Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|3 febbraio 2025| n. 2520.
Danno extra-contrattuale: prova nesso causale necessaria
Massima: In tema di responsabilità contrattuale derivante dall’inadempimento di obbligazioni di dare o di fare non professionale, il danno da lesione dell’interesse tutelato dal contratto, la cui soddisfazione è affidata alla prestazione dedotta ad oggetto dell’obbligazione, si distingue da quello derivante dalla lesione di interessi diversi, con la conseguenza che solo con riferimento al primo gli oneri del contraente danneggiato si risolvono nella mera allegazione dell’inadempimento, in ragione della cd. “prova evidenziale” della sussistenza della causalità materiale, mentre, con riguardo al secondo, ricade sull’attore l’onere della prova del nesso eziologico tra inadempimento e danno. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto immune da censure la sentenza di appello che, in relazione alla domanda di risarcimento del danno da lesioni conseguenti alla non corretta installazione di una cucina, aveva ritenuto non raggiunta la prova del nesso causale tra l’inadempimento e il danno lamentato, stante l’insufficienza, a tal fine, dell’accertato inadempimento all’obbligazione di corretta installazione).
Ordinanza|3 febbraio 2025| n. 2520. Danno extra-contrattuale: prova nesso causale necessaria
Integrale
Tag/parola chiave: Obbligazioni in genere – Inadempimento – Responsabilita’ – Risarcimento del danno responsabilità contrattuale – Obbligazioni di dare o di fare – Danno da lesione dell’interesse tutelato dal contratto – Danno da lesione di interessi diversi – Distinzione – Conseguenze sull’onere della prova del nesso causale – Fondamento – Fattispecie.
REPUBBLICA ITALIANA
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta da
Dott. SCRIMA Antonietta – Presidente
Dott. IANNELLO Emilio – Relatore
Dott. AMBROSI Irene – Consigliere
Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere
Dott. FANTICINI Giovanni – Consigliere
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 3432/2024 R.G. proposto da
De.An., rappresentata e difesa dall’Avv. Fa.Ve. (p.e.c. (Omissis));
– ricorrente –
contro
R.E.M. Snc di Si.At. E C., rappresentata e difesa dall’Avv. Al.Cr. (p.e.c. (Omissis)) e dall’Avv. Pa.Lu. (p.e.c. (Omissis));
– controricorrente –
e contro
HD.As. Spa, quale società incorporante HD.It. S.p.a, rappresentata e difesa dall’Avv. Fa.Al. (p.e.c. (Omissis)), con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, Via De.Fo.;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte d’Appello di Milano, n. 3397/2023, depositata in data 1 dicembre 2023.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12 dicembre 2024 dal Consigliere Emilio Iannello.
Danno extra-contrattuale: prova nesso causale necessaria
FATTI DI CAUSA
1. De.An. convenne in giudizio la società REM di Si.At. E C. Snc chiedendone la condanna al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti in conseguenza del sinistro occorso in data 6 maggio 2018 presso la sua abitazione allorquando, mentre era intenta a pulire la cucina SMEG modello SX81 acquistata poco più di un mese prima dalla predetta ditta e montata dal personale della stessa, l’intero complesso le era rovinato improvvisamente addosso, in quanto non adeguatamente fissato alla parete.
2. La REM Snc, non essendo stata ammessa alla chiamata in garanzia della propria compagnia assicuratrice per essersi tardivamente costituita, la convenne in separato giudizio per far valere la copertura dei rischi professionali per responsabilità civile.
3. Riuniti i giudizi ed espletata l’istruttoria, l’adito Tribunale di Milano, con sentenza n. 1062 del 2023, rigettò la domanda, condannando parte attrice alla rifusione delle spese in favore sia della convenuta che della compagnia assicuratrice di quest’ultima.
Ricondotta la fattispecie nell’alveo della responsabilità contrattuale, ritenne che la convenuta avesse dato prova della corretta installazione della cucina mentre ritenne non assolto l’onere probatorio gravante sull’attrice in relazione alla dinamica del sinistro, avendo considerato le allegazioni della istante del tutto generiche e inidonee alla ricostruzione dell’esatta dinamica dell’evento dannoso.
