notevoli limitazioni a quanto esposto nel 1 comma.

Con riferimento a tali  beni il principio va ampliato, precisando che il potere di fatto esercitato sugli stessi non può farsi valere solo nei confronti della P.A., alla quale appartengono; rileva, invece, nei rapporti tra privati, laddove è prevista una tutela con l’azione di spoglio e, in alcuni casi, con l’azione di manutenzione, indipendentemente dall’esistenza di un regolare atto di concessione.

Ci si domanda, allora, se l’attuazione di quel potere di fatto dia luogo ad una situazione possessoria o, se, invece, il 2 e 3 co dell’art. 1145 c.c. estenda semplicemente la tutela degli artt. 1168 – 1170 c.c. a situazioni anomale.

La situazione  deve essere valutata in base ai normali criteri privatistici – dato che la questione si pone esclusivamente nei rapporti fra privati – e non con riferimento al possibile uso privato di beni pubblici.

Ciò sta a significare che è necessario in capo a questi beni si presenti una situazione che si qualificherebbe come possesso se avesse ad oggetto beni di proprietà privata.

Questo solo fatto dà luogo a tutela contro lo spoglio, ammessa per un evidente motivo di ordine pubblico, tenuto conto del fatto che l’azione tra privati è generalmente ammessa non solo a difesa del possesso, ma anche a situazioni minori quali la detenzione.

Per la Sezioni Unite[77] per il disposto dell’art. 1145 c.c. nei rapporti tra privati è esperibile l’azione di spoglio anche rispetto ai beni appartenenti al pubblico demanio ed ai beni degli enti pubblici territoriali ad essi equiparati, senza che occorra che l’esercizio del possesso corrisponda ad un uso speciale od eccezionale del bene demaniale.

Sempre per le Sezioni Unite[78] l’esperibilità davanti al giudice ordinario, nei rapporti fra privati, di azione di reintegrazione[79] nel possesso di un immobile non resta esclusa dall’eventuale assoggettamento del bene al regime del demanio pubblico (nella specie, sotto il profilo della sua appartenenza a cimitero comunale), atteso che l’art. 1145 secondo comma c.c. espressamente accorda la tutela contro atti di spoglio, nell’ambito dei suddetti rapporti, anche per i beni demaniali.

Per la medesima Cassazione[80], inoltre, a norma dell’art. 1145 c.c. l’azione di manutenzione[81] del possesso è consentita nei rapporti fra privati non solo a colui che abbia già conseguito in concessione il godimento di un bene demaniale, ma anche a chi eserciti sul bene stesso poteri di fatto tali da giustificare il godimento della concessione, in quanto nei rapporti fra privati per l’esperimento dell’azione di manutenzione è sufficiente che il possesso corrisponda all’esercizio di facoltà possano formare oggetto di concessione amministrativa, e non è necessario che trattisi di facoltà correlate a concessioni già emanate. Pertanto il privato che eserciti di fatto una signoria sul bene demaniale suscettibile di essergli attribuito in concessione è possessore ad ogni effetto ed è, in quanto tale, legittimato ad esperire l’azione di manutenzione contro altro privato che rechi turbativa al suo possesso.

Infine, in merito all’usucapione, un bene demaniale non è, per sua natura, suscettibile di usucapione[82], salva la sdemanializzazione del medesimo, la quale può essere anche tacita e risultare cioè, nonostante la mancanza di un formale atto pubblico di sclassificazione, da atti univoci e concludenti, incompatibili con la volontà di conservarne la destinazione all’uso pubblico, e da circostanze così significative da rendere inconcepibile un’ipotesi diversa da quella che la pubblica amministrazione abbia definitivamente rinunciato al ripristino della pubblica funzione del bene medesimo. La relativa indagine è rimessa al giudice del merito, il cui accertamento è insindacabile in sede di legittimità, se immune da vizi logici e giuridici[83].

C)  I beni del patrimonio indisponibile 

[84]

Al riguardo la dottrina prevalente sostiene che tali beni siano suscettibili di possesso a qualunque titolo e, dunque, pienamente usucapibili, in considerazione del fatto che essi, in base all’art. 828 c.c., sarebbero relativamente inalienabili, con la conseguenza che una loro eventuale alienazione contra legem non sarebbe nulla, ma annullabile e, pertanto, produttiva di effetti.

Una tesi intermedia è stata poi sostenuta in giurisprudenza, laddove si è negata l’alienabilità totale dei beni indisponibili finché dura la loro destinazione pubblica, ammettendo, però, un’alienazione od usucapione parziale, quando non interferiscono sulla destinazione del bene.

D)  Acque fluenti – gas – energie –  spazio aereo – Ius sepulcri

  • Acque fluenti – una volta ammessa, in giurisprudenza, la possibilità del possesso anche in caso di somministrazione di acqua fornita in forza di un rapporto obbligatorio, per mezzo di pompa situata al di fuori della sfera del detentore, si è affermato che tale possesso ha per oggetto la massa indistinta dell’acqua, e non la sua singola quantità, ma concerne solo quella che scorre perennemente e naturalmente, e trova applicazione, ad es., in materia  di servitù d’acqua, e non in materia di somministrazione in forza di un rapporto obbligatorio.
  • Gas ed Energie – – le medesime conclusioni valgono con riferimento ai rapporti di somministrazione inerenti al gas o energia elettrica, laddove si è escluso che il possesso dell’utente si estenda al di fuori del suo ambito di azioni, esaurendosi ogni interruzione sul piano dell’azione contrattuale di eventuale inadempimento.
  • Spazio aereo – ci si domanda se possa essere oggetto di possesso, la questione trova fondamento nell’art. 840 c.c., che riguarda l’estensione della proprietà al sottosuolo ed allo spazio sovrastante nei limiti in cui possa riscontrare un apprezzabile interesse del proprietario. È indubbio, dunque, che non possa formare oggetto di proprietà o di possesso, ma si ammette che possa assumere il carattere di bene tutelabile in modo possessorio quando sia sovrastante ad una superficie posseduta dallo stesso soggetto che l’abbia invocata.

Per la S.C.[85] l’interesse che segna il limite all’espansione del diritto di proprietà (e del corrispondente possesso) di un fondo sullo spazio aereo sovrastante deve essere valutato alla stregua della ipotizzabile possibilità di utilizzare tale spazio come ambito di esplicazione effettiva o virtuale di un potere legittimo (o di fatto) sulla sottostante superficie, compatibilmente con le caratteristiche e con la normale destinazione del suolo.

Inoltre[86], il possesso di un immobile si estende, di norma, allo spazio aereo compreso nella proiezione ideale, in altezza, dell’immobile stesso, fin dove, però, tale spazio non presenti una soluzione di continuità per la frapposizione di altro immobile, soggetto ad altrui possesso. Oltre tali limiti, infatti, non è normalmente concepibile la esplicazione, effettiva o virtuale, di una signoria di fatto del possessore dell’immobile posto a livello inferiore.

  • Ius sepulcri

Lo ius sepulchri ha natura di diritto reale patrimoniale. Ne discende che l’esercizio del potere di fatto, corrispondente al contenuto di tale diritto, concreta «possesso», ai sensi dell’art. 1140 c.c., ed è quindi tutelabile anche con l’azione di manutenzione[87].

Il diritto al sepolcro, inteso come diritto alla tumulazione, ha natura di diritto reale patrimoniale ed è suscettibile di tutela possessoria[88].

E)   Universalità di beni mobili – Azienda

[89]

art. 1160 c.c.   usucapione delle universalità di mobili: l’usucapione di un’universalità di mobili (c.c.816) o di diritti reali di godimento sopra la medesima si compie in virtù del possesso continuato per venti anni.

Nel caso di acquisto in buona fede (c.c.1147) da chi non e proprietario, in forza di titolo idoneo, l’usucapione si compie con il decorso di dieci anni.

art. 1170 c.c.    azione di manutenzione: chi è stato molestato nel possesso di un immobile, di un diritto reale sopra un immobile o di un’universalità di mobili può, entro l’anno dalla turbativa, chiedere la manutenzione del possesso medesimo (C.p.c. 703 s.s.).

 

F)   Beni immateriali

[90]

Il problema dell’ammissibilità o meno del possesso dei suddetti beni non deve comunque essere confuso con quello concernente il possesso di un qualsiasi oggetto in cui materialmente l’opera dell’ingegno od il segno distintivo trovi espressione in concreto.

Il problema stesso avrebbe ragione di essere soltanto se si ammettesse la categoria dei beni immateriali quale categoria autonoma di entità suscettibili di divenire oggetto di diritti, e più precisamente, di diritti reali, considerato che è ad immagine di quest’ultimi che va costituito il possesso.

Orbene per la Corte di Cassazione[91] se «il possesso è il potere sulla cosa che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale» (art. 1140 c.c.), e se i diritti di utilizzazione economica dell’opera intellettuale hanno tutte le caratteristiche dei diritti reali, è configurabile come possesso la posizione di chi di fatto si trovi, rispetto alle possibilità di sfruttamento economico dell’opera, nello stesso rapporto in cui si troverebbe se fosse titolare dei relativi diritti. Pertanto, va individuato nella norma dell’art. 1155 c.c. il criterio risolutivo del conflitto tra più acquirenti dei medesimi diritti di utilizzazione economica di un’opera dell’ingegno.

In tale ambito rientra la tutela al diritto di diffusione radio televisiva.

Difatti – poiché il diritto di diffusione radiotelevisiva via etere é riconosciuto dall’ordinamento quale espressione della libertà di manifestazione del pensiero – la tutela possessoria (in aggiunta a quella petitoria) a favore del privato esercente trasmissioni radiofoniche in ambito locale che subisca interferenze da parte di altra emittente, può configurarsi, quale necessario completamento del diritto in questione — con riguardo al possesso delle onde elettromagnetiche considerate come bene mobile — anche nella fase di attuazione del potere di fatto, normalmente preordinata alla necessaria sperimentazione degli impianti, sempreché non si tratti di mera occupazione della frequenza attuata al solo scopo di precludere ad altri l’accesso al medesimo spazio, trattandosi di attività non riconducibile ad una libera manifestazione del pensiero [92].

In tema di trasmissioni televisive private in ambito locale, il «preuso» di un determinato canale o frequenza, quale situazione di fatto tutelabile anche in via possessoria nel conflitto fra più emittenti, va individuato prendendo in considerazione non soltanto il dato temporale dell’inizio di dette trasmissioni, ma anche l’ambito spaziale nel quale le medesime possono essere ricevute[93].

Mentre per altra sentenza della S.C.[94] le onde elettromagnetiche utilizzate come veicolo, su una determinata banda di frequenza, delle immagini e suoni prodotti da una emittente, non possono formare oggetto di diritti e di possesso separatamente ed indipendentemente dal complesso degli impianti e delle attrezzature dell’azienda televisiva emittente, nel cui ambito di possesso rientrano.

Ne consegue che il proprietario di un apparecchio televisivo che si ritenga danneggiato da interferenze nella ricezione dei programmi irradiati da una emittente televisiva, provocate dall’occupazione da parte di altra stazione emittente della banda di frequenza da sempre utilizzata dalla prima emittente, non può invocare la tutela possessoria delle onde predette, sulla quale non ha alcun potere di fatto, corrispondente a quella di un diritto reale, a tanto essendo legittimata soltanto l’azienda di diffusione dei programmi radiotelevisivi che lamenti lo spoglio o la turbativa da parte dell’altra emittente.

Con riguardo alle utilizzazioni economiche di un’opera dell’ingegno, non sono configurabili situazioni possessorie idonee a comportare l’acquisizione per usucapione[95] dei relativi diritti[96].

 

6) Acquisto, modificazione e perdita del possesso



A)  Il c.d. acquisto  Ipso iure

Per l’acquisto del possesso è indispensabile che si concretizzino gli elementi essenziali della sua struttura, e, più precisamente, il corpus e l’animus, con riferimento ad una  res  suscettibile di possesso.

Tuttavia non è raro sentire parlare di acquisto del possesso di diritto, cioè senza bisogno di materiale apprensione, ovvero di conservazione del possesso solo animo.

Il mezzo mediante il quale si realizza tale potere è la c.d. adprehensio  o materiale apprensione (art. 460, 1 co); si ritiene che si possa fare a meno di quest’ultimo, ma non sempre nello stesso senso.

I casi che danno luogo a questa automatica situazione di possesso sono rappresentati dall’acquisto della qualità di chiamato alla successione e, quindi, dall’acquisto della qualità di erede.

art. 1146 c.c.    successione nel possesso. Accessione del possesso: il possesso continua nell’erede con effetto dall’apertura della successione.

Il successore a titolo particolare può unire al proprio possesso quello del suo autore per goderne gli effetti.

 

Tale articolo sta a significare che la situazione possessoria creata dal de cuius o, comunque, instauratasi in capo a quest’ultimo, non viene meno a seguito della sua morte, ma viene imputata al soggetto che prenderà il posto del defunto nella sua complessiva sfera giuridica e patrimoniale.

Ciò spiega anche il motivo per il quale il possesso imputato all’erede mantiene gli stessi caratteri che aveva quello del defunto, mentre lo stesso non accade per il successore a titolo particolare, per il quale è previsto un semplice beneficium, rappresentato dalla c.d. accessione, che gli permette di unire al proprio possesso quello del suo autore per goderne gli effetti, sempre ché tale unione gli si prospetti conveniente.

Per la S.C.[97] in tema di accessione nel possesso, mentre il primo comma dell’art. 1146 c.c. stabilisce la continuazione del possesso del de cuius in capo all’erede senza alcuna interruzione per effetto dell’apertura della successione, il secondo comma della norma citata prevede, per il successore a titolo particolare (tanto inter vivos quanto mortis causa), la facoltà di unire il proprio possesso a quello del suo autore, con la conseguenza che tale successore non subentra ipso facto nel possesso della cosa per effetto dell’acquisto del diritto, occorrendo, all’uopo, che si stabilisca un ulteriore rapporto di fatto tra detto acquisto e la cosa, analogo, se pur distinto, a quello fra la cosa stessa ed il suo dante causa, non essendo sufficiente, ai fini dell’accessio possessionis, il semplice diritto a possedere.

  • La successione

[98]

La successione nel possesso, prevista del primo comma dell’art. 1146 c.c., è un fatto necessario, che non può essere escluso dall’erede che desideri dar vita ad un possesso ex novo  e che abbia, dunque, caratteristiche diverse da quelle che aveva il possesso del de cuius; l’erede non può, dunque, separare il suo possesso da quello del suo dante causa, a meno che non lo perda in ogni caso e lo riacquisti a diverso titolo ed in uno dei modi c.d. normali.

