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I rapporti di vicinato tra i condomini

Il presente articolo ha lo scopo (e si spera l’utilità) di fornire un breve excursus sulle pronunce giurisprudenziali e sugli spunti dottrinari in tema di distanze, luci e vedute nei rapporti tra i condomini.

Tali istituti rientrano nei c.d. rapporti di vicinato in senso ampio, regolati dagli artt. 873 e segg. cod. civ., riguardanti il godimento di fondi e/o immobili in relazione al corrispondente godimento da parte dei proprietari dei fondi e/o immobili confinanti.

Le regole di buon vicinato comprendono, oltre a quelle che si andranno ad analizzare sulle distanze tra costruzioni e sulle luci e vedute, le norme sulle acque, sullo stillicidio, e sulle immissioni.

Il proprietario di un fondo, nell’esercitare il suo diritto di proprietà può realizzare su di esso immobili o altre costruzioni, ovviamente previo ottenimento di tutti i necessari permessi da parte della P.A. cui spetta la regolamentazione del territorio attraverso la predisposizione all’uopo di c.d. strumenti urbanistici (piani regolatori, paesaggistici etcc); ma altro limite all’esercizio del diritto di costruire è dato, appunto, dal corrispondente diritto del proprietario del fondo confinante.

È bene già segnalare che, la nozione di fondi finitimi è diversa da quella di fondi meramente “vicini“, dovendo per fondi finitimi intendersi quelli che hanno in comune, in tutto o in parte, la linea di confine, ossia quelli le cui linee di confine, a prescindere dall’essere o meno parallele, se fatte avanzare idealmente l’una verso l’altra, vengono ad incontrarsi almeno per un segmento; ne consegue che non possono essere invocate le norme sul rispetto delle distanze ove i fondi abbiano in comune soltanto uno spigolo o i cui spigoli si fronteggino pur rimanendo distanti[1].

Orbene, al fine di dirimere potenziali contrasti tra i confinanti, il codice civile, come visto, è intervenuto con una puntuale regolamentazione, che può essere derogata dai regolamenti locali, e più in generale dai piani regolatori (approvati), cui fa riferimento il codice all’art. 873, che, appunto,integrano e/o modificano le disposizioni del codice, mentre le altre norme (ad ambito Nazionale) che impongono regole nell’interesse generale rientrano nei limiti di pubblico interesse (primario) imposti al diritto di proprietà.

I regolamenti edilizi possono stabilire una distanza tra edifici maggiore di quella di 3 mt, ma non minore (derogare in meius e non in peius).

La pacifica nonché quasi unanime giurisprudenza, sviluppatasi negli ultimi cinquant’anni, è concorde nel ritenere che la ratio della disposizione in oggetto sia quella di impedire che tra costruzioni vicine si creino intercapedini che, per la loro esiguità, abbiano a risultare pericolose[2].

In altre parole esse sono dettate a tutela di reciproci diritti soggettivi dei singoli proprietari e per di più hanno il fine di evitare la creazione (non solo fastidiosa ed antiestetica) di intercapedini antigieniche e pericolose.

Secondo altra definizione, ma senza portare alcuna differenza nella sostanza, le norme sulle distanze minime tra le costruzioni hanno fondamento nell’esigenza di evitare quei pregiudizi che distanze troppo brevi arrechino alla vivibilità degli edifici.

Conformemente alla sua ratio, l’art. 873 cod. civ. trova applicazione solo nel caso in cui due fabbricati, sorgenti da strisce opposte rispetto alla linea di demarcazione  di confine, si fronteggino prospetticamente.

Ma ciò non toglie che, i regolamenti locali, nello stabilire distanze maggiori, possono anche determinare punti di riferimento, per la misurazione delle distanze, diversi da quelli indicati dal codice civile, escludendo taluni elementi della costruzione dal calcolo delle più ampie distanze previste in sede regolamentare[3].

Le norme che prevedono questi limiti hanno carattere  preventivo, (diverso dal concetto di prevenzione), in quanto si applicano indipendentemente dall’esistenza di un danno.

 

Le distanze legali ed il condominio

Entrando nello specifico della materia oggetto di tale lavoro, a parere di chi scrive, ottima disamina della fattispecie viene offerta dalla Corte territoriale Partenopea   con la sentenza  8 settembre 2010, n. 2972 a mente della quale le norme dettate in materia di distanze legali, seppur fondamentalmente dirette alla regolamentazione di proprietà autonome e contigue, devono intendersi applicabili anche in relazione ad un edificio condominiale, pur dovendosi all’uopo necessariamente distinguere tra:

1)   opere eseguite sulle parti comuni, e sempre che si tratti di uso normale di queste ultime;

2)   rapporti tra unità individuali inserite nello stabile condominiale.