4. Con la sentenza in epigrafe la Corte d’Appello di Milano ha rigettato il gravame interposto dalla De.An., confermando integralmente la decisione di primo grado e condannando l’appellante alla rifusione delle spese di lite in favore sia della REM Snc di Si.At. E C. che della HD.It. Spa (già Am.As. Spa).
Rilevata una evidente discordanza, lacunosità ed illogicità nelle versioni fornite in merito alla dinamica del fatto in vari momenti anteriormente al giudizio e nel corso dello stesso, ha ritenuto “inverosimile” che “la cucina, dal peso di 70 kg… posizionata per terra possa essersi ribaltata senza l’intervento di un soggetto che abbia potuto provocarne il ribaltamento” e che comunque “le differenti versioni offerte nel corso del giudizio di primo grado rendono completamente oscura la dinamica del fatto che non può essere accertata in alcun altro modo”.
Quanto al secondo motivo di gravame, con il quale l’appellante si doleva della condanna alle spese in favore della compagnia d’assicurazioni, ha rilevato che nella specie dovesse trovare applicazione il principio secondo cui “in tema di spese giudiziali sostenute dal terzo chiamato in garanzia, una volta rigettata la domanda principale, il relativo onere va posto a carico della parte soccombente che ha provocato e giustificato la chiamata in garanzia, in applicazione del principio di causalità, e ciò anche se l’attore soccombente non abbia formulato alcuna domanda nei confronti del terzo” (Cass. n. 511 del 2021; n. 23123 del 2019; n. 23552 del 2011), a ciò non ostando che il rapporto di garanzia fosse stato posto ad oggetto di separato giudizio cui l’attrice era estranea e non di chiamata di terzo nel giudizio da questa introdotto, poiché preclusa dalla tardiva costituzione della convenuta.
4. Avverso tale sentenza De.An. propone ricorso per cassazione articolando cinque motivi, cui resistono, con separati controricorsi, sia la R.E.M. Snc che la HD.As. Spa.
5. La trattazione è stata fissata in adunanza camerale ai sensi dell’art. 380-bis.1 cod. proc. civ.
Non sono state depositate conclusioni dal Pubblico Ministero.
La ricorrente e la controricorrente R.E.M. Snc hanno depositato memorie.
Danno extra-contrattuale: prova nesso causale necessaria
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360, primo comma, num. 4, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1223, 1228 e 2697 cod. civ. e degli artt. 112, 115 e 116 cod. proc. civ.
RILEVA CHE
– dagli stessi stralci riportati nella sentenza non emerge alcuna lacuna o contraddizione nell’allegazione dei fatti;
– l’unica potenziale contraddizione tra il fatto che sia caduto il “forno” o “il complesso” o “parte della cucina” è facilmente superata dalla visione della cucina di cui si discorre, ritratta dalla foto prodotta in giudizio;
– con l’atto di appello era stato censurato il rigetto delle istanze istruttorie e la contemporanea affermazione che non sarebbe stata raggiunta la prova del fatto storico;
– era stata anche censurata specificamente la decisione in merito all’ammissibilità dei capitoli di prova articolati e in particolare del numero 2 (“Vero che in data 6 maggio 2018 la signora De.An. mentre spolverava la cucina acquistata presso la R.E.M di Si.At. E C., l’intero complesso della stessa le rovinava addosso”).
2. Il motivo – in disparte il rilievo della sovrapposizione, in un unico periodare, di censure eterogenee e incompatibili, non adeguatamente distinte in rubrica e nemmeno nella successiva illustrazione – è inammissibile sotto diversi profili.
2.1. Nella sua prima parte (sopra riassunta nei primi due alinea), lungi dall’individuare le affermazioni in diritto che si porrebbero in contrasto con le norme evocate, l’illustrazione del motivo si risolve in una manifestazione di dissenso dalla valutazione delle emergenze probatorie ed in una sollecitazione a valutarle diversamente.
È appena il caso di rammentare che, secondo principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, il vizio di violazione e falsa applicazione della legge, di cui all’art. 360, comma primo, num. 3, cod. proc. civ., giusta il disposto di cui all’art. 366, comma primo, num. 4, cod. proc. civ., deve essere dedotto, a pena d’inammissibilità, non solo con l’indicazione delle norme che si assumono violate, ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni, contenute nella sentenza impugnata, che si assumono in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. nn. 16132 del 2005, 26048 del 2005, 20145 del 2005, 1108 del 2006, 10043 del 2006, 20100 del 2006, 21245 del 2006, 14752 del 2007, 3010 del 2012 e 16038 del 2013).
