È inammissibile l’impugnazione avverso la sentenza di assoluzione per difetto di imputabilità

Corte di Cassazione, sezione sesta penale, Sentenza 13 maggio 2020, n. 14795.

Massima estrapolata:

È inammissibile l’impugnazione avverso la sentenza di assoluzione per difetto di imputabilità al fine di ottenere la revoca della misura di sicurezza, senza nulla dedurre in ordine alla sussistenza del reato, in quanto l’accertata imputabilità comporterebbe l’affermazione della penale responsabilità dell’imputato, con conseguente riforma della sentenza di proscioglimento in una sentenza di condanna, in violazione del divieto di “reformatio in pejus”.

Sentenza 13 maggio 2020, n. 14795

Data udienza 8 aprile 2020

Tag – parola chiave: Calunnia – Imputabilità e dolo – Accertamento – Pericolosità sociale del soggetto – Misure di sicurezza – Inammissibilità

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FIDELBO Giorgio – Presidente

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere

Dott. GIORDANO Emilia Anna – Consigliere

Dott. AMOROSO Riccardo – rel. Consigliere

Dott. VIGNA Maria Sabina – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nata a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 26/11/2019 della Corte di appello di Bologna;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere AMOROSO Riccardo;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale DE MASELLIS Mariella, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’avv. (OMISSIS), in sostituzione dell’avvocato (OMISSIS), difensore di (OMISSIS), che ha concluso per l’accoglimento dei motivi di ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con il provvedimento in epigrafe, la Corte d’appello di Bologna ha confermato la sentenza emessa in data 30/05/2019 dal Tribunale di Rimini che ha assolto la ricorrente per incapacita’ di intendere e di volere al momento del fatto, con riferimento ai reati ascrittile di cui agli articoli 81 e 368 c.p., per avere accusato sapendoli innocenti (OMISSIS) e (OMISSIS) di lesioni personali e di calunnia in relazione alle denunce sporte dai predetti soggetti nei confronti della stessa ricorrente per i reati di danneggiamento aggravato, minaccia aggravata, lesioni personali e furto (in (OMISSIS)).
Con l’anzidetta sentenza, confermata in appello, il Tribunale, ritenuta la pericolosita’ sociale dell’imputata, ha applicato nei confronti dell’imputata la misura di sicurezza del ricovero in una REMS (residenza per l’esecuzione di misura di sicurezza) per la durata non inferiore a due anni, e disposto in via provvisoria ai sensi dell’articolo 312 c.p.p., la stessa misura di sicurezza detentiva con riesame della pericolosita’ alla scadenza dei sei mesi dalla data della pronuncia della sentenza.
2. Tramite il proprio difensore, (OMISSIS) ha proposto ricorso, articolando i motivi di seguito indicati.
2.1. Con il primo motivo si denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla questione del difetto del dolo del reato di calunnia, per avere la Corte di appello erroneamente ritenuto di non doverne verificare la sussistenza sull’assunto erroneo che lo stato soggettivo di totale incapacita’ di intendere e di volere avrebbe reso ultroneo ogni ulteriore accertamento sull’elemento psicologico del reato.
Secondo la ricorrente, una tale interpretazione si pone in contrasto con la costante giurisprudenza di legittimita’ secondo cui l’indagine sulla imputabilita’ deve essere distinta da quella sul dolo, nel senso che anche ove risulti accertata l’incapacita’ di intendere e di volere, l’accertamento del dolo, quale elemento costitutivo del delitto, deve essere condotto alla stregua delle regole generali previste per un soggetto agente dotato di normale capacita’ di intendere e di volere (si richiamano in particolare, Sez.1, n. 507 del 7/12/1993, Mitrugno, Rv. 196112, e Sez. 6, n. 4292 del 13/05/ 2014, Corti, Rv. 262151).