Nel primo caso vige, invero, il principio della non operatività della normativa sulle distanze legali, la quale potrà trovare applicazione solo se ed in quanto sia possibile attuare il disposto ex art. 1102 c.c., diversamente da quanto accade in relazione ai rapporti tra le singole proprietà esclusive dei vari condomini, laddove la disciplina richiamata, seppur in modo non assoluto, deve intendersi applicabile.

In ipotesi siffatte, invero, detta disciplina trova un limite di operatività allorquando la struttura dell’edificio e le caratteristiche concrete dello stato dei luoghi impediscano il suo rispetto e le opere, che con essa contrastino, rispondano ad una esigenza essenziale di utilizzazione dell’immobile da parte del condomino.

Ciò posto, continua la Corte Territoriale, pare necessario rilevare, altresì, che il delineato sistema riflettente la osservanza delle distanze legali in ambito condominiale è destinato a valere sia nelle ipotesi in cui sia invocata la tutela petitoria sia in quelle in cui, come nella specie, sia invocata tutela possessoria, mediante l’esperimento di un’azione di manutenzione (giustificata dal pregiudizio derivante dall’intervenuto ampliamento, sia in altezza che in larghezza, di 20 cm di un manufatto che, in luogo panoramico, limitava di fatto la veduta esercitata da una finestra).3

Il principio giurisprudenziale teste esposto è confermato dalla S.C.

Altra sentenza[4] , meno recente, ma in maniera più esplicita, ha affermato che le norme sulle distanze delle costruzioni si osservano anche nei rapporti tra condomini di un edificio in quanto l’articolo 1102 del c.c. non deroga al disposto dell’articolo 907 del c.c.; il proprietario del singolo piano di un edificio condominiale ha diritto di esercitare dalle proprie aperture la veduta a piombo fino alla base dell’edificio e di opporsi, conseguentemente, a ogni costruzione degli altri condomini che direttamente o indirettamente pregiudichi l’esercizio di tale suo diritto, senza che possa rilevare la lieve entità del pregiudizio arrecato.

Fatta questa necessaria premessa, di certo la tematica delle distanze tra le costruzione in ambito condominiale ha un’incidenza del tutto minore rispetto a quella delle luci e vedute che da qui a poco sarà affrontata.

Risulta difficile immaginare, per la rarità dei casi, che nell’ambito di un condominio, in tale momento storico, dei vicini si possano fronteggiare a suon di piccole o grandi costruzioni.

Ma comunque è importante sottolineare che in tale contesto il regolamento Condominiale può avere una forza derogativa rispetto ai limiti imposti dal codice civile sia per quanto riguarda, appunto per le distanze, che per le aperture che possano dar vita a luci o vedute.

Le luci e le vedute

In linea di principio l’interesse di ciascun proprietario a ricevere aria e luce dalle finestre del proprio edificio è in conflitto con l’interesse del vicino a non trovarsi esposto a sguardi indiscreti o a minacce della sicurezza propria e dei propri beni (la c.d. e inflazionata privacy).

Il codice civile regola in maniera dettagliata la possibilità di ottenere luce e aria dal fondo del vicino aprendo delle finestre o balconi sul muro che, oltre a far entrare luce e aria nella costruzione, permettono anche di guardare il fondo del vicino, fatto che non sempre potrebbe essere gradito per le resistenze del vicino.

Pertanto, pur non volendo ripetersi, la funzione principale di queste norme sta nella necessità di contemperare due esigenze contrapposte entrambe meritevoli di tutela.

A)   Da un lato il diritto del proprietario del fondo a goderne nel modo migliore possibile. Nel caso delle luci e delle vedute ciò consiste nella possibilità di illuminare ed arieggiare meglio gli ambienti per una migliore fruibilità e salubrità.

B)    Dall’altro lato, in contrasto, vi è il diritto del vicino a non vedere lese la propria riservatezza e sicurezza che potrebbero essere effettivamente compromesse dall’apertura di finestre.

Le aperture praticabili nel muro rivolto verso il fondo altrui sono giuridicamente (Codice Civile) qualificate finestre e possono essere esclusivamente di due tipi: le luci e le vedute (art. 900 cod. civ.).

Per luci si intende il diritto, iure proprietatis e jure servitutis di effettuare sul proprio fabbricato aperture verso il fondo del vicino allo scopo di attingere luce ed aria (funzione positiva), senza affacciarsi (funzione negativa) su quello, stabilendo i requisiti di altezza e di sicurezza (collocazione di inferriate e grate fisse) alla cui sussistenza è condizionata la limitazione del diritto del vicino.