Danno extra-contrattuale: prova nesso causale necessaria
In altri termini, non è il punto d’arrivo della decisione di fatto che determina l’esistenza del vizio di cui all’art. 360, comma primo, num. 3, cod. proc. civ., ma l’impostazione giuridica che, espressamente o implicitamente, abbia seguito il giudice di merito nel selezionare le norme applicabili alla fattispecie e nell’interpretarle.
Nella specie le doglianze svolte, lungi dal far emergere una erronea qualificazione giuridica della fattispecie concreta così come accertata in sentenza, impingono esclusivamente nella ricognizione della stessa, sindacabile solo sul piano della motivazione, nei limiti del vizio rilevante ai sensi dell’art. 360, comma primo, num. 5, cod. proc. civ.
Pure ricondotte a tale diversa prospettiva, nell’esercizio del potere/dovere di autonoma qualificazione della censura (v. Cass. Sez. U. 24/07/2013, n. 17931), non potrebbe comunque pervenirsi a diversa valutazione.
Anzitutto per la preclusione che deriva – ai sensi dell’art. 348-ter, ultimo comma, cod. proc. civ. (come sostituito dall’art. 54, comma 1, lett. a), D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134) – dall’avere la Corte d’Appello deciso in modo conforme alla sentenza di primo grado (c.d. doppia conforme), non avendo assolto l’onere in tal caso su di essi gravante di indicare le ragioni di fatto della decisione di primo grado ed in cosa queste si differenziavano da quelle poste a fondamento della decisione di appello (v. Cass. 28/02/2023, n. 5947; 15/03/2022, n. 8320; 6/08/2019, n. 20994; n. 22/12/2016, n. 26774).
In secondo luogo, e comunque, perché lungi dall’evidenziare il “fatto storico”, testuale o extratestuale, decisivo e oggetto di discussione tra le parti, la censura sollecita una mera radicale rivalutazione della quaestio facti in termini del tutto estranei al paradigma censorio di cui all’art. 360, comma primo, num. 5, cod. proc. civ. (per il quale, come noto, non costituisce omissione censurabile l’omesso esame di elementi istruttori, qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie v. Cass. Sez. U. 7/04/2014, nn. 8053 – 8054).
2.2. Quanto alla pure dedotta violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. (peraltro solo affermata in rubrica ma in alcun modo argomentata nella successiva illustrazione), va rammentato che, secondo pacifico insegnamento
– la violazione dell’art. 115 c.p.c. può essere dedotta come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, e non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, ha attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre (Cass. n. 11892 del 10/06/2016; Sez. U, n. 16598 del 5/08/2016, Rv. 640829 – 01; Sez. U. n. 20867 del 30/09/2020, Rv. 659037-01);
– la violazione dell’art. 116 c.p.c. può dirsi sussistente, e costituire valido motivo di ricorso per cassazione, solo in un caso quando il giudice di merito attribuisca pubblica fede ad una prova che ne sia priva oppure, all’opposto, valuti secondo prudente apprezzamento una prova a valutazione vincolata, come l’atto pubblico (Cass. n. 11892 del 10/06/2016; il principio è stato altresì ribadito dalle Sezioni Unite di questa Corte, nella decisione pronunciata da Sez. U, Sentenza n. 16598 del 5/08/2016, al par. 14 dei “Motivi della decisione”; Sez. U. n. 20867 del 2020, cit. Rv. 659037-02).
2.3. Nella parte finale della illustrazione del motivo la ricorrente si duole che la Corte territoriale non abbia ammesso le prove testimoniali da essa articolate in primo grado al fine di superare i dubbi sulla dinamica dell’accaduto.
Detta prova – di cui viene trascritto il capitolo – si assume dedotta in primo grado e riproposta in secondo grado, in quanto, si dice, non era stata ammessa dal Tribunale.
Danno extra-contrattuale: prova nesso causale necessaria
Anche tale censura è inammissibile.
La mancata ammissione di richiesta istruttoria non può integrare vizio di violazione di legge sostanziale, atteso che a potersi valutare in rapporto alla sua correttezza in iure è la decisione resa sulla domanda giudiziale, non già quella meramente strumentale riguardante le richieste istruttorie, finalizzate solo all’accertamento dei fatti rilevanti.
