Cassazione 10

Suprema Corte di Cassazione

sezione VI

sentenza 13 aprile 2016, n. 15440

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ROTUNDO Vincenzo – Presidente
Dott. GIANESINI Maurizio – Consigliere
Dott. CITTERIO Carlo – Consigliere
Dott. COSTANZO Angelo – rel. Consigliere
Dott. RICCIARELLI Massimo – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
contro la sentenza n. 37/2014 emessa il 31/01/2014 dalla Corte di appello di Trento;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Angelo Costanzo;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto procuratore generale Dott. FODARONI Maria Giuseppina, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di appello di Trento, con sentenza n. 37/2014 emessa il 31/01/2014 ha confermato la condanna inflitta a (OMISSIS) per minaccia grave (articolo 612 c.p., comma 2) e oltraggio (articolo 341 bis c.p.) nei confronti di (OMISSIS), appuntato della Guardia di Finanza che, qualificatosi come tale, lo aveva invitato a smettere di molestare le persone che sostavano fuori dal bar dal quale l’imputato era gia’ stato fatto uscire per le invettive che egli, ubriaco, aveva rivolto contro il titolare che si era rifiutato di fornirgli altri alcolici.
2. Nel ricorso presentato nell’interesse di (OMISSIS) si chiede l’annullamento della sentenza deducendo: a) incostituzionalita’ dell’articolo 341 bis c.p., o, comunque, di quella sua parte che prevede la pena della reclusione per l’oltraggio a pubblico ufficiale, mentre per l’analogo reato di ingiuria nei confronti di un comune cittadino e’ prevista solo la multa; b) violazione dell’articolo 191 c.p.p., e articolo 493 c.p.p., comma 3, per essere stata acquisita agli atti e utilizzata la relazione di servizio dell’appuntato (OMISSIS) in assenza del consenso della difesa; c) violazione dell’articolo 521 c.p.p., per mancanza di correlazione fa l’accusa e la sentenza; in alternativa proponendo – se si interpretasse la disposizione nel senso di ammettere che il contraddittorio possa essere anche successivo alla modifica della qualificazione giuridica del fatto – questione sulla sua costituzionalita’ per violazione dell’articolo 3 Cost., nella parte in cui non prevede la remissione in termini; d) vizio di motivazione circa la contestualita’ delle espressioni ingiuriose usate dall’imputato e il compimento di atto di ufficio da parte della persona offesa; e) vizio di motivazione circa la presenza di piu’ persone nel momento in cui l’imputato pronunciava le offese e l’averle i presenti effettivamente udite; f) erronea applicazione dell’articolo 341 bis c.p., non essendo state le espressioni offensive rivolte a (OMISSIS) in quanto pubblico ufficiale ma in quanto persona, dal momento che non contengono riferimenti alla sua qualifica; g) erronea applicazione dell’articolo 612 c.p., non risultando le minacce espresse (“ammazzo te e la tua famiglia, faccio pure 30 anni di galera, ma lo faccio”) in concreto idonee a intimidire un appuntato della Guardia di Finanza abituato, per il suo lavoro, a situazioni analoghe; h) omessa motivazione sulla applicazione di pena distante dal minimo edittale.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il contenuto del primo motivo di ricorso e’ gia’ stato valutato dalla Corte di appello che ha richiamato la sentenza n. 341 del 1994 con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalita’ della previgente configurazione del reato di oltraggio per la irragionevolezza della previsione di un minimo edittale della pena fissato in sei mesi di reclusione (mentre l’articolo 341 bis c.p., non prevede un minimo edittale). Nella stessa sentenza, la Corte costituzionale evidenzia di avere gia’ respinto “questioni di legittimita’ costituzionale formulate con esclusivo riferimento all’articolo 3 Cost., per via dell’asserita arbitraria diversificazione, dal punto di vista del trattamento sanzionatorio, tra il reato di oltraggio e quello di ingiuria”, trattandosi di aspetti rimessi alla discrezionalita’ del legislatore (sentenze nn. 109 del 1968, 165 del 1972, 51 del 1980; ordinanze nn. 323 del 1988 e 127 del 1989) e precisa che “la plurioffensivita’ del reato di oltraggio rende certamente ragionevole un trattamento sanzionatorio piu’ grave di quello riservato all’ingiuria, in relazione alla protezione di un interesse che supera quello della persona fisica e investe il prestigio e quindi il buon andamento della pubblica amministrazione”. Coerentemente con la natura indisponibile del bene tutelato (il buon andamento della pubblica amministrazione) dalla norma, l’oltraggio a pubblico ufficiale e’ perseguibile d’ufficio mentre l’ingiuria lo e’ a querela di parte e, nella stessa prospettiva, risulta manifestamente infondata la tesi secondo cui la diversita’ tipologica fra la pena (carceraria) prevista per il reato di oltraggio a pubblico ufficiale e quella (pecuniaria) per il comune reato di ingiuria violerebbe l’articolo 3 Cost..