In particolare secondo la previsione del codice civile rientrano nel concetto di luce: le aperture munite di inferriate con maglie di cmq. 3 massimo, con il davanzale a non meno di m.2,5 dal pavimento del piano terreno o a non meno di m. 2 dei piani superiori e a non meno di m.2,5 dal fondo del vicino sono chiamate luci[5].

Esse consentono solamente il passaggio della luce e dell’aria, ma non un comodo e facile affaccio.  Inoltre tali requisiti non sono assoluti, poiché ai sensi dell’art. 902 c.c. anche se manca uno di quest’ultimi, ma comunque sia inibita la veduta del fondo del vicino, siamo in presenza di luci, anche se il vicino avrà comunque il diritto di chiederne la conformità.

Esse possono essere aperte nel muro proprio o nel muro comune, ma in questo caso occorre il consenso del confinante, a meno che non si tratti di una sopraelevazione a cui egli non ha voluto contribuire.

In altre parole, le luci possono infatti avere le più svariate dimensioni, da semplici fori o feritoie a grandi aperture. La luce non presenta all’esterno alcun aggetto o sporgenza, ma deve essere a filo della parete.  Infine possono essere chiuse quando si costruisce in aderenza.

Per le vedute è pregnante il concetto di esclusione ovvero: quando non ci sono le caratteristiche per le luci regolari ed irregolari si tratta di vedute.

Esse devono essere tenute a distanza di un metro e mezzo dal vicino, anche quando le costruzioni sono a diversa altezza. La stessa distanza vale per i balconi, le terrazze ed altri sporti che consentono l’affaccio.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione[6] sono intervenute, al fine di meglio specificare quando possa parlarsi correttamente di veduta, affermando che affinché sussista una veduta a norma dell’art. 900 c.c., è necessario, oltre al requisito della inspectio anche quello della prospectio nel fondo del vicino, dovendo detta apertura non solo consentire di vedere e guardare frontalmente, ma anche di affacciarsi, vale a dire di guardare non solo di fronte, ma anche obliquamente e lateralmente, così assoggettando il fondo alieno ad una visione mobile e globale.

In altre parole[7] può configurarsi una veduta, quando l’apertura, il terrazzo o il balcone da cui essa sia praticata risultino “muniti di parapetto” atto a consentire, almeno, di guardare e di mostrarsi senza esporsi al pericolo di cadute. Ne consegue che va esclusa l’esistenza di una veduta allorquando il parapetto di un terrazzo non consente, in concreto, neanche una inspectio comoda e non pericolosa – in quanto manifestamente inidoneo a preservare l’eventuale osservatore dal pericolo di cadute – ed ha solo la funzione di delimitazione della platea.

Le vedute oblique o laterali verso il fondo del vicino devono essere a distanza di almeno 75 centimetri.

Qui il legislatore ha previsto una distanza minore, in ragione della limitata possibilità di inspicere da parte di chi esercita la veduta.

In conclusione, a differenza delle luci, le vedute o prospetti hanno invece la caratteristica di consentire di guardare fuori (finestre vere e proprie, dette finestre prospettiche, loggiati) oppure di sporgersi oltre la parete su cui insistono (balconi).

Le luci e le vedute ed il condominio

Va ora verificato se le norme regolanti l’apertura di luci e vedute siano applicabili nell’ambito della proprietà condominiale. Con una recente sentenza la Corte di Cassazione[8] ha affermato che l’apertura di finestre ovvero la trasformazione di luce in veduta su un cortile comune rientra nei poteri spettanti ai singoli condomini ai sensi dell’art. 1102 cod. civ., posto che i cortili comuni, assolvendo alla precipua finalità di dare aria e luce agli immobili circostanti, sono utilmente fruibili a tale scopo dai condomini stessi, senza incontrare le limitazioni prescritte, in materia di luci e vedute, a tutela dei proprietari degli immobili di proprietà esclusiva.

Deroga espressa già da altre sentenze[9] secondo cui quando un cortile è comune a due corpi di fabbrica e manca una disciplina contrattuale vincolante per i comproprietari al riguardo, il relativo uso è assoggettato alle norme sulla comunione in generale, e in particolare alla disciplina di cui all’art. 1102, primo comma, cod. civ, in base al quale ciascun partecipante alla comunione può servirsi della cosa comune, sempre che non ne alteri la destinazione e non ne impedisca il pari uso agli altri comunisti. L’apertura di finestre su area di proprietà comune ed indivisa tra le parti costituisce, pertanto, opera inidonea all’esercizio di un diritto di servitù di veduta, sia per il principio nemini res sua servit, sia per la considerazione che i cortili comuni, assolvendo alla precipua finalità di dare aria e luce agli immobili circostanti, ben sono fruibili a tale scopo dai condomini, cui spetta anche la facoltà di praticare aperture che consentano di ricevere aria e luce dal cortile comune o di affacciarsi sullo stesso, senza incontrare le limitazioni prescritte, in tema di luci e vedute, a tutela dei proprietari dei fondi confinanti di proprietà esclusiva.