Il provvedimento reso sulle richieste istruttorie è piuttosto, in astratto, censurabile, o per inosservanza di norme processuali o per vizio di motivazione, ma in tale secondo caso solo nei ristretti limiti nei quali è oggi deducibile secondo il ristretto paradigma di cui all’art. 360, comma primo, num. 5, cod. proc. civ.
Non può, in via di principio, essere posto in dubbio il rilievo che il diritto alla prova assume quale strumento di un effettivo esercizio del diritto di agire e difendersi in giudizio attraverso un giusto processo (artt. 24 e 111 Cost.; art. 6, par. 1, CEDU) di guisa che la sua violazione, ove per l’appunto si risolva in violazione anche di tali diritti-fine, è certamente censurabile in cassazione ai sensi dell’art. 360, comma primo, num. 4, cod. proc. civ.
Una tale violazione è, però, configurabile allorquando il giudice del merito rilevi decadenze o preclusioni insussistenti (cfr. Cass. 5/03/1977, n. 910) ovvero affermi tout court l’inammissibilità del mezzo di prova richiesto per motivi che prescindano da una valutazione, di merito, della sua rilevanza in rapporto al tema controverso ed al compendio delle altre prove richieste o già acquisite.
Ove invece ci si muova in tale seconda prospettiva, ancorché la decisione del giudice di merito si risolva pur sempre nel rifiuto di ammettere il mezzo di prova richiesto, non viene in rilievo una regola processuale rigorosamente prescritta dal legislatore ma piuttosto – come è stato rilevato – “il potere (del giudice) di operare nel processo scelte discrezionali, che, pur non essendo certamente libere nel fine, lasciano tuttavia al giudice stesso ampio margine nel valutare se e quale attività possa o debba essere svolta” (Cass. Sez. U. 22/05/2012, n. 8077).
In tal caso, “la decisione si riferisce, certo, ad un’attività processuale, ma è intrinsecamente ed inscindibilmente intrecciata con una valutazione complessiva dei dati già acquisiti in causa ed, in definitiva, della sostanza stessa della lite. Il che spiega perché siffatte scelte siano riservate in via esclusiva al giudice di merito e perché, quindi, pur traducendosi anch’esse in un’attività processuale, esse siano suscettibili di essere portate all’attenzione della Corte di cassazione solo per eventuali vizi della motivazione che le ha giustificate, senza che a detta Corte sia consentito sostituirsi al giudice di merito nel compierle” (Cass. Sez. U. n. 8077 del 2012, cit.).
La mancata ammissione della prova pone, dunque, in tale ipotesi, solo un problema di coerenza e completezza della ricostruzione del fatto in rapporto agli elementi probatori offerti dalle parti e può pertanto essere denunciata in sede di legittimità (solo) per vizio di motivazione in ordine all’attitudine dimostrativa di circostanze rilevanti ai fini della decisione (Cass. n. 20693 del 2015; n. 66 del 2015; n. 5377 del 2011; n. 4369 del 1999).
Nel caso di specie si verte, evidentemente, in questa seconda ipotesi.
La Corte d’Appello ha espressamente considerato il mezzo di prova in questione (v. sentenza, pag. 15, quarto alinea) ma lo ha implicitamente ma in modo abbastanza chiaro e univoco giudicato irrilevante perché teso a rappresentare una dinamica dei fatti contraddetta dalle diverse prospettazioni che di tale dinamica la stessa attrice o il suo legale avevano reso in altri atti e fasi della controversia (al qual riguardo varrà incidentalmente notare che il teste che avrebbe dovuto deporre sul capitolo in questione, come può ricavarsi solo dalle conclusioni delle parti trascritte nella parte iniziale della sentenza impugnata, tale indicazione essendo invece omessa in ricorso, era il marito dell’appellante, già comunque escusso in primo grado su altri capitoli).
Ciò inevitabilmente attribuisce alla doglianza rilievo censorio non riconducibile al paradigma di cui al num. 4 dell’art. 360 cod. proc. civ. ma a quello di cui al num. 5 e la sottopone ai relativi limiti di deducibilità.