2. Quanto alla violazione dell’articolo 191 c.p.p., e articolo 493 c.p.p., comma 3, dedotta per essere stata acquisita agli atti e utilizzata la relazione di servizio dell’appuntato (OMISSIS) (pur non rientrante nella espressione “annotazione di P.G. degli altri appartenenti alla P.G. testimoni dei fatti” indicante, nel verbale di udienza, gli atti da acquisire) in assenza del consenso della difesa, vale rilevare che non irragionevolmente la sentenza impugnata, pur dando atto della approssimativa verbalizzazione, osserva che l’espressione “su accordo delle parti, si danno consenso al deposito denuncia querela e annotazione di p.g. degli altri appartenenti alla p.g. testimoni e fatti” va intesa come comprendente anche la predetta relazione di (OMISSIS) per la considerazione che, diversamente, il Pubblico ministero non avrebbe avuto ragione di rinunciare alla sua audizione e che la difesa dopo l’acquisizione non ne chiese l’immediata espunzione dagli atti. Inoltre, il ricorrente non contesta la coincidenza fra i contenuti essenziali della relazione e quelli della denuncia-querela (pacificamente acquisita) in considerazione della quale la Corte ha considerato irrilevante la questione. Su queste basi, il motivo di ricorso non puo’ essere accolto.
3. Il terzo motivo di ricorso e’ infondato. Per aversi mutamento del fatto, occorre una trasformazione degli elementi essenziali della fattispecie concreta che renda incerto l’oggetto dell’imputazione con reale pregiudizio dei diritti della difesa (Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, Rv. 248051): la violazione del principio di corrispondenza tra l’imputazione e la sentenza ricorre solo se la modifica del fatto e della sua qualificazione giuridica pregiudica le possibilita’ di difesa dell’imputato impedendogli di utilmente sostenere la propria estraneita’ ai fatti criminosi globalmente considerati (Sez. 2, n. 34969 del 10/05/2013, Rv. 257782; Sez. 6, n. 34879 del 10/01/2007, Rv. 237415). Nel caso in esame non occorreva contestazione, essendo stata attribuita al fatto – peraltro gia’ dal primo grado di giudizio – una qualificazione giuridica meno grave (articolo 612 c.p., comma 2) di quella enunciata nell’imputazione (articolo 337 c.p.), mentre il principio affermato dalla Corte EDU, con sentenza 11-12-2007, Drassich – che ha ravvisato violazione dell’articolo 6 CEDU nella riqualificazione giuridica del fatto effettuata ex officio in sede di legittimita’, senza che sia stata data all’imputato, la possibilita’ di essere informato della riqualificazione e di difendersi adeguatamente – riguarda il caso in cui il titolo di reato ravvisato sia piu’ grave, con conseguenze sfavorevoli all’imputato a causa del mutato nomen iuris, sicche’ il diritto al contraddittorio va assicurato informando l’imputato e il suo difensore dell’eventualita’ di una qualificazione giuridica del fatto diversa da quella contestata (Sez. 6, n. 24631 del 15/05/2012, Rv. 253109; Sez. 6, 12-11-2008, n. 45807).
4. Relativamente al quarto motivo di ricorso, concernente la contestualita’ delle espressioni ingiuriose usate dall’imputato e il compimento di atto di ufficio da parte della persona offesa, deve registrarsi che nella ricostruzione degli eventi effettuata dalla sentenza impugnata, le condotte di (OMISSIS) maturarono dopo che l’assistente (OMISSIS) si fu qualificato come appartenente alla Guardia di Finanza e dopo che, in questa veste, si accinse a identificarlo. Lo mostra lo stesso brano di querela riportato dal ricorrente a supporto della sua ricostruzione, dove si legge “prontamente mi identificavo come finanziere e mostravo il mio distintivo, lo straniero non desisteva…”.
5. La Corte ha plausibilmente desunto la presenza di piu’ persone dal riferimento (nella querela) agli avventori (piu’ d’uno, quindi almeno due) “che stavano seduti sugli sgabelli”, ne’ puo’ trascurarsi che nel locale, all’esterno del quale si consumo’ l’episodio, stava il gestore ancora attento allo sviluppo degli eventi dopo che, poco prima, contro lui l’imputato aveva inveito. La contiguita’ spaziale dei presenti rende ragionevole presumere che i presenti abbiano effettivamente udito le frasi pronunciate dall’imputato.
