Il danno biologico cd. terminale

Corte di Cassazione, sezione terza civile, Ordinanza 5 luglio 2019, n. 18056.

La massima estrapolata:

Il danno biologico cd. terminale è configurabile, e trasmissibile “iure successionis”, ove la persona ferita non muoia immediatamente, sopravvivendo per almeno ventiquattro ore, tale essendo la durata minima, per convenzione legale, ai fini dell’ apprezzabilità dell’invalidità temporanea, essendo, invece, irrilevante che sia rimasta cosciente.

Ordinanza 5 luglio 2019, n. 18056

Data udienza 21 febbraio 2019

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere

Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere

Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA
sul ricorso 16907/2017 proposto da:
(OMISSIS), in qualita’ di procuratore speciale di (OMISSIS) e (OMISSIS) rispettivamente padre e fratello della defunta (OMISSIS), nonche’ per (OMISSIS), in proprio e nella qualita’ di erede di (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), rispettivamente moglie e figli, elettivamente domiciliati in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che li rappresenta e difende;
– ricorrenti –
contro
(OMISSIS) COOP ARL, in persona del suo procuratore speciale Dott. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende;
(OMISSIS) SPA, in persona del legale rappresentante Dott. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende;
– controricorrenti –
e contro
(OMISSIS) SNC (OMISSIS), (OMISSIS);
– intimati –
avverso la sentenza n. 2282/2016 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 08/06/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21/02/2019 dal Consigliere Dott. MARCO ROSSETTI.