In realtà per effetto di una fictio iuris[99], il possesso del de cuius si trasferisce agli eredi i quali subentrano nel possesso del bene senza necessità di una materiale apprensione, occorrendo solo la prova della qualità di eredi.

Così anche secondo ultima Cassazione

Corte di Cassazione, sezione VI, ordinanza 7 aprile 2014, n. 8119

Il principio della continuità nel possesso tra il de cuius e l’erede consente a quest’ultimo, pur in assenza della materiale apprensione dei beni ereditari, il legittimo esercizio delle azioni possessorie.

Il chiamato all’eredità, che possegga i beni ereditari, può invocare la propria successione nel possesso del de cuius, anche ai fini dell’usucapione[100], ai sensi dell’art. 1146 c.c., a condizione che abbia assunto la qualità di erede, accettando la eredità, ferma restando la configurabilità di un’accettazione implicita o tacita, ove il suo comportamento evidenzi la volontà di continuare il possesso esercitato dal dante causa[101].

Inoltre[102], soltanto l’erede, quale successore a titolo universale e continuatore della persona del defunto, subentra ipso jure nel possesso dei beni ereditari, senza bisogno di materiale apprensione e può, quindi, esperimentare tutte le azioni a tutela del possesso.

Nelle successioni a titolo particolare l’avente causa acquista il solo potere giuridico sulla cosa costituito dal diritto a possedere, ma, se tale diritto non venga realizzato mediante la concreta immissione in possesso, ed il conseguente effettivo esercizio del potere di fatto sulla cosa, non è concessa dalla legge la tutela possessoria. Pertanto, solo a seguito della immissione in possesso, il possessore a titolo particolare può unire il proprio possesso a quello del suo autore, a sensi dell’art. 1146, comma secondo, c.c., sommando i due periodi agli effetti che derivino dalla durata complessiva di essi e sempre che i caratteri dei due possessi coincidano.

Un discorso a parte deve essere fatto per quelle particolari ipotesi in cui il possesso sia vincolato attraverso il titolo alla persona del possessore, destinate, pertanto, ad estinguersi con la sua morte.

È questo il caso del possesso a titolo di usufrutto, uso e abitazione che, nonostante quanto rilevato, si è ritenuto continuare ai sensi dell’art. 1146 c.c.

È stato opportunamente rilevato al riguardo, che se il possesso rappresenta l’immagine di un diritto che viene a cessare con la morte del possessore, è assurdo pensare che tale rilevanza vada oltre questo evento, investendo la posizione di un nuovo soggetto (l’erede), che non solo acquisterà ipso iure il possesso, ma, con la eventuale apprensione materiale del bene, potrà dare vita ad una nuova ed autonoma situazione possessoria.

Da ultimo per la S.C.[103] il coerede che dopo la morte del de cuius sia rimasto nel possesso del bene ereditario, può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri eredi, senza necessità di interversione del titolo del possesso; a tal fine, egli, che già possiede “animo proprio” ed a titolo di comproprietà, e’ tenuto ad estendere tale possesso in termini di esclusività, il che avviene quando il coerede goda del bene in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui e tale da evidenziare una inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus, non essendo sufficiente che gli altri partecipanti si astengano dall’uso della cosa comune.

  • Accessione

L’art. 1146, secondo comma, c.c. — nel disporre che «il successore a titolo particolare può unire al proprio possesso quello del suo autore per goderne gli effetti» — si riferisce non solo al successore a titolo particolare mortis causa (legatario), bensì pure a quello per atto inter vivos [104].

In tema di accessione nel possesso, di cui all’art. 1146, secondo comma, c.c., affinché operi il trapasso del possesso dall’uno all’altro dei successivi possessori e il successore a titolo particolare possa unire al proprio il possesso del dante causa, è necessario che il trasferimento trovi la propria giustificazione in un titolo astrattamente idoneo a trasferire la proprietà o altro diritto reale sul bene; ne consegue, stante la tipicità dei negozi traslativi reali, che l’oggetto del trasferimento non può essere costituito dal mero potere di fatto sulla cosa. (Nella specie la S.C.[105] ha confermato la sentenza impugnata la quale aveva ritenuto che gli acquirenti di un immobile oggetto di locazione non potessero invocare a proprio favore il compossesso del conduttore sul piazzale antistante).



I negozi traslativi della proprietà o di altro diritto reale limitato non possono avere ad oggetto il trasferimento del solo possesso, attraverso un (non consentito) procedimento di adattamento funzionale della relativa causa negotii, con la conseguenza che l’acquirente di un immobile, nell’invocare giudizialmente la tutela possessoria, è tenuto a fornire la prova del concreto esercizio del proprio possesso (risultando, a tal fine, la mera esibizione del titolo di acquisto un elemento idoneo soltanto a rafforzare, ad colorandam possessionis, la prova stessa), ovvero della immissione di fatto nel possesso del bene da parte del precedente possessore (onde invocare l’istituto di cui all’art. 1146, secondo comma, c.c.), potendo lo ius possidendi di fatto non coincidere con lo ius possessionis. (Nella specie, il proprietario di un fondo ricevuto in donazione dal padre aveva evocato il giudizio del proprietario di un terreno finitimo sostenendo che, per molti anni, il padre aveva esercitato il passaggio su di una stradina — sita nel fondo confinante —, cui il proprietario aveva, in seguito, impedito ogni accesso arando il relativo sentiero. La S.C.[106], rilevato che l’impedimento al passaggio era avvenuto in epoca antecedente al contratto di donazione tra padre e figlio, ha enunciato il principio di diritto di cui in massima, rilevando come lo ius possessionis vantato dall’attore non trovasse alcun fondamento giuridico per esserne stato il suo dante causa già spogliato in epoca antecedente al trasferimento del bene).

Il principio dell’accessio possessionis stabilito dall’art. 1146, secondo comma, c.c.. spiega i suoi effetti, oltre che nel computo del termine utile per l’usucapione[107], anche in ordine ai requisiti temporali delle azioni possessorie[108] e, pertanto, l’estremo della proposizione di una siffatta azione entro l’anno (dallo spoglio o dalla turbativa) va accertato, non compiendo il relativo calcolo dalla data del trasferimento della cosa, bensì tenendo presente pure il possesso del dante causa[109].

Il principio dell’accessione del possesso, essendo enunciato per il possesso in generale, è applicabile non solo all’usucapione ordinaria di cui all’art. 1158 c.c., ma anche a quella decennale[110] di cui all’art. 1159 c.c.[111]

Anche il compossessore[112] pro indiviso di un immobile, che poi consegua il possesso esclusivo di una porzione di esso in esito a divisione, può invocare, ai fini dell’usucapione di tale porzione, anche il precedente compossesso, in virtù della sopravvenuta qualità di successore nel compossesso degli altri condividenti e della possibilità, prevista dall’art. 1146, comma secondo, c.c., di accessione del proprio possesso a quello esercitato dai condividenti medesimi[113].

L’accessione del possesso della servitù a favore del successore a titolo particolare della proprietà del fondo dominante, ferma la necessità di un titolo astrattamente idoneo a trasferire quest’ultimo, non richiede, ai sensi dell’art. 1146, comma secondo, c.c., l’espressa menzione della servitù nel titolo di acquisto[114].

Sul tema per altra sentenza di merito[115] in materia di servitù, il successore a titolo particolare può unire il proprio possesso al dante causa, nonostante nell’atto traslativo non sia stata fatta menzione della servitù e non vi sia alcun diritto di servitù intavolato. L’accessione del possesso della servitù, ai sensi dell’art. 1146, comma secondo, c.c. si verifica a favore del successore a titolo particolare nella proprietà del fondo dominante, anche in difetto di espressa menzione della servitù nel titolo traslativo della proprietà del fondo dominante e anche in mancanza di un diritto di servitù già costituito a favore del dante causa. Nella specie, pertanto, deve rilevarsi che l’attuale proprietaria del bene può sempre unire il suo possesso attuale a quello esercitato in precedenza dalla sua dante causa al fine di raggiungere il termine ventennale necessario per l’usucapione del diritto.

Infine, chi intende avvalersi dell’accessione del possesso di cui all’art. 1146, secondo comma, c.c., per unire il proprio possesso a quello del dante causa ai fini dell’usucapione, deve fornire la prova di aver acquisito un titolo astrattamente idoneo (ancorché invalido o proveniente a non domino) a giustificare la traditio del bene oggetto della signoria di fatto, operando detta accessione con riferimento e nei limiti del titolo traslativo e non oltre lo stesso[116].

Ne consegue che il convenuto in azione di regolamento di confini[117] che eccepisca l’intervenuta usucapione invocando l’accessione del possesso, deve fornire la prova dell’avvenuta traditio in virtù di un contratto comunque volto a trasferire la proprietà del bene in questione.

B)  Acquisto del possesso con la collaborazione di terzi

L’acquisto del possesso si può verificare con la cooperazione del precedente proprietario; tale cooperazione si realizza con la consegna della cosa che per la lettera del codice, dovrebbe servire a “trasferire il possesso” (art. 1263, secondo comma, c.c.).

Si avrebbe, in questo caso un acquisto a titolo derivativo.

I modi nei quali la consegna  o  traditio può essere effettuata sono vari.

Nella sua più semplice accezione indica un’operazione materiale che si esaurisce con la sostituzione di un soggetto (tradens) con un altro (accipiens) nel rapporto fisico con la cosa; essa si verificherà in maniera differente a seconda della natura e delle caratteristiche della res.

La consegna può essere

Ficta  o simbolica

Consensuale

In tale ipotesi l’acquirente acquista immediatamente il possesso – come nel caso della consegna reale – in virtù di un processo di spiritualizzazione del  corpus che si presenterà non più come potere effettivo sulla cosa, bensì quale semplice potenzialità di un tale potere.

Tale ipotesi si presenta in due differenti versioni:

  1. la traditio brevi manu – comporta l’evoluzione della situazione di un soggetto da detenzione in possesso (vendita al conduttore dell’immobile da lui già detenuto)e , di conseguenza la cessione del possesso mediato ad altro soggetto –
  2. la costituto possessorio – dà luogo al procedimento opposto, ossia alla degradazione della situazione di un soggetto da possesso a detenzione e alla nascita di una nuova situazione di possesso mediato a favore di altro soggetto.

caratteristica di entrambi è che non provocano un’apparente modificazione del corpus, ma soltanto del titolo e, di conseguenza dell’animus.

È opportuno, poi, ricordare che il possesso può essere acquistato con l’ausilio di altre persone; l’acquisto del possesso a mezzo di rappresentante dipende dalla volontà dell’interessato che può servirsi di questo mezzo ex art. 1372 e seg. nella fattispecie, il rappresentante assume la veste di detentore, spettando al rappresentato quella di possessore mediato, per lo meno fino al momento della consegna della cosa.

C)  Perdita del possesso

  • Per fatto del possessore

A causa di diversi comportamenti del possessore, tutti caratterizzati dall’essere incompatibili con l’animus possidenti.

Fra di essi, innanzitutto vi è la rinunzia, che potrebbe realizzarsi in una manifestazione espressa o in un comportamento concludente, come l’abbandono della res o la semplice inerzia, ossia la non esplicazione dell’attività in cui si esprime il potere di fatto che, se prolungata, può far presupporre il venir meno anche della volontà del possessore di continuare nella situazione di possesso.

Sembra allora ovvio che per far venire meno il possesso basti il venir meno dell’animus.

Secondo un giudizio consolidato[118] il possesso perdura anche per effetto della conservazione del solo animus se il mancato esercizio del godimento sulla cosa non dipenda da fatto estraneo alla volontà del possessore, tale da impedire che l’elemento del corpus possa essere ripristinato quando lo si voglia, salvo che la parte non abbia univocamente manifestato l’animus derelinquendi.



  • Per fatto dei terzi

Il possesso si perde per fatto del terzo in tutti i casi in cui vi è lo spoglio;

1)              sia che quest’ultimo si attui ai danni del possessore;

2)              sia che colpisca il detentore;

in entrambi i casi si realizza il venir meno del corpus, dato che la res viene sottratta alla materiale disponibilità dei soggetti.

La privazione totale o parziale di questo potere deve essere consapevolmente compiuta da un soggetto che dovrà, inoltre, agire contro la volontà del possessore o del detentore.

Ciò può accadere in modo violento e clandestino o in maniera differente.

art. 1168 c.c.  azione di reintegrazione: chi è stato violentemente od occultamente spogliato del possesso può, entro l’anno dal sofferto spoglio, chiedere contro l’autore di esso la reintegrazione del possesso medesimo.

L’azione è concessa altresì a chi ha la detenzione (qualificata) della cosa (c.c.1140), tranne il caso che l’abbia per ragioni di servizio o di ospitalità.

Se lo spoglio è clandestino, il termine per chiedere la reintegrazione decorre dal giorno della scoperta dello spoglio.

Inoltre è preferibile l’opinione[119] di chi ritiene che, pur se il codice riconosce al soggetto spogliato del suo diritto la legittimazione all’azione di reintegrazione per tutto l’anno successivo, ciò non sta a significare che gli sia riconosciuta anche la qualità di possessore, che spetta a colui che al momento attuale ha il potere di fatto sulla res, cioè allo spoliator o a chi l’ha acquistato da quest’ultimo.

  • Per cause oggettive

Si suole distinguere a seconda che esse diano luogo:

1)              ad impedimenti temporanei – in tale ipotesi il possesso non si perde –

  •  lo smarrimento –
  • sopravvenuta incapacità temporanea – per dar vita all’animus, infatti, è sufficiente la capacità d’intendere e di volere, anche in assenza di capacità legale.

2)              ad impedimenti definitivi –  in tale ipotesi il possesso cessa

  • perimento del bene (distruzione del bene)
  •  sopravvenuta incapacità definitiva

D)  Gli atti di tolleranza

art. 1144 c.c.     atti di tolleranza: gli atti compiuti con l’altrui tolleranza non possono servire di fondamento all’acquisto del possesso .