2.2. Con il secondo motivo si denuncia vizio della motivazione in merito alla omessa valutazione dei risultati della perizia psichiatrica del prof. (OMISSIS) depositata con i motivi aggiunti in appello. Si censura, in particolare, che la Corte di appello non avrebbe fornito alcuna risposta sull’esito della predetta perizia svolta in separato procedimento con la quale e’ stata esclusa la incapacita’ di intendere e di volere dell’imputata, tanto che la stessa in quel procedimento e’ stata condannata.
Tale censura viene argomentata in relazione alla applicazione della misura di sicurezza detentiva disposta sebbene le perizie psichiatriche non deponessero per una sicura infermita’ mentale, considerato che la perizia disposta nel corso del giudizio di primo grado aveva ritenuto soltanto grandemente scemata ma non esclusa l’imputabilita’, mentre la gia’ citata perizia disposta in altro procedimento aveva addirittura escluso il difetto di imputabilita’.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso non puo’ essere accolto, per infondatezza del primo motivo ed inammissibilita’ del secondo.
Con riferimento alla questione relativa all’accertamento del dolo si deve rilevare preliminarmente che effettivamente la impostazione ermeneutica seguita dalla Corte di appello e’ errata, perche’ si pone in evidente contrasto con la consolidata e costante giurisprudenza di legittimita’ in tema di rapporto tra imputabilita’ e dolo (vedi Sez. 1, n. 507 del 07/12/1993, Mitrugno, Rv. 196112; Sez. 2, n. 9311 del 27/11/2018, Timpanaro, Rv. 275525).
Costituisce, infatti, principio consolidato del nostro sistema penale che l’indagine sulla imputabilita’ deve essere tenuta nettamente distinta da quella sul dolo, poiche’ il dolo, quale elemento costitutivo del delitto, deve sussistere anche nei confronti di soggetto che risulti non imputabile o parzialmente imputabile, e deve essere verificato ed accertato alla stregua delle regole di comune esperienza secondo i normali criteri di valutazione, in modo non dissimile da come avviene con riferimento all’ipotesi di un soggetto agente dotato di normale capacita’ di intendere e di volere.
Cio’ significa che anche nei confronti di soggetto non imputabile, o parzialmente imputabile, dovra’ comunque essere stabilito, alla stregua delle regole di comune esperienza, se l’evento prodotto sia stato “secondo l’intenzione”, “contro l’intenzione” o “oltre l’intenzione” (giusta le varie ipotesi previste dall’articolo 43 c.p.), per poi passare a verificare se e come il soggetto debba penalmente rispondere di tale evento, in ragione del suo stato di mente.
La Corte di appello ha disatteso questo principio avendo ritenuto che, una volta accertata l’assenza totale di imputabilita’, sarebbe ultroneo ogni ulteriore accertamento in ordine alla sussistenza dell’elemento psicologico, introducendo anche una non condivisibile distinzione tra vizio totale e vizio parziale di mente.
Al contrario deve ribadirsi che ove, all’esito dell’indagine sulla integrazione degli elementi costitutivi del reato sia esclusa la sussistenza del dolo, anche il soggetto non imputabile deve essere assolto con la formula piu’ favorevole del fatto non costituisce reato e non con quella del difetto di imputabilita’, che presuppone l’accertata consumazione del reato.
Infatti, solo ove sia stata accertata la commissione del reato si impone, nel caso di difetto di imputabilita’, la ulteriore valutazione delle conseguenze penali che devono discenderne a carico del soggetto ritenuto non imputabile, nella specie dell’applicazione o meno di una misura di sicurezza.
Non vi e’ dubbio che lo stato di imputabilita’ costituisce il necessario presupposto dell’affermazione di responsabilita’, ma il suo doveroso accertamento non incide in alcun modo sulla indagine relativa all’accertamento del reato, essendo quest’ultima a sua volta necessaria per l’applicazione delle misure di sicurezza, secondo quanto previsto dall’articolo 202 c.p., comma 1, che stabilisce come principio generale che le misure di sicurezza possono essere applicate soltanto alle persone socialmente pericolose che abbiano commesso un fatto preveduto dalla legge come reato, esclusi i casi di cui al comma 2 che si riferiscono ad ipotesi particolari previste da altre disposizioni di legge (ex articoli 49 e 115 c.p.).