FATTI DI CAUSA

1. Il (OMISSIS) a (OMISSIS) si verifico’ un sinistro stradale che coinvolse:
(a) un autoveicolo Ford Fiesta, del quale erano comproprietari (OMISSIS) e (OMISSIS), condotto da quest’ultima, assicurato contro i rischi della responsabilita’ civile dalla (OMISSIS) coop. a r.l. (d’ora innanzi, “la Cattolica”), sul quale erano trasportati i coniugi (OMISSIS) e (OMISSIS) ed i loro due figli, (OMISSIS) e (OMISSIS);
(b) l’autobus Iveco di proprieta’ della societa’ (OMISSIS) s.n.c. (d’ora innanzi, “la (OMISSIS)”), assicurato contro i rischi della responsabilita’ civile dalla societa’ (OMISSIS) s.p.a. (poi divenuta (OMISSIS) s.p.a., e come tale d’ora innanzi sempre indicata).
Il sinistro consistette in un urto antero-posteriore tra l’autobus e l’autoveicolo, in prossimita’ d’uno svincolo autostradale.
2. In conseguenza dell’urto:
– (OMISSIS) (trasportato) pati’ lesioni personali;
– sua moglie ( (OMISSIS)) e i suoi due figli ( (OMISSIS) e (OMISSIS)), tutti trasportati, morirono.
3. Da questo sinistro scaturirono due processi.
Un primo giudizio venne introdotto dalla societa’ (OMISSIS) dinanzi al Tribunale di Arezzo, al fine di ottenere il risarcimento dei danni derivanti dal danneggiamento del mezzo di sua proprieta’, e si concluse con una sentenza definitiva della Corte d’appello di Firenze, che attribui’ a (OMISSIS) una responsabilita’ dell’80% nella causazione del sinistro, ed al conducente dell’autobus il restante 20%.
Il secondo giudizio e’ il presente, che venne introdotto nel 2005 dinanzi al Tribunale di Milano da (OMISSIS) (come s’e’ detto, trasportato sul veicolo Ford Fiesta, nonche’ marito e padre delle altre tre vittime), da (OMISSIS) e da (OMISSIS), che erano rispettivamente padre e fratello di (OMISSIS).
Gli ultimi due agirono per il tramite d’un rappresentante volontario, (OMISSIS).
Tutti costoro domandarono il risarcimento dei danni rispettivamente patiti tanto nei confronti del proprietario ((OMISSIS)) e dell’assicuratore ( (OMISSIS)) del veicolo antagonista (l’autobus); sia nei confronti dell’assicuratore del veicolo sul quale viaggiavano le vittime ( (OMISSIS)).
Tutti i convenuti si costituirono, contestando le rispettive responsabilita’.
In corso di causa venne chiamata in giudizio anche (OMISSIS), come s’e’ detto comproprietaria del veicolo Ford Fiesta.
4. Con sentenza 8 agosto 2010 n. 10535 il Tribunale di Milano attribui’ la responsabilita’ esclusiva del sinistro a (OMISSIS), conducente e comproprietaria dell’autoveicolo Ford Fiesta.
Accolse, di conseguenza, le domande attoree nei soli confronti di (OMISSIS) e della (OMISSIS).
5. La sentenza fu appellata in via principale dalla (OMISSIS), che si dolse sia dell’attribuzione alla propria assicurata ( (OMISSIS)) dell’intera responsabilita’ per l’accaduto, sia della stima dei danni, ritenuta eccessiva.
A questo processo fu attribuito il numero di ruolo 4621/10.
6. Con autonomo e successivo atto d’appello (da qualificare quindi come appello incidentale) la sentenza di primo grado fu appellata altresi’ da (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), i quali domandarono:
-) l’attribuzione anche alla (OMISSIS) ed al suo assicuratore di un concorso di colpa;
-) la condanna della (OMISSIS) oltre il massimale assicurato, per mala gestio;
-) l’accoglimento della domanda di risarcimento del danno patrimoniale proposta da (OMISSIS), e consistito:
– -) nella perdita della capacita’ di lavoro;
– -) nella perdita dell’apporto economico della moglie, e di quello che avrebbe ricevuto dai figli;
-) l’incremento della stima del danno non patrimoniale patito da tutti e tre gli appellanti.
A questo processo fu attribuito il numero di r.g. 4700/10.
In questo secondo processo la (OMISSIS), che aveva gia’ proposto appello principale, si costitui’ e propose appello incidentale, reiterando le censure gia’ proposte su an e quantum, e invocando il limite del massimale.
7. Riuniti i due appelli, con sentenza 8.6.2016 n. 2282 la Corte d’appello di Milano:
-) attribui’ a (OMISSIS), conducente dell’autoveicolo, un concorso di colpa dell’80%, mentre attribui’ al conducente dell’autobus il restante 20% di responsabilita’;
-) rigetto’ la domanda di risarcimento del danno patrimoniale da perdita della capacita’ di lavoro proposta da (OMISSIS), sul presupposto che questi non avesse provato l’entita’ del reddito percepito al momento dell’infortunio; rigetto’ altresi’ le richieste istruttorie formulate dal danneggiato, reputandole “del tutto generiche, non contenendo se non la sola indicazione della retribuzione percepita all’epoca”;
-) rigetto’ la domanda di risarcimento del danno patrimoniale proposta da (OMISSIS), e concernente la perdita del contributo economico da parte della moglie ed, in futuro, dei figli, ritenendola non provata;
-) ritenne corretta la stima del danno biologico patito da (OMISSIS) compiuta dal primo giudice (che lo aveva liquidato in Euro 50.000); ritenne in particolare la Corte d’appello che tale valutazione fosse corretta osservando che “non si e’ in presenza di una lesione comportante una incidenza sulla complessiva integrita’ psicofisica del danneggiato quanto di una lesione comportante la riduzione della capacita’ lavorativa dell’interessato”;
-) nego’ che (OMISSIS), figlia del ricorrente sopravvissuta per tre giorni al sinistro, avesse acquisito in vita e trasmesso al padre il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale patito nel periodo di sopravvivenza, a causa della brevita’ dello stesso;
-) per quanto riguarda il danno non patrimoniale da uccisione dei prossimi congiunti, la Corte d’appello lo liquido’ come segue:
– -) assunse a base di calcolo i criteri uniformi adottati dal Tribunale di Milano (c.d. “Tabelle”) del 2010;
– -) devaluto’ i valori delle tabelle del 2010 “per praticita’ di calcolo” alla data del sinistro (2003);
– -) in considerazione del fatto che (OMISSIS) aveva perso contestualmente l’intero nucleo familiare, aumento’ il risarcimento del 25%;
-) rigetto’ la domanda di mala gestio nei confronti “della societa’ assicuratrice” (non si precisa, in sentenza, quale delle due societa’ convenute) sul presupposto che “la particolarita’ dell’evento imponeva una valutazione ponderata del caso”, e che di conseguenza il ritardo dell’assicuratore nell’adempimento delle proprie obbligazioni non fosse ingiustificato.
8. La sentenza d’appello e’ stata impugnata per cassazione da (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), con un ricorso unitario basato formalmente su cinque motivi, contenenti pero’ plurime censure.
Hanno resistito con controricorso sia la (OMISSIS) che la (OMISSIS), la quale ha altresi’ depositato memoria ai sensi dell’articolo 380 bis.1 c.p.c..