1)   Definizione

Gli atti di tolleranza, che secondo l’art. 1144 c.c. non possono servire di fondamento all’acquisto del possesso, sono quelli che implicando un elemento di transitorietà e saltuarietà comportano un godimento di modesta portata, incidente molto debolmente sull’esercizio del diritto da parte dell’effettivo titolare o possessore e soprattutto traggono la loro origine da rapporti di amicizia o familiarità (o da rapporti di buon vicinato sanzionati dalla consuetudine), i quali mentre a priori ingenerano e giustificano la permissio, conducono per converso ad escludere nella valutazione a posteriori la presenza di una pretesa possessoria sottostante al godimento derivatone. Pertanto nell’indagine diretta a stabilire, alla stregua di ogni circostanza del caso concreto, se un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o altro diritto reale sia stata compiuta con l’altrui tolleranza e quindi sia inidonea all’acquisto del possesso, la lunga durata dell’attività medesima può integrare un elemento presuntivo, nel senso dell’esclusione di detta situazione di tolleranza, qualora si verta in tema di rapporti non di parentela, ma di mera amicizia o buon vicinato, tenuto conto che nei secondi, di per sé labili e mutevoli, è più difficile il mantenimento di quella tolleranza per un lungo arco di tempo[120].

In altre parole gli atti compiuti con l’altrui tolleranza ex art. 1144 c.c. sono quelli che hanno origine nei rapporti di amicizia, familiarità, buon vicinato sanzionati dalla consuetudine e nello spirito di condiscendenza del proprietario possessore che si manifesta nella cosiddetta permissio domini, espressa o tacita, consistente in un atto unilaterale.

Deve escludersi, pertanto, la ricorrenza di un atto di tolleranza allorquando l’esercizio di un determinato potere di fatto sulla cosa altrui sia il frutto di un accordo che ne precisi modalità, condizioni e contenuto, ponendo fine ad un contrasto tra le parti[121].

Ancora, da ultimo la S.C.[122] ha affermato che l’uso prolungato nel tempo di un bene di norma non è compatibile con la mera tolleranza, essendo questa normalmente configurabile nei casi di transitorietà ed occasionalità degli atti compiuti, sicchè, in cospetto dell’esercizio sistematico e reiterato del potere di fatto sulla cosa, spetta a che lo abbia subito l’onere di provare che lo stesso sia stato dovuto a mera tolleranza .

Al fine di stabilire se la relazione di fatto con il bene costituisca una situazione di possesso ovvero di semplice detenzione dovuta a mera tolleranza di chi potrebbe opporvisi, come tale inidonea, ai sensi dell’art. 1144 c.c., a fondare la domanda di usucapione[123], la circostanza che l’attività svolta sul bene abbia avuto durata non transitoria e sia stata di non modesta entità, cui normalmente può attribuirsi il valore di elemento presuntivo per escludere che vi sia stata tolleranza, è destinata a perdere tale efficacia nel caso in cui i rapporti tra le parti siano caratterizzati da vincoli particolari, quali quelli di parentela o di società, in forza di un apprezzamento di fatto demandato al giudice di merito (nel caso di specie, la S.C.[124], in applicazione di tale principio, ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso ogni efficacia presuntiva alla suddetta circostanza, con riferimento alla domanda di usucapione di un terreno che, durante il periodo interessato, era stato di proprietà di una società per azioni di cui l’attore era uno dei due soci).

Per altra pronuncia[125] meno recente gli atti di tolleranza, di cui all’art. 1144 c.c., sono quelli che, implicando un elemento di transitorietà e saltuarietà, comportano un godimento di modesta portata, incidente molto debolmente sull’esercizio del diritto da parte dell’effettivo titolare o possessore, e, soprattutto, traggono la loro origine da rapporti di amicizia o familiarità (o da rapporti di buon vicinato sanzionati dalla consuetudine), i quali, mentre a priori ingenerano e giustificano la permissio, conducono per converso ad escludere, nella valutazione a posteriori, la presenza di una pretesa possessoria sottostante al godimento comportato.

2)   Gli indici rilevatori

La tolleranza è caratterizzata, in rapporto al godimento consentito di un bene, dalla accondiscendenza del dominus dello stesso (derivante da rapporti di buon vicinato, di parentela, di amicizia, di cortesia o di opportunità) manifestata in modo da essere nota al destinatario, tal ché quest’ultimo, nell’usufruire del bene altrui, abbia sempre presente la eventualità e la legittimità di un sopravveniente divieto. Tale situazione, peraltro, non può essere desunta esclusivamente dalla frequenza con cui venga utilizzata la cosa altrui, e ciò in particolare nel caso di passaggio attraverso fondi altrui, trattandosi dell’esercizio di una servitù discontinua costituita per sua stessa natura da attività saltuaria e sporadica[126].

Come già sottolineato in precedenza in tema di acquisto del possesso ad usucapionem, al fine di valutare se un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale sia compiuta con l’altrui tolleranza, e sia quindi inidonea all’acquisto del possesso, la lunga durata di tale attività può integrare un elemento presuntivo in favore dell’esclusione di una semplice tolleranza qualora si verta in rapporti di mera amicizia o di buon vicinato e non di parentela, tenuto conto che in relazione ai primi, di per sé labile e mutevoli, è più improbabile il mantenimento della tolleranza per un lungo arco di tempo.

Massima, quest’ultima, fatta propria anche in un’ultima pronuncia della Cassazione,

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 4 agosto 2015, n. 16371

secondo cui in tema di acquisto del possesso ad usucapionem al fine di valutare se un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale sia compiuta con l’altrui tolleranza, e sia quindi inidonea all’acquisto del possesso, la lunga durata di tale attività può integrare un elemento presuntivo in favore dell’esclusione di una semplice tolleranza quando si verta in rapporti di mera amicizia o di buon vicinato e non di parentela, tenuto conto che in relazione ai primi di per sé mutevoli, è più improbabile il mantenimento della tolleranza per un lungo arco di tempo.

Nel caso specie, la S.C[127]. ha confermato il rigetto della domanda di acquisto per usucapione della proprietà di un maso chiuso, giudicando insufficiente ai fini della prova del possesso la disponibilità delle chiavi di esso da parte dell’attore, fratello della proprietaria, e il suo utilizzo di uno dei locali di cui era composto il maso quale ricovero di slittini e piante.

In un altro caso  concreto, il Tribunale di Ivrea[128], accertata la inesistenza di una servitù di passaggio in capo agli odierni attori, in quanto riconducibili le attività dai medesimi svolte ad un mero atto di tolleranza giustificato dagli ottimi rapporti di vicinato un tempo esistenti tra le parti in causa, non ha accolto la proposta domanda di reintegrazione nel possesso della invocata servitù di passaggio.

Di recente la S.C.[129] ha confermato che in materia di possesso, non è configurabile un atteggiamento di tolleranza del proprietario, che – come tale – esclude una situazione possessoria a favore del terzo, allorché l’uso del bene da parte di quest’ultimo sia prolungato nel tempo o, avvenendo contro la volontà del proprietario, non possa fondarsi sull’altrui compiacenza.

Sul medesimo tema con ultima pronuncia[130], già indicata in precedenza, è stato sottolineato l’orientamento assolutamente consolidato,  che ha distinto l’ipotesi nella quale la tolleranza si verifichi per rapporti di amicizia o di buon vicinato, rispetto all’ipotesi in cui si verifichi per rapporti di parentela (ritenuti di carattere più stabile e duraturo nel tempo); in questi ultimi casi, il silenzio o l’inerzia, benché protratti per molti anni, non potrebbero di per sé denotare rinuncia, ancorché tacita, al possesso, se non accompagnati da atti o fatti che in modo certo rivelassero la volontà di cessare la relazione di carattere possessorio (ancorché solo animo) con i locali contestati da parte della titolare del relativo diritto e, per contro, la tolleranza del godimento da parte del parente è presumibile proprio in considerazione del rapporto di parentela; infatti, secondo i richiamati principi elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte, i rapporti in concreto esistenti tra le parti, se caratterizzati da vincoli particolari, quali quelli di parentela possono elidere l’anzidetto valore di presunzione e anzi nei vincoli di stretta parentela è ben plausibile il mantenimento di un atteggiamento tollerante anche per un lungo arco di tempo.



In merito sempre ai rapporti parentali, secondo il Tribunale della lanterna[131] è fondata la domanda giudiziale con la quale gli istanti chiedano disporsi la condanna del convenuto al rilascio dell’immobile e dei relativi annessi, di proprietà dei primi, abitati dal convenuto suo parente, a titolo di cortesia. Alcun fondamento assume la tesi difensiva con cui quest’ultimo assuma di non aver abitato l’immobile a titolo di cortesia ma di averlo posseduto per oltre venti anni con conseguente acquisto del bene per maturata usucapione. Invero, il vincolo di stretta parentela intercorrente tra le parti in causa consente di ritenere la sussistenza di atti di tolleranza che ai sensi dell’art. 1144 c.c., non possono servire di fondamento all’acquisto del possesso anche nell’ipotesi in cui non ricorrono le caratteristiche della breve durata e della limitata incidenza del godimento assentito.

Infine, come anche da una massima di merito del Tribunale Felsineo[132], gli atti di tolleranza, che traggono origine dall’altrui spirito di condiscendenza o da rapporti di amicizia e di buon vicinato e che implicano un elemento di transitorietà e di saltuarietà, consistono in un godimento di portata modesta e tale da incidere molto debolmente sull’esercizio del diritto da parte dell’effettivo titolare o possessore. Al fine di escludere la configurabilità del possesso, gli indici che identificano la condizione di tolleranza devono essere tuttavia percepiti dal terzo, cosicché in assenza di tale percezione non vi è motivo per escludere l’animus possidendi. Spetta a colui che contesta l’altrui esercizio del potere di fatto sulla cosa l’onere di provare che esso deriva da atti di tolleranza.

3)   Prova

Inizialmente la S.C.[133] nell’affermare che l’animus possidendi è normalmente insito nel potere di fatto attraverso il quale si manifesta, ove si assuma che l’esercizio del possesso avvenga per tolleranza, spetta a chi ciò adduce darne la prova.

Principio, poi ripreso, da altra pronuncia[134] secondo la quale poiché è da presumere il possesso da parte di colui che eserciti un potere di fatto sulla cosa, spetta a chi contesti il possesso medesimo l’onere di provare che esso derivi da atti di tolleranza, i quali hanno fondamento nello spirito di condiscendenza, nei rapporti di amicizia o di buon vicinato e implicano una previsione di saltuarietà o transitorietà.

In pratica gli atti di tolleranza vanno eccepiti e provati dal dominus convenuto con azione di reintegra, che li invochi per contestare il possesso dedotto dall’attore[135]

7)  Effetti del possesso

Libro III della proprietà – Titolo VIII del possesso  – capo II degli effetti del possesso –  artt. 1148 – 1167

Il possesso rileva quale oggetto di tutela  contro le altrui aggressioni, poiché esso è fonte legale del diritto al pacifico godimento della res.

Il possesso rileva, poi, come per il titolo

1)              per l’acquisto dei  frutti –

2)              il rimborso delle spese –

3)              l’acquisto in proprietà della cosa.

 

A)  La buona fede 

[136]

art. 1147 c.c.    possesso di buona fede: è possessore di buona fede chi possiede ignorando di ledere l’altrui diritto .

La buona fede non giova se l’ignoranza dipende da colpa grave.

La buona fede è presunta e basta che vi sia stata al tempo dell’acquisto.

La nozione del codice identifica la buona fede in termini negativi, ossia nei termini della non consapevolezza di possedere illegittimamente.

La buona fede così individuata non richiede un valido titolo di acquisto del possesso e non è esclusa dalla conoscenza che il bene appartiene ad altri, poiché il possessore può credere di possedere con il consenso e l’autorizzazione del proprietario; quel che conta è che il possessore non abbia la consapevolezza di arrecare danno al proprietario.

L’art. 1147 c.c., nel presumere la buona fede con disposizione di carattere generale e assegnando rilievo al ragionevole convincimento di poter esercitare sulla cosa posseduta il diritto di proprietà o altro diritto reale senza ledere la sfera giuridica altrui (da valutare con riferimento alla data dell’acquisto), imprime al concetto di buona fede un carattere eminentemente psicologico e soggettivo[137]. Tale presunzione non è vinta dall’allegazione del semplice sospetto di una situazione illegittima, essendo necessario dedurre l’esistenza di un dubbio fondato su circostanze serie, concrete e non meramente ipotetiche, la cui prova deve essere fornita da chi intende contrastare la suddetta presunzione legale di buona fede.

Se è vero che ad integrare il possesso di buona fede è sufficiente l’ignoranza di ledere il diritto altrui (ignoranza determinata da errore scusabile non essendo necessario, per l’art. 1147 c.c., l’esistenza di un titolo (che era, invece, previsto, come elemento costitutivo del possesso di buona fede, dall’abrogato codice del 1865), e che, per gli effetti propri di tale possesso (art. 1148 e segg. c.c.), basta la buona fede nel momento iniziale, la coscienza cioè, nel momento in cui il possesso ha inizio, di goderne legittimamente, senza danno di alcuno, è però anche vero che il titolo è necessario affinché il possesso di buona fede sia suscettibile di ulteriori effetti, tra cui quello di fare acquistare la proprietà della cosa alienata a non domino[138].

In ipotesi di acquisto a non domino la presunzione di buona fede, che l’art. 1147 c.c. pone a vantaggio dell’acquirente nel possesso del bene, è una presunzione semplice, e come tale può essere superata in tutti i casi in cui l’acquirente sia stato posto in grado di accertare, o comunque di dubitare, che l’alienante non fosse proprietario del bene, a mezzo della verifica catastale o a mezzo della verifica dei registri nei quali è effettuata la trascrizione di determinate alienazioni o delle domande giudiziali relative al trasferimento della proprietà dello stesso bene[139].

Essendo la buona fede presunta, è onere di chi la contesta dare la prova che il possessore in buona fede conosceva la illegittimità del suo possesso o che, con un mino di diligenza, avrebbe dovuto conoscerla.

Il codice stabilisce un principio generale in base al quale è possessore di buona fede colui che ha acquistato il possesso in buona fede: la buona fede iniziale, dunque, continua a caratterizzare il possesso anche se il possessore abbia, in un secondo momento, riconosciuto l’illegittimità del suo possesso.

Gli effetti della buona fede terminano a seguito della domanda giudiziale di rivendicazione della cosa; da quel momento la posizione del possessore è equiparata a quella del possessore di mala fede; tale equiparazione prescinde dall’accertamento della mala fede del convenuto.