In tale prospettiva, invero, la censura si risolve (al di là della erronea indicazione in rubrica di un error in procedendo) nella prospettazione di una mera quaestio facti, ovvero di un difetto di ricognizione della fattispecie concreta.
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Essa, però, si appalesa in tale direzione inammissibile
a) anzitutto, come già detto, per la preclusione che alla sua prospettazione è dettata dall’art. 348-ter, quinto comma, cod. proc. civ.;
b) comunque, per la sua aspecificità, non essendo indicato, come detto, il teste che si chiedeva di escutere.
3. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 1218 cod. civ.
Premesso che, atteso il fondamento contrattuale della dedotta responsabilità, era la debitrice a dover dare la prova di aver correttamente installato la cucina, rileva la ricorrente che non solo tale prova liberatoria non era stata data, ma emergeva piuttosto dalla documentazione prodotta la prova contraria. Argomenta, quindi, che “appare persino ovvio che l’ancoraggio alla parete rappresenti specificamente l’accortezza necessaria al fine di evitare che il mobile si ribalti nel momento in cui viene posto del peso su di esso. Evento che è materialmente inevitabile nel momento in cui si pulisce lo sportello del forno”.
4. Il motivo è manifestamente infondato, quando non inammissibile.
Ragione del confermato rigetto della domanda risarcitoria non sta nel diniego del carattere inadempiente della prestazione resa dalla ditta fornitrice della cucina, bensì nel rilievo della mancanza di prova del nesso causale tra tale inesatto adempimento e l’evento dannoso quale dedotto in domanda e ciò, a monte, per la mancanza di prova specifica e attendibile in ordine all’esatta dinamica di tale evento. Chiara in tal senso l’affermazione, leggibile al termine di pag. 16 della sentenza, secondo cui “Dalle risultanze probatorie acquisite nel corso del processo non sono quindi emersi sufficienti elementi di giudizio per risalire alla esatta dinamica ed alla eziologia dell’incidente dal quale si pretende far discendere la responsabilità contrattuale della società appellata, che non può quindi ritenersi una conseguenza immediata e diretta del suo inadempimento”.
Tale essendo il tema di prova la Corte di merito, nel porre a carico dell’appellante il c.d. “rischio della causa ignota”, non ha violato i criteri di riparto del relativo onere quali dettati in tema di responsabilità da inadempimento.
La tesi censoria sarebbe risultata pertinente se si fosse trattato (solo) di accertare che la cucina non fosse stata correttamente installata.
Questo essendo l’interesse sottostante al contratto ed al cui soddisfacimento era deputata la prestazione oggetto dell’obbligo assunto, la sua dedotta lesione, ossia la dedotta inesatta installazione della cucina, non andava provata dal creditore ma era il debitore a dover provare il contrario, ossia di aver esattamente adempiuto o di non averlo potuto fare per causa a lui non imputabile (Cass. Sez. U. 30/10/2001, n. 13533).
Nelle obbligazioni di dare o facere non professionale, qual è quella dedotta nella specie a fondamento della domanda, poiché la soddisfazione dell’interesse è in tutto direttamente affidata alla prestazione che forma oggetto dell’obbligazione, la lesione dell’interesse, in cui si concretizza il danno evento, è cagionata dall’inadempimento. In tal caso la causalità materiale, pur teoricamente distinguibile dall’inadempimento per la differenza fra eziologia ed imputazione, non è praticamente separabile dall’inadempimento, perché quest’ultimo corrisponde alla lesione dell’interesse tutelato dal contratto e dunque al danno evento. In tal caso, gli oneri del contraente danneggiato si risolvono nella mera allegazione dell’inadempimento ed egli è invece esonerato dalla prova del nesso di causa tra condotta inadempimente e danno.
Ciò in quanto si verifica quel che è stato definito “assorbimento pratico” della causalità materiale nell’inadempimento, anche se sarebbe più appropriato parlare di “prova evidenziale”, poiché quel che accade in questi casi è che la stessa fattispecie legale sta a dimostrare ex se il nesso causale tra condotta inadempiente e danno.
In tali casi il creditore-danneggiato non è tenuto a dar prova del danno poiché, come affermato da Cass. S.U. n. 13533 del 2001, è onere del debitore provare l’adempimento o la causa non imputabile che ha reso impossibile la prestazione (art. 1218 c.c.), mentre l’inadempimento, nel quale è assorbita la causalità materiale, deve essere solo allegato dal creditore.