2. Cio’ premesso, e pur evidenziando la correttezza dell’appunto mosso nel ricorso all’impostazione del tutto erronea del giudice dell’appello, si deve pero’ rilevare l’infondatezza della doglianza con riguardo alle ragioni per le quali e’ stata censurata la decisione del primo giudice in merito all’accertamento del dolo del delitto di calunnia, che puo’ essere rilevata in questa sede per la intima contraddittorieta’ insita nella stessa articolazione del motivo che ne avrebbe imposto il rigetto anche in sede di appello e che rende palesemente superfluo una sua rivalutazione nella fase del giudizio di merito.
Considerato quanto osservato sull’autonomia delle indagini sul dolo e sulla imputabilita’, la ricorrente nel proprio motivo ha contraddetto il proprio stesso assunto, assolutamente legittimo in linea di principio, confondendo i due piani di indagine che, per come riconosciuto dalla stessa ricorrente, devono mantenersi nettamente distinti.
La ricorrente ha, infatti, sostanzialmente rappresentato che nel caso “de quo” la insussistenza del dolo discenderebbe proprio dalle condizioni mentali alterate dell’imputata, che a causa dei disturbi percettivi da cui e’ affetta non avrebbe potuto rendersi conto della falsita’ della situazione di fatto dalla stessa descritta nella propria denuncia, sulla base dell’ulteriore considerazione della particolare intensita’ del dolo del delitto di calunnia che presuppone la massima capacita’ di consapevolezza e nello specifico la volonta’ di accusare una persona che si sa essere innocente.
Quindi, secondo la prospettazione della ricorrente, poiche’ dalle risultanze della perizia psichiatrica sarebbe emerso una capacita’ cognitiva turbata dall’ideazione paranoide, cio’ avrebbe legittimato il dubbio che l’imputata possa avere reinterpretato il litigio con i propri condomini ed il proprio ruolo in termini di vittima piuttosto che di soggetto attivo dell’aggressione per effetto di una visione distorta della realta’, cagionata proprio dal disturbo mentale.
E’ evidente l’erroneita’ di siffatta impostazione che si pone in palese contraddizione con l’affermazione di principio che e’ stata posta a fondamento del motivo di ricorso per cassazione.
Gli argomenti addotti dalla ricorrente contraddicono il principio della autonomia delle due indagini, ed in particolare della necessita’ che l’accertamento del dolo sia condotto alla stregua delle regole generali che valgono per un soggetto imputabile, ovverosia senza tenere conto dei deliri psicotici patologici che non possono essere valorizzati per escludere il dolo ma solo per escludere l’imputabilita’, allorche’, una volta accertata alla stregua delle regole generali la sussistenza del reato, si imponga l’ulteriore valutazione delle conseguenze penali che ne devono discendere alla stregua dello stato mentale del soggetto agente, in base all’inquadramento nelle categorie psicopatologiche richiamate dagli articoli 88 e 89 c.p., in tema di vizio totale e vizio parziale di mente come cause che escludono o riducono grandemente la capacita’ di intendere e di volere.
Neppure si giustifica, per come gia’ detto, la distinzione dello stato psicopatologico in rapporto alla tipologia del dolo richiesto per la integrazione del reato, atteso che anche ove sia richiesto dalla norma incriminatrice il dolo specifico o quello intenzionale, la valutazione dell’elemento psicologico del reato rispetto al soggetto non imputabile o parzialmente imputabile deve essere condotta sempre allo stesso modo e secondo i criteri validi per il soggetto imputabile.
In altri termini, la verifica dell’elemento soggettivo deve essere basata su un procedimento logico inferenziale fondato, come avviene sempre ed in ogni caso, sull’esame dei fatti obiettivi e certi aventi un sicuro valore sintomatico del fine perseguito dall’agente, senza che possano assumere rilevanza gli errori percettivi frutto dei deliri psicotici, che assumono invece rilievo nell’indagine sulla imputabilita’.