B)  La regola sull’acquisto dei frutti

nell’acquisto dei frutti vanno distinti 2 elementi costitutivi:

  • il possesso – che legittima l’acquisto dei frutti può essere diretto o indiretto, ma a quest’ultimo tutta via compete solo i frutti civili.
  • la buona fede

art. 1148 c.c.  acquisto dei frutti: il possessore di buona fede fa suoi i frutti naturali separati fino al giorno della domanda giudiziale e i frutti civili maturati fino allo stesso giorno (c.c.820 e seguente). Egli, fino alla restituzione della cosa risponde verso il rivendicante (948) dei frutti percepiti dopo la domanda giudiziale e di quelli che avrebbe potuto percepire dopo tale data, usando la diligenza di un buon padre di famiglia (c.c.1176).

 



  • Il fondamento

La regola sull’acquisto dei frutti è stato indicato dalle fonti romane nella naturali ratio, ossia in un principio che giustifica la spettanza dei frutti raccolti a chi abbia curato o coltivato il fondo.

Il proprietario ha il diritto di fare suoi i frutti, ma se tale diritto non viene esercitato, sembra essere più meritevole di tutela il possessore di buona fede che mostra interesse per la cosa sfruttandone la produttività, senza volere, in tal modo, ledere il diritto d’altri.

  • Ambito applicativo

La buona fede che qualifica il possesso idoneo ex art. 1148 c.c. a determinare l’acquisto dei frutti della cosa (posseduta) fino al giorno della domanda giudiziale di restituzione si presume (ex art. 1147, terzo comma, c.c.) e prescinde dall’esistenza di un titolo, rilevando (ex art. 1147, primo comma, citato) la cosiddetta opinio domini, ossia il ragionevole convincimento di poter esercitare sulla cosa posseduta il diritto di proprietà (od altro diritto reale) senza ledere la sfera altrui.

Pertanto, i principi generali fissati dalle norme predette sono applicabili anche al possesso di un bene acquistato a domino in forza di un contratto poi dichiarato nullo[140].

Nel caso di retratto agrario il coltivatore ha diritto di conseguire dal retrattato la restituzione dei frutti a far tempo dal momento della vendita, alla cui data retroattivamente spiega effetti il riscatto medesimo, restando esclusa per detto retrattato la possibilità di invocare le norme che regolano l’acquisto dei frutti da parte del possessore in buona fede[141].

Anche nell’occupazione sine titulo, il giudice di merito, che condanna l’occupante abusivo di un immobile al risarcimento dei danni a favore del proprietario, ha il dovere di esaminare quale specie di possesso — se di buona o di mala fede — esercitava l’occupante, diversi essendo gli effetti che discendono dall’una o l’altra specie di possesso in relazione al limite temporale dettato dall’art. 1148 c.c.[142]

Per ultima Cassazione[143] riguardo la buona fede degli eredi immessi nella successione, poiché il principio della presunzione di buona fede di cui all’art. 1147 c.c. ha portata generale e non limitata all’istituto del possesso in relazione al quale è enunciato e poiché il possessore di buona fede è tenuto alla restituzione dei frutti a far tempo dalla domanda giudiziale con la quale il titolare del diritto ha chiesto la restituzione della cosa, il mutamento della condizione del possessore da buona fede a mala fede presuppone la proposizione nei suoi confronti di una domanda volta ad ottenere la restituzione del bene posseduto. Ne consegue che, con riferimento ad azione di petizione ereditaria[144] proposta da figlio naturale successivamente al passaggio in giudicato della sentenza di riconoscimento del proprio status, gli eredi che erano stati immessi nel possesso dei beni ereditari in buona fede permangono nella condizione di buona fede sino al momento della notificazione della domanda di restituzione dei beni ereditari.

  • La restituzione

L’obbligo del possessore di restituire i frutti, ai sensi dell’art. 1148 c.c., riguarda anche con riferimento ai frutti «civili», sia quelli percepiti che quelli percepibili con la diligenza del buon padre di famiglia, e si traduce, per entrambe le ipotesi, in un debito di valuta (non di valore, come quello inerente ai frutti «naturali»), come tale produttivo di interessi legali «giorno per giorno», secondo il criterio fissato dall’art. 821 terzo comma c.c.[145].

L’obbligo di restituire i frutti dal giorno della proposizione della domanda giudiziale di cui all’art. 1148 c.c. è conseguenza del carattere dichiarativo della sentenza e del suo effetto retroattivo, nel caso di estinzione del processo la restituzione dei frutti deve prendere necessariamente data dalla successiva domanda che debitamente coltivata, ha condotto alla sentenza di condanna[146].

Indipendentemente dalla buona fede o meno, ha carattere di debito di valore l’obbligo relativo ai frutti naturali, mentre realizza debito di valuta — soggetto al principio nominalistico — l’obbligo relativo ai frutti civili, costituenti il corrispettivo del godimento della cosa (quali le somme riscosse a titolo di pigione)[147].

La malafede rende non meritevole di tutela l’interesse del possessore per l’acquisto dei frutti; se il possesso deriva da illecito, il possessore risponderà secondo le regole dell’illecito civile, e, pertanto, la restituzione della res e dei frutti avrà funzione risarcitoria.

Per la S.C.[148] la qualifica di possessore di mala fede non può essere ritenuta implicita nella circostanza che il possessore sia stato dichiarato occupante abusivo dei terreni rivendicati con sentenza passata in giudicato, poiché l’esclusione di un titolo legittimante la occupazione, essendo riferita al momento dell’inizio della controversia e non al tempo dell’acquisto del possesso, non può riguardare la buona o mala fede al tempo di detto acquisto.

 

art. 1149 c.c.   rimborso delle spese per la produzione e il raccolto dei frutti: il possessore che è tenuto a restituire i frutti indebitamente percepiti  ha diritto al rimborso delle spese a norma del secondo comma dell’art. 821).

 

Tali spese vanno rimborsate perché, altrimenti, chi ha diritto alla restituzione dei frutti, conseguirebbe dal possessore un ingiusto vantaggio, superiore a quello che gli avrebbe procurato il godimento diretto della res.

C)  Riparazioni, miglioramenti e addizioni

art. 1150  c.c.  riparazioni, miglioramenti e addizioni: il possessore, anche se di mala fede ha diritto al rimborso delle spese fatte per le riparazioni straordinarie.

Ha anche diritto a indennità per i miglioramenti recati alla cosa, purché sussistano al tempo della restituzione.

L’indennità si deve corrispondere nella misura dell’aumento di valore conseguito dalla cosa per effetto dei miglioramenti, se il possessore è di buona fede; se il possessore è di mala fede, nella minor somma tra l’importo della spesa e l’aumento di valore.

Se il possessore è tenuto alla restituzione dei frutti, gli spetta anche il rimborso delle spese fatte per le riparazioni ordinarie, limitatamente al tempo per il quale la restituzione è dovuta.

Per le addizioni fatte dal possessore sulla cosa si applica il disposto dell’art. 936. Tuttavia, se le addizioni costituiscono miglioramento e il possessore è di buona fede, e dovuta una indennità nella misura dell’aumento di valore conseguito dalla cosa (disp. di att.al c.c. 157).

 



La previsione normativa di cui all’art. 1150, comma primo, c.c. accomuna, senza distinzioni di sorta, il possessore di mala fede a quello di buona fede quanto al riconoscimento del diritto al rimborso delle spese per le riparazioni straordinarie, al pari di quella di cui al successivo comma quarto, per effetto della quale al rimborso delle spese per le riparazioni ordinarie ha diritto «il possessore (non meglio qualificato sotto il profilo dello status soggettivo) tenuto alla restituzione dei frutti». La distinzione tra possessore di buona e di mala fede rileva, pertanto, in quest’ultima ipotesi, al solo, limitato fine di individuare il dies a quo del dovuto rimborso, che coincide con il (diverso) momento a partire dal quale ciascuno di essi risulti, rispettivamente, obbligato alla restituzione dei frutti (art. 1148 e 1150 comma quarto c.c.)[149].

Per ultima Cassazione[150] ai sensi dell’art. 1150 c.c., il possessore ha diritto all’indennità per i miglioramenti, purché l’incremento di valore sussista al tempo della restituzione della cosa, in quanto il diritto medesimo prescinde dall’esistenza di un rapporto contrattuale fra le parti e si correla al dato obiettivo dell’incremento di valore secondo criteri di effettività e attualità, traendo il proprietario vantaggio dalla miglioria solo dal momento della reintegrazione nel godimento del bene. (Nella specie, in applicazione del principio, la S.C. ha cassato la decisione di merito, che aveva valutato quali opere indennizzabili una tettoia e un pozzo, nonostante l’una fosse stata costruita con materiali in fibrocemento di amianto, la cui utilizzabilità è stata vietata dalla legge 27 marzo 1992, n. 257, e l’altra realizzata senza autorizzazione del Genio civile, ciò che escludeva, per entrambe, la sussistenza, effettiva e attuale, dell’incremento di valore).

Il principio secondo il quale la domanda giudiziale fa cessare gli effetti del possesso di buona fede che non siano divenuti irrevocabili ed impedisce quelli ulteriori non attiene soltanto all’acquisto dei frutti, ma si riferisce a tutti i possibili effetti del possesso di buona fede, tra i quali è quello che attribuisce al possessore il diritto di essere indennizzato dal proprietario dell’incremento di valore arrecato alla cosa, che resta, dunque, irrilevante, ove dipenda da opere eseguite dopo la notificazione della domanda. (Fattispecie relativa a migliorie eseguite dal promissario acquirente, in possesso del bene, dopo la proposizione della domanda di risoluzione del contratto introdotta dal promittente venditore)[151].

  • Ambito di applicazione

L’indennità di cui all’art. 1150 c.c. compete solo al possessore, e non al mero detentore[152] della cosa, che possiede alieno nomine[153].

In altre parole in materia possessoria, la normativa che prevede il rimborso delle spese sostenute per la manutenzione o la ristrutturazione ovvero la corresponsione di un indennizzo per l’apporto di migliorie, con il conseguente diritto alla ritenzione del bene sino al soddisfacimento del relativo credito, si applica soltanto in caso di possesso e non anche di detenzione e, essendo una norma eccezionale, non è suscettibile di applicazione in via analogica[154].

Principio, poi, ripreso da successiva giurisprudenza[155] secondo la quale la norma dell’art. 1150 c.c., che attribuisce al possessore, all’atto della restituzione della cosa, il diritto al rimborso delle spese fatte per le riparazioni straordinarie ed all’indennità per i miglioramenti recati alla cosa stessa, è di natura eccezionale e non può, dunque, essere applicata in via analogica al detentore; ne consegue che, qualora nella promessa di vendita venga concordata la consegna del bene prima della stipulazione del contratto definitivo, la relazione del promissorio acquirente con il bene si definisce in termini di detenzione qualificata, sicché l’art. 1150 c.c. non si applica a tale ipotesi.

Al comodatario non sono rimborsabili le spese straordinarie non necessarie ed urgenti, anche se comportino miglioramenti, tenendo conto della non invocabilità da parte del comodatario stesso, che non è né possessore né terzo, dei principi di cui agli artt. 1150 e 936 c.c., ed altresì della carenza, anche nel similare rapporto di locazione, di un diritto ad indennizzo per le migliorie[156].

Principio affermato da altra sentenza[157] più recente secondo cui in tema di comodato, al comodatario non sono rimborsabili le spese straordinarie non necessarie ed urgenti, anche se comportano miglioramenti, né sotto il profilo dell’art. 1150 c.c. perché egli non è possessore, né sotto quello art. 936 c.c. perché non è terzo anche quando agisce oltre i limiti del contratto, né, infine, sotto quello dell’art. 1595 c.c. in via di richiamo analogico, perché un’indennità per i miglioramenti è negata anche al locatario la cui posizione è molto simile a quella comodatario. Deve riconoscersi al comodatario soltanto il ius tollendi per le addizioni.

Per una sentenza di merito[158], invece, la parte che, dopo aver stipulato un contratto di comodato, occupi abusivamente un’unità immobiliare nella erronea convinzione che si tratti proprio del bene oggetto del contratto, deve essere considerato possessore in buona fede ed ha pertanto diritto, in caso di esercizio dell’azione di rilascio da parte dell’effettivo proprietario del bene, ad un’indennità per i miglioramenti apportati all’immobile.

Da ultimo la Corte di Legittimità

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 6 giugno 2013, n.14262

riaffermando il principio secondo cui la qualificazione del rapporto di godimento che si instauri, su di un bene oggetto di contratto preliminare di compravendita e di consegna anticipata al promissario acquirente non è quella di possessore, ma di detentore qualificato, che esercita il relativo potere di fatto sulla cosa per conto del possessore, promittente venditore, va escluso che al suddetto detentore possa spettare il diritto di ritenzione (istituto che si avrà modo di approfondire successiamente), opponibile alla domanda di restituzione, in funzione della domanda riconvenzionale di rimborso delle spese per le indennità ed i miglioramenti apportati alla cosa, che l’art. 1150 c.c. attribuisce soltanto al possessore in buona fede. Tenuto conto della particolare natura, in quanto costituente una eccezionale forma di autotutela, della disposizione che tale diritto prevede, quello di ritenzione non può applicarsi analogicamente anche nei casi di detenzione, ancorché qualificata, quale che sia la componente psicologica che la connoti.

In favore del coniuge, che, in costanza di matrimonio, abbia provveduto a proprie spese a migliorie od ampliamenti di immobile in godimento del nucleo familiare e di proprietà dell’altro coniuge, deve riconoscersi il diritto ai rimborsi ed alle indennità contemplate dall’art. 1150 c.c. per il possessore in buona fede, trattandosi di norma applicabile anche al compossessore, mentre va esclusa l’invocabilità dell’art. 936 c.c., in tema di opere fatte da un terzo con materiali propri, difettando nel compossessore il requisito della terzietà[159].

Il coerede, il quale abbia migliorato i beni comuni da lui posseduti, pur non potendo invocare l’applicazione dell’art. 1150 c.c., che riconosce il diritto ad una indennità pari all’aumento di valore della cosa determinato dai miglioramenti, tuttavia, quale mandatario o utile gestore degli altri compartecipi alla comunione ereditaria, può pretendere il rimborso delle spese eseguite per la cosa comune, le quali si ripartiscono al momento della attribuzione delle quote, secondo il principio nominalistico, dato che lo stato di indivisione riconduce all’intera massa i miglioramenti stessi[160].