Vale, comunque, osservare quanto segue. La sentenza n. 341 del 1994 della Corte costituzionale (richiamando le precedenti sentenze nn. 109 del 1968, 165 del 1972, 51 del 1980 e le ordinanze nn. 323 del 1988 e 127 del 1989) ha precisato che “la plurioffensivita’ del reato di oltraggio rende certamente ragionevole un trattamento sanzionatorio piu’ grave di quello riservato all’ingiuria, in relazione alla protezione di un interesse che supera quello della persona fisica e investe il prestigio e quindi il buon andamento della pubblica amministrazione”.
Se il bene giuridico fondamentale tutelato dall’articolo 341 bis c.p., e’ il buon andamento della pubblica amministrazione, allora e’ sufficiente a integrare il reato la semplice possibilita’ che le espressioni lesive possano essere udite dai presenti, perche’ gia’ potenzialita’ puo’ compromettere la prestazione del pubblico ufficiale, disturbato – mentre compie un atto del suo ufficio – dall’avvertire condizioni potenzialmente lesive per lui e per la pubblica amministrazione della quale fa parte. In quest’ottica, la giurisprudenza formatasi sul punto – relativamente a quella che allora era una circostanza aggravante e ora e’ elemento costitutivo del reato – e secondo la quale non e’ necessario che gli astanti sentano effettivamente le parole oltraggiose, bastando che abbiano la possibilita’ di udirle (Sez. 6, n. 15559 del 07/07/1989, Rv. 182513) o, comunque, di rendersi conto del comportamento oltraggioso (Sez. 6, n. 1223 del 19/11/1980, dep. 1981, Rv. 147653) – puo’ recepirsi nella considerazione che la presenza di astanti e’ condizione atta a rendere piu’ impegnativa la prestazione del pubblico ufficiale.
Su queste basi puo’ esplicitarsi il seguente principio di diritto: poiche’ il bene giuridico fondamentale tutelato dall’articolo 341 bis c.p., e’ il buon andamento della pubblica amministrazione, allora e’ sufficiente che le espressioni offensive rivolte al pubblico ufficiale possano essere udite dai presenti, perche’ gia’ questa potenzialita’ costituisce un aggravio psicologico che puo’ compromettere la sua prestazione, disturbandolo – mentre compie un atto del suo ufficio – perche’ gli fa avvertire condizioni avverse, per lui e per la pubblica amministrazione della quale fa parte, e ulteriori rispetto a quelle ordinarie.
6. Anche il sesto motivo di ricorso e’ manifestamente infondato. L’assunto che esclude l’oltraggio sul presupposto che le espressioni offensive sarebbero state rivolte a (OMISSIS) non in quanto pubblico ufficiale ma in quanto persona, non contenendo riferimenti alla sua qualifica, poggia su una artificiosa distinzione concettuale e trascura che le espressioni aggressive conseguirono all’intervento del finanziere nella sua veste di pubblico ufficiale gia’ palesata all’imputato.
7. La valutazione di una minaccia come “grave” ex articolo 612 c.p., comma 2, e’ apprezzamento di fatto non censurabile nel giudizio di legittimita’, se congruamente motivata in relazione alla entita’ del turbamento psichico che l’atto intimidatorio puo’ determinare sul soggetto passivo (Cass. pen. Sez. 2, n. 277 del 21/02/1966, Rv. 101788). A tal fine, non e’ necessario che la minaccia di morte sia circostanziata perche’ rilevano l’insieme delle condizioni concrete nelle quali e’ espressa, particolarmente quelle dell’autore del delitto e della persona offesa (Sez. 6, n. 35593 del 16/06/2015, Rv. 26434; Sez. 1, n. 9314 del 05/04/1990, Rv. 184724; Sez. 5, n. 43380 del 26/09/2008, Rv. 242188). Nella fattispecie, la Corte ha congruamente osservato (pag. 7-8) che la minaccia di morte per (OMISSIS) e i suoi familiari, proveniva da soggetto che aveva reiterato i suoi comportamenti aggressivi nonostante l’intervento del pubblico ufficiale e che potenzio’ la sua minaccia evidenziando che l’entita’ della pena che poteva derivargliene non lo dissuadeva. L’apprezzamento della gravita’ della minaccia non necessariamente deve collegarsi allo specifico evento prefigurato (nella fattispecie la morte) ma e’ sufficiente che allarmi il soggetto passivo anche in vista di danni minori eppure gravi. E’ palese, inoltre, che il fatto che il oggetto passivo sia in qualche misura esposto per la sua professione a condotte minatorie non lo rende impermeabile agli effetti psicologici delle stesse.
8. Infondato e’ la dedotta omessa motivazione della applicazione della pena di tre mesi di reclusione perche’ risulta prossima al minimo edittale considerato che per il reato posto in continuazione (articolo 612 c.p., comma 2) la pena minima e’ di 6 mesi di reclusione.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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