Attribuire, come assume la ricorrente, rilevanza all’errore percettivo dovuto al delirio psicotico per escludere il dolo equivale a confondere i due piani di indagine, non potendosi valorizzare agli effetti dell’accertamento del dolo l’errore di fatto quando la falsa rappresentazione della realta’ non sia espressione di una errata valutazione ma, come inequivocabilmente avvenuto nel caso “de quo”, rappresenti solo il portato di uno stato delirante dovuto a malattia mentale.
Proprio per l’indiscussa origine psicopatologica della ridotta percezione della falsita’ della denuncia, si rende del tutto superfluo un rinvio al giudice di merito per rivalutare alla stregua dei principi di diritto sopra affermati la sussistenza del dolo, potendosi procedere ai sensi dell’articolo 619 c.p.p., a rettificare nel senso dianzi esposto l’errore di diritto in cui e’ incorso il giudice dell’appello.
3. Inammissibile deve ritenersi il secondo motivo di ricorso.
Si deve preliminarmente ricordare che la pericolosita’ sociale allorche’ sia correlata allo stato di infermita’ mentale comporta l’applicazione delle misure di sicurezza previste nei casi tassativamente indicati dalla legge, secondo il principio di legalita’ sancito dall’articolo 25 Cost., comma 3, oltre che dall’articolo 199 c.p., in corrispondenza a quanto previsto per la pena dal medesimo articolo 25 Cost., comma 2 e dall’articolo 1 c.p..
Lo stato di malattia mentale costituisce il presupposto necessario per l’applicazione delle misure di sicurezza detentive dell’assegnazione ad una casa di cura e custodia o del manicomio giudiziario – ora sostituite dalla misura detentiva presso la REMS (Residenza per Esecuzione di Misure di Sicurezza) Decreto Legge 22 dicembre 2011, n. 211, ex articolo 3-ter, comma 4, convertito con modificazioni dalla L. 17 febbraio 2012, n. 9, – alle condizioni previste dagli articoli 219 e 222 c.p., nei confronti dei soggetti condannati ad una pena diminuita per vizio parziale di mente, o prosciolti per vizio totale di mente, unitamente all’ulteriore presupposto della pericolosita’ sociale che deve sussistere sia al momento in cui la misura viene disposta e sia al momento della sua esecuzione e per tutta la durata della sua applicazione.
La valutazione dell’imputabilita’ si distingue dalla verifica della pericolosita’ sociale, precedendola, nel senso che solo nel caso di esclusione o riduzione dell’imputabilita’ per vizio totale o parziale di mente si pone la necessita’ di verificare la sussistenza della pericolosita’ sociale generata dalla riscontrata patologia mentale.
Nei confronti del soggetto sano di mente ed imputabile la tutela della collettivita’ dal pericolo di reiterazione dei reati si atteggia in modo totalmente diverso, sia sotto il profilo della valutazione della pericolosita’ sociale, che sotto il profilo dei rimedi ed istituti giuridici previsti dall’ordinamento penale, atteso che alla piena responsabilita’ penale del soggetto agente consegue l’assoggettabilita’ alla pena detentiva, ove prevista dalla legge per il titolo di reato giudicato e, nelle more del giudizio, l’applicazione delle misure cautelari disciplinate dagli articoli 272 e segg. del codice di rito.
Risulta, pertanto, del tutto incoerente e contrario al principio del divieto di “reformatio in pejus” che l’imputata possa dolersi della pronuncia assolutoria per difetto di imputabilita’, adducendo l’errata valutazione del giudice di merito sulla sussistenza di detta causa di non punibilita’ al solo fine di censurare l’applicazione della misura di sicurezza, senza nulla dedurre in merito al profilo della pericolosita’ e ferma restando la integrazione del reato nelle sue componenti oggettive e soggettive.
L’assenza del difetto di imputabilita’, dedotta dalla ricorrente sulla scorta di una diversa perizia psichiatrica svolta in altro e separato procedimento penale al solo fine di censurare l’applicazione della misura di sicurezza detentiva prevista dall’articolo 222 c.p., ove fosse risultata fondata, avrebbe comportato innanzitutto l’affermazione della penale responsabilita’ dell’imputata con la conseguente riforma della sentenza di proscioglimento in una sentenza di condanna, elidendo ogni rilievo dell’ulteriore profilo della pericolosita’ sociale di impronta psicopatologica quale presupposto della applicazione della misura di sicurezza, per effetto dell’assoggettabilita’ dell’imputata al diverso regime punitivo previsto per i soggetti imputabili.