Al comproprietario e compossessore[161] di buona fede di un immobile, che vi abbia eseguito addizioni costituenti miglioramenti (nella specie, costruendo un fabbricato sul terreno acquistato pro indiviso), non si applica la normativa dell’art. 936 c.c.,nel richiamo fattone all’art. 1150, quinto comma, c.c., in quanto tale disciplina postula che autore delle opere realizzate su suolo altrui sia un terzo, non potendo qualificarsi come tale il titolare di un diritto di natura reale, avente ad oggetto il fondo su cui le opere sono state eseguite; a tale comproprietario, per i predetti miglioramenti, non è pertanto dovuta un’indennità nella misura dell’aumento di valore conseguito dal bene ma, dovendo egli essere considerato, secondo i casi, un mandatario degli altri partecipi alla comunione, ai sensi dell’art. 1720 c.c. o un utile gestore nel loro interesse, ai sensi dell’art. 2031 c.c. spetta soltanto il rimborso degli oneri sostenuti[162].

Mentre nessun indennizzo può essere preteso, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 1150 e 936 c.c., dal terzo possessore che, sul fondo altrui, abbia costruito un’opera in violazione della normativa edilizia, commettendo i reati previsti e puniti dagli artt. 31 e 41 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, e 10 e 13 della legge 6 agosto 1967, n. 765, essenzialmente perché quell’indennizzo sarebbe in contrasto con i principi generali dell’ordinamento ed in particolare con la funzione dell’amministrazione della giustizia, in quanto l’agente verrebbe a conseguire indirettamente, ma pur sempre per via giudiziaria, quel vantaggio che si era ripromesso di ottenere nel porre in essere l’attività penalmente illecita e che, in via diretta, gli è precluso dagli artt. 1346 e 1418 c.c.[163].

In precedenza, però, la medesima Corte[164] aveva stabilito che con riferimento alle indennità dovute al possessore ai sensi dell’art. 1150 c.c., l’esecuzione di una costruzione senza autorizzazione (e perciò esposta, in mancanza di condono o di sanatoria, al pericolo di demolizione per ordine della competente autorità amministrativa) non realizza un miglioramento indennizzabile, essendo al riguardo necessario un incremento non precario, ma stabile ed effettivo, nel patrimonio del proprietario. Né assume rilievo l’eventualità di una successiva sanatoria dell’abuso, essendo in tal caso esperibile, ai sensi dell’art. 2041 c.c., l’azione di arricchimento senza causa, nei limiti della differenza fra la somma dovuta ai sensi dell’art. 1150 c.c. e gli oneri economici derivanti dalla sanatoria.



  • La buona fede

Il diritto a ottenere l’indennità per i miglioramenti e a ritenere la cosa, a norma degli artt. 1150 comma terzo e 1152 c.c., non spetta al convenuto in giudizio con l’azione personale di restituzione per difetto del requisito del possesso di buona fede[165].

Il requisito della buona fede del possessore, che ai sensi dell’articolo 1150 comma 5, del c.c., per il richiamo alla disciplina dell’articolo 936 dello stesso codice, non solo impedisce al proprietario di chiedere la rimozione delle addizioni, ma lo obbliga a corrispondere l’indennità per i miglioramenti derivati al fondo, è quello definito e regolato in via generale dall’articolo 1147 del c.c.

Spetta, pertanto, al proprietario, che agisce per il rilascio del bene, provare la malafede del possesso e il suo carattere originario, dato che la buona fede deve presumersi[166].

Ai fini della liquidazione dell’indennità per miglioramenti apportati dal possessore, la buona fede richiesta dall’art. 1150 c.c. non si identifica con la consapevolezza di essere proprietario del fondo sul quale si eseguano le migliorie, ma consiste nella consapevolezza di non ledere l’altrui diritto[167].

La buona fede del possessore, che ai sensi del quinto comma dell’art. 1150 c.c., per il richiamo alla disciplina dell’art. 936 c.c.., non solo impedisce al proprietario del suolo di chiedere la rimozione delle addizioni, ma lo obbliga a corrispondere l’aumento di valore, se esse lo hanno migliorato, è quella definita in via generale dall’art. 1147 c.c., che prescinde dall’esistenza di un titolo e dà rilievo al convincimento, di valore etico, di non ledere l’altrui diritto[168].

  • Natura del credito

L’art. 1150 c.c. distingue, agli effetti dei diritti del possessore, le riparazioni dai miglioramenti e dalle addizioni, in quanto,mentre per le prime gli riconosce il diritto al rimborso delle spese incorse, costituente un debito di valuta, sottoposto alla disciplina dell’art. 1277 c.c., per quanto concerne i miglioramenti e le addizioni gli attribuisce il diritto ad una indennità che, avendo funzione di reintegrazione patrimoniale, va considerata debito di valore e, pertanto, deve essere determinata tenendo conto della svalutazione monetaria verificatasi fino alla data della liquidazione[169].

Principio successivamente confermato con altra pronuncia[170] a mente della quale ai fini dell’applicazione del comma terzo dell’art. 1150 c.c. — in base al quale l’indennità per i miglioramenti recati alla cosa deve essere corrisposta, al possessore di mala fede, nella minor somma tra l’importo della spesa e l’aumento di valore — l’importo della spesa dei miglioramenti, in quanto diretto ad una reintegrazione patrimoniale, è debito non di valuta, ma di valore, per cui esso deve essere determinato dal giudice, tenendo conto della svalutazione monetaria verificatasi sino al momento della liquidazione, anche d’ufficio e quindi indipendentemente da qualsiasi prova da parte del danneggiato.

Infine, in tema di retratto agrario, nel caso di positivo esercizio, da parte del prelazionario pretermesso, dell’azione di riscatto prevista dal quinto comma dell’art. 8 della legge 26 maggio 1965 n. 590, l’omessa verifica, da parte dell’acquirente (retratto) del fondo agricolo, della sussistenza, in capo ai terzi, di un diritto di prelazione[171] agraria sul fondo compravenduto costituisce colpa grave, escludente il possesso di buona fede, dovendosi escludere che questo possa farsi dipendere dalla circostanza che il contratto di compravendita sia stato stipulato con l’intervento di un notaio; all’acquirente assoggettato alla azione di riscatto spetta, quindi, ai sensi dell’art. 1150 c.c., una indennità per i miglioramenti commisurata al minor importo tra lo speso ed il migliorato e tale indennità, costituendo debito di valuta, resta sottratta agli effetti della svalutazione monetaria[172].

 

art. 1151 c.c.   pagamento delle indennità: l’autorità giudiziaria, avuto riguardo alle circostanze, può disporre che il pagamento delle indennità previste dall’articolo precedente sia fatto ratealmente, ordinando, in questo caso, le opportune garanzie (c.c.1179).

 

 

D)  Ritenzione a favore del possessore di buona fede

art. 1152 c.c.    ritenzione a favore del possessore di buona fede:  il possessore di buona fede può ritenere la cosa finché non gli siano corrisposte le indennità dovute, purché queste siano state domandate nel corso del giudizio di rivendicazione (c.c.948) e sia stata fornita una prova generica della sussistenza delle riparazioni e dei miglioramenti (c.c.2756).

Egli ha lo stesso diritto finché non siano prestate le garanzie ordinate dall’autorità giudiziaria nel caso previsto dall’articolo precedente.

 

 

Lo ius retentionis — che, attuando una forma di autotutela, in deroga al principio per cui nessuno può farsi giustizia da sé, costituisce un istituto di carattere eccezionale, insuscettibile di applicazione analogica e limitato ai casi previsti dalla legge.

E’ sorto nel corso degli anni una problematica riguardante l’applicabilità o meno della forma di autotutela anche per l’affittuario del fondo rustico.

Secondo una prima risalente pronuncia, non spettava al conduttore di fondo rustico (mezzadro, affittuario o colono) che, obbligato al rilascio, intendeva garantirsi attraverso la ritenzione del pagamento di somme che gli siano dovute dal concedente per migliorie o per qualsiasi altro titolo attinente al cessato rapporto di conduzione agraria. Né era invocabile al riguardo l’art. 1152 c.c., che riconosce il diritto di ritenzione al possessore di buona fede, perché il conduttore agrario non ha il possesso, ma solo la detenzione dell’immobile e perché — comunque — non viene in considerazione la regolamentazione degli effetti del possesso come fatto giuridico indipendente dalla sussistenza di un diritto[173].

Successivamente la medesima Corte[174] ha stabilito che, soprattutto in forza di una successiva integrazione legislativa, il diritto di ritenzione, che è riconosciuto in via generale nell’art. 1152 c.c. e si configura come situazione non autonoma ma strumentale all’autotutela di altra situazione attiva generalmente costituita da un diritto di credito, è contemplato in favore dell’affittuario di fondo rustico nell’art. 20 della legge 3 maggio 1982, n. 203 (così come lo era, già, nell’art. 15 della precedente legge n. 11 del 1971) in stretta correlazione al diritto di credito per le indennità spettanti al coltivatore diretto per i miglioramenti, le addizioni e le trasformazioni da lui apportati al fondo condotto, sicché, presupponendo l’esistenza di un credito derivante dalle opere indicate e realizzate dal coltivatore diretto, non è scindibile dall’esistenza di detto credito o dall’accertamento di questo. Pertanto, eccepito dall’affittuario che si opponga all’esecuzione del rilascio di un fondo rustico il diritto di ritenzione a garanzia del proprio credito per i miglioramenti apportati al fondo, il giudice non può limitarsi ad accertare l’esistenza delle opere realizzate dall’affittuario, ma deve verificarne anche l’indennizzabilità, rigettando l’eccezione ove tale verifica dia esito negativo.

Inoltre la ritenzione è prevista a favore del possessore di buona fede convenuto nel giudizio di rivendicazione e non del detentore[175], convenuto in un’azione personale restitutoria[176].

Non può, ulteriormente, essere invocato dal detentore nomine alieno dell’immobile nei confronti del proprietario rivendicante.

Ne consegue, ad esempio, che l’assegnatario di un alloggio di cooperativa edilizia sottoposta a liquidazione coatta amministrativa, autorizzato al mero ed eccezionale deposito di mobili nell’alloggio stesso, una volta convenuto in giudizio dal commissario per lo scioglimento del rapporto, non può essere considerato possessore in buona fede e, quindi, non ha diritto alla ritenzione dell’immobile fino al pagamento di miglioramenti ed addizioni[177].

Per una pronuncia di merito del Tribunale meneghino[178], in virtù dell’eccezionalità dell’art. 1152 c.c., è  illegittimo il comportamento del venditore che si rifiuti di riconsegnare all’acquirente il bene venduto (nella specie una tenda con meccanismo elettrico), ritirato per una verifica di funzionamento, interamente pagato dall’acquirente e, quindi, di sua stretta proprietà. L’attività di verifica posta in essere, resa dal venditore, inoltre, deve essere qualificata come doverosa, in quanto compresa ed eseguita nel periodo di tempo di vigenza della garanzia con conseguente inconfigurabilità di qualsiasi diritto tanto al compenso per il lavoro svolto, quanto alla citata ritenzione della merce.



  • Questioni processuali

Al fine di esercitare il diritto di ritenzione previsto dall’art. 1152 c.c. a favore del possessore di buona fede finché non siano corrisposte le indennità dovute ai sensi dell’art. 1150 c.c., la relativa domanda deve essere proposta dal possessore convenuto nel giudizio di rivendicazione, ma trattandosi non di mera eccezione conseguente alla condanna alla restituzione ma di vera e propria domanda, non può essere proposta per la prima volta in appello, stante il divieto dell’art. 345 c.p.c.[179]

La richiesta di rilascio di un immobile, e quella, sollevata riconvenzionalmente dal convenuto, di pagamento delle indennità di cui agli artt. 1151 e 1152 c.c.., integrano domande distinte e suscettibili di separazione[180]. Pertanto, deve ritenersi consentito al collegio, in applicazione dell’art. 277 secondo comma c.p.c., di limitare la decisione alla prima di dette richieste, ove ravvisi la necessità di ulteriore istruttoria per la statuizione sulla altra.

Principio già espresso con altra pronuncia[181] secondo la quale il diritto di ritenzione spettante al possessore di buona fede a norma dell`art. 1152 c.c. mira a tutelare la pretesa creditoria al pagamento della indennità e, come tale, è ad essa intimamente connesso, per cui allo stesso modo di questa deve essere fatto valere in via riconvenzionale nel corso del giudizio di rilascio, soggiacendo alle stesse regole processuali stabilite per il credito di cui garantisce l’esecuzione, con la conseguenza che la domanda per il riconoscimento del diritto di ritenzione, se non proposta in primo grado è domanda nuova, come tale inammissibile in grado di appello

 

 

E)   Acquisto a non domino su beni mobili

per gli acquisti su beni mobili altrui vale l’art. 1153 c.c.

 

art. 1153 c.c.    effetti dell’acquisto del possesso: colui al quale sono alienati beni mobili da parte di chi non ne è proprietario, ne acquista la proprietà mediante  (1o requisito) il possesso, purché sia (2o requisito) in buona fede al momento della (3o requisito) consegna e sussista un (4o requisito) titolo idoneo al trasferimento della proprietà.

La proprietà si acquista libera da diritti altrui sulla cosa, se questi non risultano dal titolo e vi è la buona fede dell’acquirente.

Nello stesso modo si acquistano diritti di usufrutto, di uso   e di pegno  (c.c.981, 1021, 2784).

 

1)   I presupposti

 

È necessaria la consegna, che deve essere effettiva, cioè operata mediante spossessamento, ad iniziativa dell’alienante non dominus o suo delegato (non si può acquistare da chi si presenta, ma non è rappresentante, perché una cosa è l’acquisto dal falsusu procurator altra cosa è l’acquisto a non domino), in favore dell’acquirente o di un suo adiectus solutionis causa.

Infatti per la S.C.[182] qualora la cosa mobile sia stata alienata dal rappresentante senza potere del proprietario, non si verifica l’acquisto in base al possesso di buona fede.

Non sarebbe, dunque, ammissibile una trasmissione simbolica, né una costituto possessorio, mentre nulla osterebbe ad un traditio brevi manu, essendo la cosa già stata consegnata.

Ai sensi dell’art. 1153 c.c., la validità del trasferimento di beni mobili non postula che l’alienante ne sia il legittimo possessore, essendo invece sufficiente che esista un titolo astrattamente idoneo al trasferimento della proprietà e che lo acquirente consegua il possesso di detti beni in buona fede, requisito, quest’ultimo, il cui accertamento involge un apprezzamento di fatto, come tale incensurabile in cassazione se immune da errori di diritto[183].