Tale ragionamento però vale fin quando tema di controversia sia l’evento di danno rappresentato dalla lesione dell’interesse sotteso al contratto, la cui soddisfazione è, come detto, affidata alla prestazione dedotta ad oggetto della obbligazione assunta dalla controparte.
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Nel momento in cui invece ci si sposta a valutare la sussistenza di eventuali conseguenze ulteriori, compresa la lesione di interessi diversi rispetto a quelli tutelati dal contratto, si ricade nell’ambito della “causalità giuridica”, vale a dire del nesso che deve intercorrere tra evento di danno (nel caso de quo la cattiva installazione della cucina, evento da ritenersi acquisito in quanto “assorbito” nel dedotto e non confutato inadempimento) e le conseguenze di questo, ad esso legate da un rapporto di conseguenzialità immediata e diretta (art. 1223 cod. civ.).
Rispetto a tale ulteriore segmento della serie causale, non coperto dal descritto “assorbimento pratico”, la causalità ri-acquista autonomia di valutazione e rivive per esso l’onere probatorio della parte attrice, ex art. 2697 cod. civ., tenuta a dimostrare il fatto costitutivo della propria pretesa.
Nella specie, la Corte d’Appello si è correttamente attenuta a tale schema concettuale.
Non si trattava di provare che la cucina non fosse stata correttamente installata (e la Corte, come detto, ha anzi espressamente dato per acquisito l’inadempimento della convenuta); si trattava ben diversamente di provare che la dedotta inesatta installazione della cucina aveva causato l’incidente che ha determinato la lesione dell’integrità fisica dell’acquirente, interesse diverso e ulteriore rispetto a quello tutelato dal contratto.
Tale prova incombeva sull’attrice e la Corte ha ritenuto motivatamente che non fosse stata offerta.
Che questo fosse il corretto percorso logico-giuridico seguito dalla Corte di merito se ne mostra consapevole anche la ricorrente, là dove assume che tale conseguenza avrebbe dovuto considerarsi “materialmente inevitabile nel momento in cui si pulisce lo sportello del forno”, con ciò implicitamente prospettando che alla prova del nesso causale tra inadempimento ed evento dedotto si sarebbe dovuto pervenire in via presuntiva in forza della affermata inferenza.
Appare evidente però la natura meramente ipotetica e comunque fattuale dell’argomento, al quale non può riconoscersi dignità di critica cassatoria, tanto meno sotto il profilo del dedotto vizio di violazione di legge.
5. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 116 e 246 c.p.c. e dell’art. 2043 cod. civ., per avere la Corte d’Appello fondato la decisione in merito all’accertamento dei fatti sulla dichiarazione testimoniale del signor Si.Ni., ovvero la persona che aveva materialmente eseguito le opere contestate e che, come tale, avrebbe dovuto considerarsi incapace a testimoniare ex art. 246 c.p.c. in quanto portatore di un interesse che potrebbe legittimare la sua partecipazione al giudizio.
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6. Il motivo è inammissibile, per difetto di interesse, perché attiene
a passaggio motivazionale privo di effettivo rilievo ai fini della decisione.
Questa infatti, come detto, non è fondata sull’assunto che l’installazione della cucina fosse stata esattamente eseguita, al contrario dandosi per presupposto che sussistesse l’inadempimento della ditta al riguardo, quanto piuttosto sulla mancanza di prova di un nesso causale tra tale inadempimento e il danno dedotto. Anche espungendo, dunque, dal percorso motivazionale ogni riferimento alla deposizione del teste Si.Ni., tale fondamento argomentativo non ne rimarrebbe in alcun modo intaccato.
Per mera completezza, con riferimento alla dedotta (in rubrica) violazione dell’art. 2043 cod. civ. va rilevato che la ricorrente non tiene conto che la Corte di merito ha qualificato motivatamente l’azione proposta come contrattuale (v. sentenza p. 12) e tale statuizione non è stata specificamente contestata con il ricorso.