Pertanto, la questione dedotta dalla ricorrente al fine di ottenere la revoca della misura di sicurezza senza considerare il correlato necessario aggravamento della posizione dell’imputata in punto di responsabilita’ penale, rende evidente l’inammissibilita’ del motivo di appello e la conseguente irrilevanza della omessa valutazione dal parte del giudice dell’appello delle risultanze della nuova perizia psichiatrica allegata nei motivi nuovi dell’atto di appello, in ragione del divieto di modifiche peggiorative della sentenza appellata dalla sola imputata.
Si deve, inoltre, ricordare che la valutazione operata dal giudice di merito in termini di vizio totale di mente anziche’ di vizio parziale costituisce una statuizione anch’essa piu’ favorevole per l’imputata, atteso che nel caso di attenuazione dell’imputabilita’ a norma del combinato disposto degli articoli 89 e 219 c.p., alla affermazione di responsabilita’ per il reato previsto dall’articolo 368 c.p., consegue l’irrogazione della pena della reclusione, sia pure diminuita, oltre all’applicazione congiunta della misura di sicurezza detentiva, a fronte della riscontrata pericolosita’ sociale.
Conseguentemente, sebbene il giudice di merito abbia ritenuto la sussistenza del vizio totale di mente discostandosi dalla perizia psichiatrica disposta nel corso del giudizio di primo grado che aveva invece riscontrato il vizio parziale di mente, anche siffatta statuizione non e’ censurabile perche’ non pregiudica la posizione dell’imputata che ha tratto un sicuro vantaggio da tale difforme valutazione.
Destituite di ogni fondamento sono poi le ulteriori considerazioni sulla pericolosita’ sociale che e’ stata argomentata nella sentenza impugnata con riferimenti inappuntabili alla reiterazione delle condotte aggressive poste in essere dall’imputata nel breve arco di tempo considerato, sempre con le medesime modalita’ connotate da reazioni impulsive in forte stato di agitazione.
A cio’ va aggiunto che la valutazione in merito alla pericolosita’ sociale operata con riferimento alla disposta applicazione della misura di sicurezza del ricovero in una REMS in via provvisoria ai sensi dell’articolo 312 c.p.p., come anche la sua adeguatezza al caso concreto rispetto alla meno afflittiva misura non detentiva della liberta’ vigilata, non puo’ essere sindacata in sede di ricorso avverso la sentenza ma solo con gli ordinari mezzi di impugnazione previsti per le misure cautelari a norma dell’articolo 313 c.p.p., comma 3.
La statuizione, invece, con cui e’ stata disposta in sentenza l’applicazione della misura di sicurezza del ricovero in una REMS resta soggetta alla necessaria verifica della persistenza della pericolosita’ in sede di esecuzione della sentenza, di competenza ex articolo 679 c.p.p., del Magistrato di sorveglianza.
Il motivo di ricorso nel trattare in modo indistinto i due profili, quello dell’applicazione della misura di sicurezza in via provvisoria ex articolo 206 c.p. e quello della irrogazione della misura ai sensi dell’articolo 205 c.p. con la sentenza di proscioglimento, si profila come inammissibile per genericita’ anche sotto questo ulteriore diverso aspetto.
4. Al rigetto del ricorso consegue, a norma dell’articolo 616 c.p.p., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
Considerato che il procedimento riguarda un soggetto affetto da condizione patologica per infermita’ mentale si deve disporre nel caso di diffusione del presente provvedimento l’oscuramento delle generalita’ e degli altri dati identificativi delle parti private a norma del Decreto Legislativo n. 196 del 2003, articolo 52.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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