2)   La buona fede

 

La buona fede nel possesso dell’acquirente a non domino di bene mobile va presunta, ai sensi dell’art. 1147 c.c., con la conseguenza che spetta a chi [184]rivendichi il bene, al fine di escludere in favore del possessore gli effetti di cui all’art. 1153 c.c., di fornire la prova della mala fede o della colpa grave del possessore medesimo, al momento della consegna. Tale prova può essere data anche mediante presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, e tali da prevalere sull’indicata presunzione legale[185].

La presunzione di buona fede dell’acquirente a non domino può esser vinta anche mediante presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti; tanto più che, trattandosi di accertare uno stato psicologico, e normale che la prova sia fornita indirettamente attraverso illazioni desumibili da circostanze esteriori. La buona fede, ancorché intesa in senso meramente psicologico, è esclusa anche dal semplice dubbio dell’esistenza di un diritto altrui in contrasto con il proprio diritto[186].

Il concetto di buona fede, di cui all’art. 1153 c.c., che rileva in base a tale norma — ai fini dell’acquisto della proprietà di beni mobili a non domino, corrisponde a quello dell’art. 1147 c.c. e, pertanto, ai sensi del secondo comma di questa norma, la buona fede non giova a chi compie l’acquisto ignorando di ledere l’altrui diritto per colpa grave, la quale è configurabile quando quell’ignoranza sia dipesa dall’omesso impiego, da parte dell’acquirente, di quel minimo di diligenza, proprio anche delle persone scarsamente avvedute, che gli avrebbe permesso di percepire l’idoneità dell’acquisto a determinare la lesione dell’altrui diritto, poiché non intelligere quod omnes intellegunt costituisce un errore inescusabile, incompatibile con il concetto stesso di buona fede.

Per il tribunale[187] Capitolino colui al quale viene alienato un bene mobile da parte di chi non ne è il proprietario ne diviene proprietario in virtù del possesso, purché sia in buona fede al momento dell’acquisto e sussista un titolo idoneo al trasferimento della proprietà del bene. La sussistenza della buona fede, ai sensi dell’art. 1147 c.c., è presunta e, pertanto, spetta a chi rivendica il bene l’onere di fornire la prova della mala fede o della colpa grave dell’acquirente al momento della consegna del bene, prova che può essere fornita anche mediante presunzioni semplici, purché gravi, precise, concordanti e tali comunque da prevalere sulla presunzione legale.

3)   Il titolo

Il modo di acquisto della proprietà dei beni mobili previsto dall’art. 1153 c.c. richiede, oltre al possesso di buona fede, la esistenza di un titolo astrattamente idoneo al trasferimento del diritto, requisito, questo, che deve essere provato da chi lo allega a proprio favore, non potendo presumersi in base alla semplice consegna della cosa, che può derivare anche da rapporti non traslativi del diritto di proprietà[188].

4)   La consegna

ll particolare modo di acquisto della proprietà di beni mobili regolato dall’art. 1153, primo comma, c.c. richiede, per la sua operatività, il requisito della consegna materiale della cosa stessa, la quale deve realizzare, oltre che il venir meno nell’alienante dell’animus possidendi e del corpus possessionis, la corrispondente situazione di possesso reale da parte dell’acquirente, il quale ultimo deve ottenere una disponibilità di fatto del bene non condizionata dalla volontà del tradens. Tuttavia la consegna materiale, se deve provenire dall’alienante, non comporta anche la necessità del contatto fisico e diretto dell’acquirente con la cosa mobile, poiché ciò che viene in rilievo è il fatto che l’acquirente, ad esclusione di altri, sia posto in grado di esercitare sul bene i poteri di controllo e vigilanza, che costituiscono il contenuto proprio del possesso uti dominus trasmessogli dal suo dante causa a titolo particolare, per cui la consegna ben può essere effettuata ad un rappresentante, ad un incaricato ovvero ad un adiectus solutionis causa del compratore[189].

La proprietà se vi sono i presupposti generali ovvero buona fede e titolo idoneo si acquista libera da diritti altrui sulla cosa tale concetto è riportato anche all’art.111 del c.p.c.

art. 111 c.p.c.  successione a titolo particolare nel diritto controverso: se nel corso del processo si trasferisce il diritto controverso per atto tra vivi a titolo particolare, il processo prosegue tra le parti originarie.
Se il trasferimento a titolo particolare avviene a causa di morte, il processo è proseguito dal successore universale o in suo confronto.
In ogni caso il successore a titolo particolare può intervenire o essere chiamato nel processo e, se le altre parti vi consentono, l’alienante o il successore universale può esserne estromesso.
La sentenza pronunciata contro questi ultimi spiega sempre i suoi effetti anche contro il successore a titolo particolare ed è impugnabile anche da lui, salve le norme sull’acquisto in buona fede dei mobili e sulla trascrizione



5)   Casistica

Non è configurabile l’acquisto a titolo originario di un’opera immateriale dell’ingegno, nella specie opera cinematografica, in base a titolo astrattamente idoneo per effetto del possesso di buona fede, ai sensi dell’art. 1153 c.c., a ciò ostando il carattere particolare del diritto d’autore, che trova fondamento unicamente nell’atto creativo e realizzativo dell’idea, per il trasferimento del quale non si richiede una consegna, perché questa, anche ove ricorra, si riferisce all’oggetto materiale in cui l’opera si estrinseca, senza però mai immedesimarsi in essa; inoltre, seppure l’art. 167 della legge 22 aprile 1941, n. 633 abbia voluto assicurare, a chi si trovi in una posizione corrispondente a quella del possessore di buona fede, la possibilità di far valere i suoi diritti nei confronti di eventuali contraffattori, non ha tuttavia inteso innovare i principi che attengono alla natura immateriale dell’opera dell’ingegno ed ai modi di acquisto dei diritti ad essa inerenti[191].

Ancora, secondo altra pronuncia di merito[192], in caso di controversia riguardante la sussistenza della titolarità dei diritti di utilizzazione economica di un film, considerata la natura proprietaria del diritto di autore, la regola applicabile ben può essere rinvenuta nell’art. 1153 c.c., che dirime i conflitti proprietari sui beni mobili nell’acquisto anche a non domino, sempre che il possesso sia stato acquistato in buona fede ed in forza di un titolo idoneo al trasferimento. (Nel caso di specie non si ritenuta sufficiente l’iscrizione del film nel Pubblico Registro Cinematografico a provare la mala fede dell’utilizzatore in ordine alla titolarità altrui dei diritti sul film, a fronte di contratto di noleggio stipulato con un terzo).

  • Beni indisponibili [193]

La disposizione dell’art. 1153 c.c. — sull’acquisto della proprietà in forza di possesso di buona fede di beni mobili, conseguito in esecuzione di atto astrattamente idoneo all’effetto traslativo — non opera con riguardo a cose di interesse artistico e storico appartenenti ad enti o istituti legalmente riconosciuti diversi dallo Stato o da altri enti o istituti pubblici (nella specie, la Diocesi di San Sepolcro) e soggette a norma del combinato disposto degli artt. 26 e 28 della legge 1 giugno 1939 n. 1089 al regime dell’ inalienabilità senza previa autorizzazione del Ministero della Pubblica Istruzione e della prelazione statale nell’acquisto di esse, in quanto si tratta di beni per i quali è espressamente vietata (art. 32) all’alienante la traditio in pendenza del termine per i detti adempimenti, mentre la consegna della cosa, per potere produrre gli effetti di cui al citato art. 1153, deve essere non vietata dalla legge per motivi d’interesse generale[194].

Res Furtiva

Il terzo acquirente di res furtiva, che questa rivendichi presso lo stesso derubato al quale l’ha riconsegnata per ordine dell’autorità di polizia, non è tenuto a provare la buona fede che l’ha assistito nel procedere all’acquisto, incombendo invece alla parte avversaria che la res detiene l’obbligo di dimostrare la mala fede che ha presidiato all’acquisto stesso, in forza del quale viene spiegata l’azione di rivendica. La norma dell’art. 948 c.c., secondo la quale ogni proprietario, non escluso quello della cosa rubata, può rivendicare la cosa da chiunque la possiede o detiene, presuppone che il possesso altrui non abbia prodotto in terzi l’acquisto della proprietà, con la perdita di questa da parte dell’originario titolare del diritto; perduta la qualità di proprietario, non c’è legittimazione attiva per la rivendica o diritto di preferenza di fronte al nuovo acquisto del possessore di buona fede, munito di titolo idoneo[195].

Il patto di riservato dominio

Non è condivisibile la tesi secondo la quale il patto di riservato dominio può trovare tutela esclusivamente in presenza dei requisiti prescritti dall’art. 1524, c. 2, c.c.; qualora, infatti, il patto abbia ad oggetto beni mobili e non sia stata effettuata la trascrizione, dovrà farsi applicazione della disciplina generale relativa al trasferimento di detti beni dettata dall’art. 1153 c.c., del quale la norma contenuta nell’art. 1524 costituisce eccezione[196].

Qualora l’acquirente di un’azienda con patto di riservato dominio ne effettui a sua volta la vendita, tale vendita non è nulla ma integra una ipotesi di acquisto “a non domino” (e pertanto deve qualificarsi come vendita di cosa altrui) anche se l’acquirente non sia stato a conoscenza dell’esistenza del patto di riservato dominio, giacchè il complesso di beni costituito in azienda costituisce una tipica universalità di beni ai sensi dell’art. 816 c.c., per la quale non può trovare applicazione il principio dell’acquisto immediato in virtù del possesso, ai sensi dell’art. 1153 c.c., in virtù dell’esplicita esclusione sancita dall’art. 1156 c.c.[197]

In caso di acquisto a non domino di cosa mobile non registrata, dalla presunzione, derivante dal principio posto dall’art. 1147 c.c., che l’acquirente sia stato in buona fede, deriva, per colui che intenda contrastare tale presunzione, l’onere di fornire elementi idonei alla formulazione non del mero sospetto di una situazione illegittima, ma di un dubbio derivante da circostanze serie, concrete e non ipotetiche[198].

Leasing

Nel caso di acquisto a non domino, da parte del concedente in leasing finanziario, di un bene mobile consegnato dal fornitore direttamente all’utilizzatore, lo stato di buona fede al momento della consegna, rilevate ai fini dell’acquisto della proprietà ai sensi dell’art. 1153 c.c., deve essere valutato con riferimento al soggetto acquirente concedente in leasing, e non dell’utilizzatore, atteso che, nel contratto di leasing finanziario, la consegna del bene, che il fornitore effettua, in adempimento dell’obbligazione assunta direttamente con il concedente, all’utilizzatore, deve intendersi eseguita ad un adiectus solutionis causa dell’acquirente della cosa, e non ad un suo rappresentante[199].

art. 1154 c.c.   conoscenza dell’illegittima provenienza della cosa: a  colui che ha acquistato conoscendo l’illegittima provenienza della cosa, non giova l’erronea credenza che il suo autore o un precedente possessore ne sia divenuto proprietario.

 

art. 1155 c.c.    acquisto di buona fede e precedente alienazione ad altri: se taluno con successivi contratti aliena a più persone un bene mobile, quella tra esse che ne ha acquistato in buona fede il possesso è preferita alle altre, anche se il suo titolo è di data posteriore.

 

Per autorevole dottrina[200] in verità per il primo avente causa la buona fede non rileva, perché egli ha acquistato dal proprietario ex art. 1376 c.c., cosicché prevarrà anche se consegue il possesso pur sapendo che, nel frattempo, il dante causa ha alienato ad un terzo, così come potrà agire in rivendica contro il secondo avente causa possessore di mala fede.

Solo per il secondo avente causa il possesso di buona fede è, dunque, essenziale, perché per il primo esso ha la sola funzione di impedire la possibile perdita della proprietà in caso di successiva alienazione.

La regola di cui all’art. 1155 c.c. si applica anche in caso di doppio usufrutto o di uso (non di pegno, che senza la consegna non nasce), estendendo analogicamente non già l’art. 1153 terzo comma, c.c., perché il costituente deve essere proprietario, ma, a seconda che si propenda per l’acquisto a titolo derivativo o originario, l’art. 1265 secondo comma, c.c. o l’art. 1153 primo comma, c.c., se si ritiene che il nudo proprietario, costituendo di nuovo un usufrutto o uso si comporti come un non dominus.

In entrambi i casi previsti dagli artt. 1153 e 1155 c.c. chi ha conseguito il possesso in mala fede può usucapire trascorsi 20 anni; se, invece c’è buona fede, ma il titolo è inidoneo, invalido o inefficace, sono sufficienti 10 anni.

 

art. 1156 c.c.    universalità di mobili e mobili iscritti in pubblici registri: le disposizioni degli articoli precedenti non si applicano alle universalità di mobili  e ai beni mobili iscritti in pubblici registri (c.c.815 e seguente, 2683 e seguenti; Cod. Nav. 146 e seguenti,753 e seguenti).