Per una maggiore disamina è utile, comunque, segnalare che a tali pronunce si e arrivati superando una contraria precedente Giurisprudenza[10] secondo la quale, invece, il partecipante alla comunione non poteva, senza il consenso degli altri, servirsi della cosa comune ai fini dell’utilizzazione di altro immobile di sua esclusiva proprietà distinto dai fondi al servizio dei quali questa sia stato originariamente destinata, perché il relativo uso si sarebbe in tal guisa rivolto nell’imposizione di fatto di una vera e propria servitù a carico della cosa comune e a favore dell’anzidetto immobile. Ne derivava che l’obbligo stabilito dall’art. 905 c.c. di rispettare le distanze per l’apertura di vedute dirette sussisteva anche nel caso in cui lo spazio tra edifici vicini era costituito da un cortile comune la cui la presenza imponeva a carico dei proprietari dei fabbricati frontistanti dei limiti ancora più severi di quelli fissati dalle norme sulle distanze, in quanto l’esecuzione di nuove costruzioni (porte a piano terreno, finestre e balconi) non poteva alterare la destinazione del cortile consistente nel dare luce ed aria agli edifici su di esso prospettanti.

Tale deroga trova una limitazione anche in un’altra pronuncia della Cassazione[11] la quale stabilisce che, salva l’opposizione, per motivi di sicurezza o di estetica, degli altri partecipanti alla comunione, al condominio è consentito aprire nel muro comune, sia esso maestro oppure no, luci sulla strada o sul cortile; tuttavia, qualora il muro comune assolva anche la funzione di isolare e dividere la proprietà individuale di un condominio dalla proprietà individuale di altro condominio, ricorrono anche gli estremi per l’applicabilità dell’art. 903, 2° comma, c. c., con la conseguenza che, in tal caso, l’apertura della luce resta subordinata sia alle condizioni ed alle limitazioni previste dalle norme in materia di condominio (con riguardo agli interessi riconosciuti a tutti i partecipanti alla comunione e alle regole stabilite circa l’uso delle cose comuni da parte dei singoli condomini) sia, alla stregua del 2° comma del cit. art. 903 c.c., al consenso del condominio vicino, in considerazione dell’interesse del medesimo alla riservatezza della sua proprietà individuale.

Infine, è bene segnalare anche quest’ultima sentenza secondo cui il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune può aprire su esso abbaini e finestre – non incompatibili con la sua destinazione naturale – per dare aria e luce alla sua proprietà, purché le opere siano a regola d’arte e non ne pregiudichino la funzione di copertura, né ledano i diritti degli altri condomini sul medesimo[12].


[1] Cass. civ., Sez. II, 06/02/2009, n. 3036

[2] sia sotto il profilo dell’insalubrità nonché dell’ordine pubblico

[3] Corte di Cassazione, Sezione II, sentenza 10 settembre2009, n. 19554

[4] Corte di Cassazione Sezione II, sentenza 23 maggio  2002, n. 7530

[5] Non può essere considerata luce una apertura larga 30 cm, situata ad un’altezza di 117 cm dal pavimento del luogo in cui si trova e a 178 cm dal suolo del fondo vicino, ma deve la stessa essere qualificata veduta, avendo le caratteristiche per la inspectio e la prospectio, ossia i requisiti tipici richiesti – appunto – per la veduta.  Trib. Trani, 01/10/2004

[6] Cass. Civile, SS.UU., 28/11/1996 n. 10615, da ultimo Trib. Roma, Sez. V, 29/04/2010

[7] Cass. civ., Sez. II, 11/11/1994, n. 9446

[8] Cass. civ., n. 13874 del 9/6/2010. (1) In argomento, vedi, Cassazione civile, Sez. II, sentenza 30 marzo 2010, n. 7760, Cassazione civile, Sez. II, sentenza 26 settembre 2008, n. 24243, Cassazione civile, Sez. II, sentenza 13 gennaio 1995, n. 360, Cassazione civile, Sez. II, sentenza 7 marzo 1992, n. 2773, Cassazione civile, Sez. II, sentenza 5 settembre 1992, n. 7652.

[9] Cass. civ., Sez. II, 26/02/2007, n. 4386, Cass. civ., Sez. II, 19/10/2005, n. 20200, Cass. civ. Sez. II Sent., 27/02/2007, n. 4617 e Cass. civ. Sez. II, 16/03/2006, n. 5848

[10] Cass. civ., Sez. II, 20/06/2000, n. 8397

[11] Cass. civ., 12/06/1981, n. 3819

[12] Cass. civ., Sez. II, 12/02/1998, n. 1498

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