7. Con il quarto motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 91, 92 e 274 c.p.c. per avere la Corte d’Appello confermato la decisione del Tribunale di porre a carico di essa attrice le spese di lite sostenute da HD.It. in entrambi i gradi di giudizio, ritenendo che a tanto non ostasse la circostanza che questa fosse stata evocata dalla convenuta in separato giudizio, poi riunito, così dunque contravvenendo al principio di diritto secondo cui la riunione di cause connesse lascia inalterata l’autonomia dei giudizi per tutto quanto concerne la posizione assunta dalle parti in ciascuno di essi, con la conseguenza che gli atti e le statuizioni riferiti ad un processo non si ripercuotono sull’altro processo sol perché questo è stato riunito al primo.
8. Il motivo è infondato.
Secondo principio incontrastato nella giurisprudenza di questa Corte, che va qui ribadito, “anche quando la domanda principale e quella di garanzia del convenuto nei confronti di un terzo siano proposte in separati processi, di poi riuniti dal giudice dinanzi a cui siano pendenti, l’attore soccombente è legittimamente condannato al pagamento delle spese processuali anche nei confronti del chiamato in causa ad istanza del convenuto, se la chiamata si è resa necessaria in conseguenza della tesi sostenuta dall’attore e risultante infondata” (Cass. n. 3392 del 15/06/1979, Rv. 399817).
Non è incompatibile con tale principio quello evocato in ricorso, circa la persistente autonomia dei giudizi riuniti, la quale non è in alcun modo contraddetta dalla condanna dell’attore alle spese sostenute dalla compagnia evocata dal convenuto in separato giudizio per far valere il dedotto obbligo indennitario, trattandosi pur sempre di oneri dei quali il predetto convenuto ha diritto di essere tenuto indenne se e in quanto giustificati – e quindi causati – dalla infondata pretesa risarcitoria nei suoi confronti azionata dalla parte attrice.
9. Con il quinto motivo – rubricato “violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360, primo comma, num. 4, cod. proc. civ.” – la ricorrente denuncia, infine, vizio di omessa pronuncia sul motivo di appello con il quale essa aveva lamentato che il primo giudice non si fosse a sua volta pronunciato sulla domanda che REM aveva proposto contro la propria assicuratrice, nel giudizio poi riunito, volta all’accertamento dell’esistenza del contratto e della relativa copertura in relazione al sinistro de quo.
Rileva che, in assenza di accertamento circa l’effettiva copertura assicurativa, viene meno il presupposto che possa giustificare la condanna alla rifusione delle spese legali nei confronti di HD..
Rimarca in proposito che HD., citata da REM, costituendosi contestò la copertura assicurativa in relazione agli eventi per cui è causa producendo le condizioni di assicurazioni dalle quali risulta effettivamente che “l’assicurazione R.C.T. non comprende i danni… cagionati da opere ed installazioni in genere dopo l’ultimazione dei lavori o, qualora si tratti di operazioni di riparazione, manutenzione o posa in opera, quelli non avvenuti durante l’esecuzione dei lavori, nonché i danni cagionati da prodotti e cose in genere dopo la consegna a terzi”.
Danno extra-contrattuale: prova nesso causale necessaria
10. Il motivo è infondato.
Si ricava infatti chiaramente dalla motivazione della sentenza (v. pag. 18) che la Corte d’Appello si è espressamente ed esattamente rappresentata il motivo di gravame in questione e su di esso si è pronunciata nel senso della irrilevanza dell’accertamento richiesto ha infatti osservato che la condanna dell’attrice alla rifusione delle spese in favore di HD. era corretta, “a nulla rilevando il mancato accertamento della copertura assicurativa”.
11. La memoria che, come detto, è stata depositata dalla ricorrente, ai sensi dell’art. 380-bis.1, primo comma, cod. proc. civ., reitera le tesi censorie già esposte in ricorso e non offre argomenti che possano indurre a diverso esito dell’esposto vaglio dei motivi
12. Per le considerazioni che precedono il ricorso deve essere in definitiva rigettato, con la conseguente condanna della ricorrente alla rifusione, in favore delle controricorrenti, delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.
13. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13.
P.Q.M.
rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore delle controricorrenti, delle spese del presente giudizio, che liquida
a) in favore della R.E.M. Snc di Si.At. E C., in Euro 3.300 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge;
b) in favore della HD.As. Spa, in Euro 2.600 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del D.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma il 12 dicembre 2024.
Depositato in Cancelleria il 3 febbraio 2025.
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