Ai beni mobili soggetti ad iscrizione nei pubblici registri (nella specie, autovettura), ma di fatto non iscritti, non si applica la norma di cui all’art. 1156 c.c., con la conseguenza che la loro proprietà può acquistarsi in attuazione del principio del possesso di buona fede, quando ricorrono le condizioni stabilite dall’art. 1153 c.c.[201]

Ai beni mobili soggetti ad iscrizione nei pubblici registri, ma di fatto non iscritti o non validamente iscritti come nel caso del veicolo registrato con il numero di telaio contraffatto, non si applica la norma di cui all’art. 1156 c.c., con la conseguenza che la loro proprietà può acquistarsi in attuazione del principio del possesso di buona fede, quando ricorrono le condizioni stabilite dall’art. 1153 c.c.[202]

Per una sentenza di merito[203] ai beni mobili soggetti ad iscrizione nei pubblici registri (nella specie autovettura), ma di fatto non registrati, non si applica la norma di cui all’art. 1156 c.c., con la conseguenza che la loro proprietà può acquistarsi, in attuazione del principio «il possesso di buona fede vale titolo», secondo le modalità di cui all’art. 1153 c.c., senza che la mancanza dei documenti necessari alla sua utilizzazione possa influire sulla buonafede dell’acquirente



 

 

art. 1157 c.c.     possesso di titoli di credito: gli effetti del possesso di buona fede dei titoli di credito sono regolati dal titolo V del libro IV (c.c.1944)

 

NOTE


[1] Corte di Cassazione, sentenza 21-10-71, n. 2968

[2] Bianca

[3] Vedi par.fo 7, lettera C – Riparazioni, miglioramenti ed addizioni, pag. 56

[4] Vedi par.fo 7, lettera D – Ritenzione a favore del possessore di buona fede, pag. 63

[5] Vedi par.fo 9, lettera D – Azione di manutenzione – legittimazione,  pag. 152

[6] Corte di Cassazione, sentenza 1-12-77, n. 5227

[7] Corte di Cassazione, sentenza 3 agosto 2012, n. 14104

[8] Per una maggiore disamina del contratto di locazione aprire il seguente collegamento La locazione

[9]Per una maggiore disamina del contratto di comodato aprire il seguente collegamento Il contratto di comodato 

Il comodatario quale detentore della cosa comodata non può acquistare il possesso ad usucapionem senza prima avere mutato mediante una interversio possessionis la sua detenzione in possesso, per causa proveniente da un terzo o in forza di opposizione da lui fatta contro il possessore. Corte di Cassazione, sentenza 30-3-95, n. 3811

[10] Corte di Cassazione, sentenza 27-2-96, n. 1533

[11] Per una maggiore disamina del contratto preliminare ad effetti anticipati  aprire il seguente collegamento Le trattative ed il contratto preliminare – par.fo E – Effetti

[12] Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, sentenza 27 marzo 2008 n. 7930, Corte di Cassazione, sentenza 18 settembre 2012, n. 15626

[13] Corte di Cassazione, sentenza 30-6-87, n. 5746

[14] Masi, Rescigno, Bianca

[15] Vedi par.fo 9, lettera A  – Le azioni in generale – Legittimazione attiva, pag. 127

[16] Corte di Cassazione, sentenza 25-5-87, n. 4698

[17] Corte di Cassazione, sentenza 21-6-85, n. 3721

[18] Corte di Cassazione, sentenza 5-12-90, n. 11691

[19] Corte di Cassazione, sentenza 29-5-81, n. 3523

[20] Corte di Cassazione, sentenza 20 settembre 2012, n. 15839

[21] Corte d’Appello Roma, Sezione 1 civile, sentenza 16 aprile 2012, n. 1989

[22]  Corte di Cassazione, sentenza 25-5-87, n. 4698

[23] Corte di Cassazione, sentenza 27-7-83, n. 5165

[24] Corte di Cassazione, sentenza 27 novembre 2012, n. 21084

[25] Corte di Cassazione, sentenza n. 5854 del 16/03/2006

[26] Corte di Cassazione, sentenza n. 27521 del 19/12/2011

[27] Il mutamento della detenzione in possesso, secondo la previsione dell’art. 1141 c.c., non può conseguire al mero compimento di atti corrispondenti all’esercizio della proprietà, anche se compiuti animo possidendi, essendo a tale fine necessario che tali atti si traducano in opposizione contro il possessore, e, cioè rendano esteriormente riconoscibile all’avente diritto che il detentore intende far cessare il godimento nomine alieno, vantando per sé il diritto esercitato. Conseguentemente con riguardo al conduttore di un immobile deve ritenersi che siano inidonei a trasformare la detenzione in possesso sia i meri atti di esercizio del possesso dell’immobile stesso non accompagnati da uno specifico atto d’interversione, sia l’omesso pagamento del canone che, ove non sia accompagnato da un atto di opposizione, configura soltanto un comportamento di inadempienza contrattuale. Corte di Cassazione, sentenza 8-9-86, n. 5466

[28] Corte di Cassazione, sentenza 13008 del 27-5-2010

[29] Corte di Cassazione, sentenza 9-3-92, n. 2802

[30]  Vedi par.fo 8, lettera B) Oggetto dell’usucapione, pag. 94

[31] Vedi par.fo 4 – Soggetti  – compossesso – pag. 28

[32] Tribunale Roma, Sezione 8 civile, sentenza 9 giugno 2012, n. 11952

[33] Corte di Cassazione, sentenza 3.12.2004, n. 22776

[34] Corte di Cassazione, sentenza 21.1.2009, n. 1551

[35] Corte di Cassazione, sentenza 10230 del 15-7-2002

[36] Corte di Cassazione, sentenza 30-6-82, n. 3939

[37] Corte di Cassazione, sentenza 9396 del 6-5-2005. Il possesso può conservarsi solo animo, purché permanga la possibilità di agire, sempre che si voglia, sulla cosa, proseguendo nella medesima situazione di fatto determinata dal soggetto e nella quale consiste il suo possesso. Corte di Cassazione, sentenza 11-6-86, n. 3861

[38] Corte di Cassazione, sentenza 19-4-95, n. 4360. Nella specie la sentenza di merito, confermata dalla s.c., aveva ritenuto inidonei a configurare acquisizione del possesso il passaggio su di un terreno per accedere alla propria abitazione e la sua utilizzazione quale spazio di manovra per la propria autovettura ed aveva escluso che la mancata utilizzazione della stessa area da parte del possessore costituisse segno chiaro ed univoco del suo animus dereliquendi.

[39] Corte di Cassazione, sentenza 2-7-66, n. 1716

[40] Corte di Cassazione, sentenza 7-1-92, n. 39 La rinuncia al possesso da parte del proprietario di un bene, in quanto limitativa dello jus domini, non può presumersi, ma deve risultare da una univoca manifestazione di volontà abdicativa, sicché la semplice astensione dall’esercizio del possesso non è sufficiente a determinarne la perdita, potendosi ritenere che permanga l’animus possidendi quando sia sempre possibile al possessore ripristinarne l’esercizio. Corte di Cassazione, sentenza 21-12-99, n. 14370

[41] Corte di Cassazione, sentenza 20-10-75, n. 3432. Anche del possesso è ipotizzabile un atto di rinuncia ed esso non richiede la forma scritta. Peraltro, tale rinuncia, se può far presumere il venir meno dell’animus possidendi, non comporta necessariamente anche il venir meno del potere di fatto (corpus), cui, in un momento successivo ad essa, ben può riaccompagnarsi l’elemento soggettivo anzidetto, con il conseguente inizio di un nuovo possesso tutelabile ex art. 1168 c.c. — lo stabilire se, nonostante la rinuncia al possesso, il rinunciante abbia o no continuato volutamente a porre in essere un’attività corrispondente all’esercizio di un diritto reale costituisce indagine di fatto, che, se adeguatamente motivata, è insindacabile in sede di legittimità. Corte di Cassazione, sentenza 30-4-82, n. 2724



[42] Corte di Cassazione, sentenza 26-11-75, n. 3952

[43] Corte di Cassazione, sentenza 2-7-66, n. 1716

[44] Corte di Cassazione, sentenza 18-10-78, n. 4687

[45] Vedi par.fo 9, lettera A  – Le azioni in generale – Legittimazione attiva pag. 127

[46] Gazzoni

[47] Per una maggiore disamina del diritto di superficie aprire il seguente collegamento Il diritto di superficie

[48] Corte di Cassazione, sentenza 23-7-83, n. 5086

[49] Per una maggiore disamina del diritto di usufrutto aprire il seguente collegamento L’usufrutto

[50] Per una maggiore disamina del diritto di servitù aprire il seguente collegamento Le servitù prediali

[51] Corte di Cassazione, sentenza 27-10-75, n. 3590 Nella specie, sulla base dei suesposti principi, la S.C. ha ritenuto non tutelabile con l’azione di spoglio la servitù positiva, mai esercitata, di aprire finestre lucifere sul fondo contiguo.

[52] Per una maggiore disamina del diritto di servitù altius non tollendi  aprire il seguente collegamento Le luci e vedute

[53] Corte di Cassazione, sentenza 12-10-71, n. 2865

[54] Vedi par.fo 9, lettera A  – Le azioni in generale – Legittimazione attiva pag. 127

[55] Per una maggiore disamina dell’istituto della comunione aprire il seguente collegamento  La comunione

[56] Vedi par.fo 6, lettera C  – Riparazioni, miglioramenti ed addizioni, pag. 58

[57] Vedi par.fo 9, lettera A  – Le azioni in generale – Legittimazione attiva, pag. 127

[58] Per la consultazione integrale della sentenza aprire il seguente collegamento Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 22 novembre 2012, n. 20704 

[59] Corte di Cassazione, sentenza 14 giugno 2012, n. 9786

[60] Corte di Cassazione, sentenza 22-11-86, n. 6878

[61] Corte di Cassazione, sentenza 5-8-85, n. 4383. Pertanto, qualora il possesso di un fondo rustico risulti limitato dal concorrente possesso da altri esercitato su determinati beni presenti nel terreno, quali gli alberi di un bosco, deve escludersi che il godimento di tali beni, da parte del titolare della relativa situazione possessoria, sia qualificabile come atto di spoglio o di turbativa in danno del possessore del fondo

[62] Corte di Cassazione, sentenza 13082 del 9-9-2002

[63] Corte di Cassazione, sentenza 14 giugno 2012, n. 9786

[64] Corte di Cassazione, sentenza nn. 1745/02, 8047/01 e 2555/74

[65] Corte di Cassazione, sentenza n. 511/82

[66] Corte di Cassazione, sentenza n. 7162/91

[67] Corte di Cassazione, sentenza n. 6804/93

[68] Corte di Cassazione, sentenza n. 24456/11

[69] Corte di Cassazione, sentenza n. 26543/08

[70] Corte di Cassazione, sentenza 10406 del 30-7-2001 (nella specie, la S.C., in forza del sopraenunciato principio, ha accolto il ricorso e cassato con rinvio la sentenza del giudice d’appello che aveva escluso che l’apposizione, da parte di alcuni dei comproprietari, di una lapide sulla facciata esterna di una cappella funeraria in aggiunta a quella preesistente e convenzionalmente accettata da tutti i compossessori potesse costituire turbativa o molestia del compossesso del bene comune in danno degli altri comproprietari del bene).

[71] Vedi par.fo 1, lettera A  –  Potere di Fatto – Interversione  –  pag. 15

[72] Corte di Cassazione, sentenza 26-5-99, n. 5127

[73] Vedi par.fo 8, lettera A  –  Nozione ed elementi costitutivi dell’usucapione – punto 2) Interruzione del possesso,  pag. 80

[74] Vedi par.fo 8, lettera A  –  Nozione ed elementi costitutivi dell’usucapione – punto 4) Compossesso,  pag. 85

[75] Corte di Cassazione, sentenza 18-2-99, n. 1367

[76] Corte di Cassazione, sentenza 10-7-97, n. 6260

[77] Corte di Cassazione, sentenza Sez. Un., 15289 del 4-12-2001

[78] Corte di Cassazione, sentenza Sez. Un. 12-3-86, n. 1666

[79] Vedi par.fo 9, lettera  C – azione di reintegrazione, pag. 140

[80] Corte di Cassazione, sentenza 29-4-92, n. 5180

[81] Vedi par.fo 9, lettera D  – azione di manutenzione, pag. 147

[82] Vedi par.fo 8, lettera B  – oggetto dell’usucapione, pag. 95

[83] Corte di Cassazione, sentenza 12-11-79, n. 5835

[84] par.fo 6,  lettera E)  Acquisto a non domino dei beni mobili – Casistica,  pag. 68

[85] Corte di Cassazione, sentenza 7-1-84, n. 106

[86] Corte di Cassazione, sentenza 20-4-76, n. 1379

[87] Corte di Cassazione, sentenza 20-9-91, n. 9837

[88] Corte di Cassazione, sentenza 1009 del 18-1-2008Nel caso di specie, la Corte ha confermato la sentenza che aveva accolto l’azione di reintegra nel sepolcro e di rimozione di salma introdotta dalle parti resistenti in quanto, mentre la parte ricorrente aveva provato documentalmente il proprio possesso o compossesso, le parti resistenti avevano meramente dedotto il compossesso loro e del defunto, senza provarlo, fondandolo su ragioni esclusivamente petitorie

[89] Per una maggiore disamina dell’azienda aprire il seguente collegamento  L’azienda

[90] Vedi par.fo 6,  lettera E) – Acquisto a non domino dei beni mobili – Casistica –  pag. 67

[91] Corte di Cassazione, sentenza 13-11-73, n. 3004



[92] Corte di Cassazione, sentenza 19-4-91, n. 4243 nella specie la S.C. ha confermato la decisione dei giudici di merito, i quali avevano negato la tutela possessoria nella considerazione che il ricorrente si era limitato ad utilizzare dei nastri fissi con la trasmissione ripetitiva di due brani musicali in un ristretto ambito temporale

[93] Corte di Cassazione, sentenza 23-9-91, n. 9901

[94] Corte di Cassazione, sentenza 28-4-93, n. 4999

[95]  Vedi par.fo 8, lettera B  – oggetto dell’usucapione – pag. 95

[96] Corte di Cassazione, sentenza 24-2-77, n. 826

[97] Corte di Cassazione, sentenza 24-1-2000, n. 742

[98] Vedi par.fo 9, lettera A  – Le azioni in generale – Legittimazione attiva pag. 128

[99] Corte di Cassazione, sentenza 6852 del 18-5-2001

[100] Vedi par.fo 8, lettera A  – Nozione ed elementi costitutivi dell’usucapione – pag. 73

[101] Corte di Cassazione, sentenza 30-6-87, n. 5747

[102] Corte di Cassazione, sentenza 16-1-71, n. 80

[103] Corte di Cassazione, sentenza 28 novembre 2012, n. 21119, Corte di Cassazione, sentenza 2 n. 7221 del 25.3.2009, conf. nn. 5226/02, 13921/02, 1741/05, 16841/05

[104] Corte di Cassazione, sentenza 30-7-84, n. 4525

[105] Corte di Cassazione, sentenza 6353 del 16-3-2010

[106] Corte di Cassazione, sentenza 3-7-98, n. 6489

[107] Vedi par.fo 8, lettera A  –  Nozione ed elementi costitutivi dell’usucapione – possesso continuato, pag. 75

[108] Vedi par.fo 9, lettera A  – Le azioni in generale, pag. 116

[109] Corte di Cassazione, sentenza 6-4-81, n. 1943

[110] Vedi par.fo 8, lettera D –  usucapione  abbreviata,  pag. 104

[111] Corte di Cassazione, sentenza 7966 del 21-5-2003

[112] Vedi par.fo 4 – Soggetti  – compossesso, pag. 29

[113] Corte di Cassazione, sentenza 4428 del 24-2-2009

[114] Corte di Cassazione, sentenza 5 novembre 2012, n. 18909

[115] Tribunale Trento, civile, sentenza 28 giugno 2012, n. 629

[116]Corte di Cassazione, sentenza 27 aprile 2012, n. 6575. In senso conforme, vedi, Cassazione civile, Sez. VI-2, ordinanza del 26 ottobre 2011, n. 22348.

[117] Per una maggiore disamina dell’azione per regolamento dei confini aprire il seguente collegamento   Le azioni a difesa della proprietà: rivendicazione – negatoria – regolamento di confini – apposizione dei termini – par.fo 3 Regolamento dei confini

[118] Corte di Cassazione, sentenza 9396 del 6-5-2005

[119] Natoli – Capozzi

[120] Corte di Cassazione, sentenza 8194 del 18-6-2001

[121] Corte di Cassazione, sentenza 19-4-94, n. 3712

[122] Corte di Cassazione, sentenza 17 luglio 2012, n. 12273 tra le altre, Corte di Cassazione, sentenza n. 3404/2009; 18651/04, 15739/04, 11871/04, Corte di Cassazione, sentenza n. 6760/03, 8194/01, 6738/00, 1077/95, 6944/90

[123] Vedi par.fo 8, lettera A  –  Nozione ed elementi costitutivi dell’usucapione – Animus possidendi,  pag. 75

[124] Corte di Cassazione, sentenza 9661 del 27-4-2006

[125] Corte di Cassazione, sentenza 25-1-83, n. 697. Gli atti di tolleranza, che secondo l’art. 1144 c.c. non possono servire di fondamento all’acquisto del possesso, sono quelli che implicando un elemento di transitorietà e saltuarietà comportano un godimento di modesta portata, incidente molto debolmente sull’esercizio del diritto da parte dell’effettivo titolare o possessore, e soprattutto traggono la loro origine da rapporti di amicizia o familiarità (o da rapporti di buon vicinato sanzionati dalla consuetudine), i quali, mentre a priori ingenerano e giustificano la permissio, conducono per converso ad escludere nella valutazione a posteriori la presenza di una pretesa possessoria sottostante al godimento derivatone. Pertanto nell’indagine diretta a stabilire, alla stregua di ogni circostanza del caso concreto, se una attività corrispondente all’esercizio della proprietà o altro diritto reale sia stata compiuta con l’altrui tolleranza e quindi sia inidonea all’acquisto del possesso, la lunga durata dell’attività medesima può integrare un elemento presuntivo, nel senso dell’esclusione di detta situazione di tolleranza, qualora si verta in tema di rapporti non di parentela, ma di mera amicizia o buon vicinato, tenuto conto che nei secondi, di per sé labili e mutevoli, è più difficile il mantenimento di quella tolleranza per un lungo arco di tempo. Corte di Cassazione, sentenza 22-5-90, n. 4631

[126] Corte di Cassazione, sentenza 21-10-91, n. 11118

[127] Corte di Cassazione, sentenza 4327 del 20-2-2008

[128] Tribunale Ivrea, civile, sentenza 17 febbraio 2012, n. 117

[129] Corte di Cassazione, sentenza 11 maggio 2012, n. 7412. In termini, vedi, Cassazione civile, Sez. II, sentenza 24 novembre 2003, n. 17876.

[130] Corte di Cassazione, sentenza 17 luglio 2012, n. 12273 v. Corte di Cassazione, sentenza 4327/2008, 8194/01, 1042/98, 8498/95, 1042/92, 4631/90, 1620/84 e Corte di Cassazione, sentenza 9661/2006 che, in motivazione, ha ribadito il principio dell’idoneità del rapporto di parentela per la presunzione della tolleranza; per i rapporti societari Corte di Cassazione, sentenza n. 2487/00



[131] Tribunale Genova,  sentenza 24 maggio 2012, n. 1983

[132] Tribunale Bologna, Sezione 1 civile, sentenza 18 giugno 2012, n. 1719

[133] Corte di Cassazione, sentenza 17-5-72, n. 1495.

[134] Corte di Cassazione, sentenza 11-1-89, n. 81

[135] Corte di Cassazione, sentenza 5-10-85, n. 4820

[136] Vedi par.fo 8 – lettera D) – Usucapione abbreviata – La buona fede, pag. 105

[137] Corte di Cassazione, sentenza 6-7-84, n. 3971

[138] Corte di Cassazione, sentenza 25-2-63, n. 462

[139] Corte di Cassazione, sentenza 13929 del 25-9-2002

[140] Corte di Cassazione, sentenza 21-4-88, n. 3097

[141] Corte di Cassazione, sentenza 2-4-84, n. 2159

[142] Corte di Cassazione, sentenza 7-3-68, n. 744

[143] Corte di Cassazione, sentenza 5 settembre 2012, n. 14917

[144] Per una maggiore disamina dell’azione di petizione ereditaria aprire il seguente collegamento  L’azione di petizione ereditaria – par.fo 6 – I rapporti fra erede ed il possessore dei beni ereditari 

[145] Corte di Cassazione, sentenza 19-11-92, n. 12362

[146] Corte di Cassazione, sentenza 4-3-68, n. 691

[147] Corte di Cassazione, sentenza 12-2-93, n. 1784

[148] Corte di Cassazione, sentenza 15-10-77, n. 4413

[149] Corte di Cassazione, sentenza 25-8-97, n. 7985

[150] Corte di Cassazione, sentenza 23 maggio 2012, n. 8156

[151] Corte di Cassazione, sentenza 9 febbraio 2012, n. 1904

[152]  Vedi par.fo 2, lettera A, punto 1) Potere sulla cosa, pag. 5

[153] Corte di Cassazione, sentenza 21-7-71, n. 2377

[154] Corte di Cassazione, sentenza 18651 del 16-9-2004

[155] Corte di Cassazione, sentenza 22 luglio 2010, n. 17245

[156] Corte di Cassazione, sentenza 26-6-92, n. 7923

[157] Corte di Cassazione, sentenza 27 gennaio 2012, n. 1216

[158] Tribunale Benevento, civile, sentenza 17 giugno 2009, n. 1389

[159] Corte di Cassazione, sentenza 13-5-89, n. 2199. Corte di Cassazione, sentenza 9 giugno 2009, n. 13259. Il coniuge che, in costanza di matrimonio, abbia provveduto a proprie spese ad eseguire migliorie od ampliamenti dell’immobile di proprietà esclusiva dell’altro coniuge ed in godimento del nucleo familiare, in quanto compossessore ha diritto ai rimborsi ed alle indennità contemplate dall’art. 1150 c.c. in favore del possessore, nella misura prevista dalla legge a seconda che fosse in buona o mala fede, mentre va esclusa l’invocabilità dell’art. 936 c.c., in tema di opere fatte da un terzo con materiali propri, difettando nel compossessore il requisito della terzietà.

[160] Corte d’Appello Roma,  sentenza 7 settembre 2010, n. 3476, principio espresso dalla Corte di Cassazione, sentenza 18-11-91, n. 12345 (conf. Corte di Cassazione, sentenza 11-4-87, n. 3617) Il coerede il quale abbia migliorato i beni comuni da lui posseduti, pur non potendo invocare l’applicazione dell’art. 1150 c.c., che riconosce il diritto ad una indennità pari all’aumento di valore della cosa determinato dai miglioramenti, tuttavia, mandatario o utile gestore degli altri compartecipi alla comunione ereditaria, può pretendere il rimborso delle spese eseguite per la cosa comune, le quali si ripartiscono al momento della attribuzione delle quote, secondo il principio nominalistico, dato che lo stato di indivisione riconduce all’intera massa i miglioramenti stessi.

[161] Vedi par.fo 4 –  Soggetti  – Compossesso, pag. 23

[162]Corte di Cassazione, sentenza 14 gennaio 2009, n. 743. La costruzione di un’opera da parte di un condomino su beni comuni non è disciplinata dalle norme sull’accessione, bensì da quelle sulla comunione, secondo le quali costituisce innovazione della cosa comune una modificazione della forma o della sostanza del bene che abbia l’effetto di alterarne la consistenza materiale o la destinazione originaria. Pertanto, la costruzione da parte di un comproprietario di una ulteriore rampa su una scala comune e di un torrino – collegato con il bene di proprietà esclusiva – su un solaio, anch’esso comune, da un lato costituisce modifica strutturale della scala e del solaio rispetto alla loro primitiva configurazione e assoggettamento a un uso estraneo a quello originario comune, che viene soppresso; dall’altro può determinare l’appropriazione da parte del condomino del vano occupato dalla nuova rampa e della superficie del torrino (Corte di Cassazione, sentenza n. 21901/2004). Si è precisato che nel regime di comunione legale la costruzione realizzata, in pendenza di matrimonio, su suolo di proprietà esclusiva di uno dei coniugi non costituisce oggetto della comunione ai sensi dell’art. 177, comma 1, lett. a) c.c. mentre gli apporti alla realizzazione della costruzione, che per legge si presumono resi dal coniuge non proprietario, trovano corrispettivo in un suo credito verso l’altro (Corte di Cassazione, sentenza n. 11663/1993). Ancora. Il coniuge che, in costanza di matrimonio, abbia eseguito a proprie spese migliorie e ampliamenti dell’immobile dell’altro, in godimento a entrambi, ha diritto ai rimborsi e alle indennità previste dall’art. 1150 c.c. per il possessore di buona fede e applicabile anche al compossessore, mentre non può invocare l’art. 936 c.c. -opere fatte da un terzo con materiali propri- difettando nel compossessore il requisito della terzietà (Corte di Cassazione, sentenza n. 2199/1989).



[163] Corte di Cassazione, sentenza 14 dicembre 2011, n. 26853

[164] Corte di Cassazione, sentenza 11300 del 16-5-2007

[165] Corte di Cassazione, sentenza 27-4-79, n. 2447

[166] Corte di Cassazione, sentenza 30 luglio 2004, n. 14626

[167] Corte di Cassazione, sentenza 23-7-79, n. 4410

[168] Corte di Cassazione, sentenza 28-1-97, n. 845

[169] Corte di Cassazione, sentenza 9-8-83, n. 5337

[170] Corte di Cassazione, sentenza 18-11-87, n. 8491

[171]Per una maggiore disamina della prelazione volontaria e legale aprire il seguente collegamento   La prelazione volontaria e legale

[172] Corte di Cassazione, sentenza 29-9-95, n. 10272

[173] Corte di Cassazione, sentenza 20-12-65, n. 2465

[174] Corte di Cassazione,  sentenza 19 aprile 2010, n. 9267. In tal senso anche Corte di Cassazione,  sentenza 26 giugno 2001, n. 8741. Il diritto di ritenzione, che è riconosciuto nell’art. 1152 e si configura come situazione non autonoma ma strumentale alla autotutela di altra situazione attiva generalmente costituita da un diritto di credito, è contemplato in favore dell’affittuario nell’art. 20 della legge 3 maggio 1982 n. 203 così come nell’art. 15 della precedente legge n. 11 del 1971 in stretta correlazione al diritto di credito per le indennità spettanti al coltivatore diretto per i miglioramenti, le addizioni e le trasformazioni da lui apportati al fondo condotto, sicché presupponendo l’esistenza di un credito derivante dalle opere indicate e realizzate dal coltivatore diretto, non è scindibile dall’esistenza di detto credito o dall’accertamento di questo. Pertanto eccepito dall’affittuario che si opponga all’esecuzione del rilascio di un fondo rustico il diritto di ritenzione a garanzia del proprio credito per i miglioramenti apportati al fondo, il giudice non può limitarsi ad accertare l’esistenza delle opere realizzate dall’affittuario, ma deve verificarne anche l’indennizzabilità, rigettando l’eccezione ove tale verifica dia esito negativo.

[175] Vedi par.fo 2, lettera A, punto 1) Potere sulla cosa – La detenzione, pag. 5

[176] Corte di Cassazione, sentenza 26-4-83, n. 2867

[177] Corte di Cassazione, sentenza 2-6-99, n. 5346

[178] Tribunale Milano, Sezione 7 civile, sentenza 13 luglio 2010, n. 9277

[179] Corte di Cassazione, sentenza 31-1-89, n. 601

[180] Corte di Cassazione, sentenza 9-11-78, n. 5121

[181] Corte di Cassazione, sentenza 13 luglio 1993, n. 7692

[182] Corte di Cassazione, sentenza 21-9-79, n. 4870

[183] Corte di Cassazione, sentenza 26-4-82, n. 2563

[184] Corte di Cassazione, sentenza 14-9-99, n. 9782

[185] Corte di Cassazione, sentenza 12-6-76, n. 2178

[186] Corte di Cassazione, sentenza 10-11-71, n. 3195

[187] Tribunale Roma, Sezione 6 civile, sentenza 14 settembre 2009, n. 18469

[188] Corte di Cassazione, sentenza 4-3-81, n. 1250

[189] Corte di Cassazione, sentenza III, sent. 11719 del 5-8-2002

[190] Vedi par.fo 5 – Oggetto –  lettera F) Beni immateriali, pag. 34

[191] Corte di Cassazione, Sezione 1 civile, sentenza 29 dicembre 2011, n. 30082

[192] Tribunale Roma, civile, sentenza 11 febbraio 2011, n. 2996

[193] Vedi par.fo 5 – Oggetto –  lettera C  – Beni indisponibili, pag. 33

[194] Corte di Cassazione, sentenza 7-4-92, n. 4260

[195] Corte di Cassazione, sentenza 12-3-51, n. 604

[196] Corte d’Appello Milano, civile, sentenza 28 febbraio 2012

[197] Corte di Cassazione, sentenza 26 settembre 2007, n. 20191

[198] Corte di Cassazione, sentenza 13 ottobre 2000, n. 13642

[199] Corte di Cassazione, sentenza III, sent. 11719 del 5-8-2002

[200] Gazzoni

[201] Corte di Cassazione,  sentenza 11 novembre 2002, n. 15810.  Vedi anche Corte di Cassazione, sentenza 6 ottobre 1997, n. 9714. Se un bene mobile, pur dovendosi iscrivere in pubblici registri, non è stato invece iscritto, ai sensi dell’art. 815 c.c. si applica l’art. 1153 c.c. e non già l’art. 1156 c.c.; pertanto, se colui al quale viene alienato tale bene – da chi appare legittimato – è in buona fede -da presumersi (art. 1147 c.c.), e non esclusa dalla mancanza dei documenti necessari per utilizzarlo (nella specie carta di circolazione di nuova vettura, non immatricolata) – ne acquista la proprietà mediante il possesso.

[202] Corte di Cassazione, sentenza 17 aprile 2001, n. 5600

[203] Tribunale Monza, civile, ordinanza 30 gennaio 2006

Avv. RENATO D’ISA

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