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso.
1.1. Il primo motivo di ricorso e’ riferibile alla posizione del solo (OMISSIS) .
Con tale motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 4, che la sentenza sia nulla in quanto poggiante su una motivazione “irrazionale e contraddittoria”, e che di conseguenza l’articolo 132 c.p.c., comma 2, n. 4, sia stato violato.
Il motivo, se pur formalmente unitario, contiene tre censure.
1.2. Con una prima censura (pp. 9-14 del ricorso) (OMISSIS) lamenta che la Corte d’appello avrebbe rigettato la sua domanda di risarcimento del danno patrimoniale da perdita della capacita’ lavorativa adottando una motivazione tautologica, e percio’ nulla.
Espone che la Corte d’appello ha rigettato la sua domanda di risarcimento del danno non patrimoniale da perdita della capacita’ di lavoro ritenendola non provata.
Deduce, in contrario, che:
(-) egli era un operaio, e che tale circostanza era stata provata attraverso il deposito, avvenuto nei gradi di merito, della certificazione previdenziale e di una lettera del datore di lavoro;
(-) a causa del triplice lutto familiare aveva patito una grave sindrome neurologica (“disturbo depressivo maggiore”), e tale circostanza era emersa dalla consulenza tecnica d’ufficio.
Dinanzi a questi elementi di fatto – prosegue il ricorrente – la Corte d’appello “avrebbe dovuto fare ricorso alla prova presuntiva” per liquidare il danno patrimoniale da perdita del reddito da lavoro, ovvero applicare il criterio del triplo dell’assegno sociale.
Conclude il ricorrente osservando che il mancato ricorso all’una od all’altro, da parte della Corte d’appello, costituirebbe una “motivazione tautologica”.
1.2.1. La censura e’ infondata.
La motivazione della sentenza impugnata esiste ed e’ limpida: l’attore, sul quale incombeva il relativo onere, non ha dimostrato il proprio reddito.
Si tratta d’una motivazione non solo ben chiara, ma anche ineccepibile.
Infatti colui il quale assume che, in conseguenza d’un fatto illecito, ha perduto in tutto od in parte il proprio reddito da lavoro, ha l’onere di provare quale fosse tale reddito.
In mancanza di tale prova, a poco serve invocare l’indiscussa esistenza tanto d’una invalidita’ permanente, quanto della sua derivazione causale dal fatto illecito: per l’ovvia ragione che la vittima d’un fatto illecito ha l’onere di provare non solo l’esistenza del danno, ma anche il suo ammontare.
1.2.2. Tanto meno la motivazione della sentenza puo’ dirsi “tautologica” sol perche’ il giudice di merito non abbia fatto ricorso alla prova presuntiva invocata da una delle parti, od al criterio sussidiario del triplo dell’assegno sociale, come invocato dal ricorrente (p. 14 del ricorso).
In primo luogo, infatti, la motivazione con la quale il giudice di merito affermi non esservi prova d’un fatto fondativo della domanda (nel nostro caso, la misura del reddito perduto dalla vittima) non e’ tautologica: si ha infatti tautologia quando una affermazione non faccia che replicare nel predicato quanto gia’ detto nel soggetto.
L’affermazione “rigetto la domanda perche’ non ho la prova del danno” non e’ dunque tautologica, in quanto in essa la causa (mancanza di prova) e l’effetto (rigetto della domanda) non si identificano.
Va da se’ che lo stabilire, poi, se sia stata corretta o scorretta la valutazione con cui il giudice di merito ha escluso la sussistenza della prova del reddito percepito dalla vittima, esula dal perimetro del sindacato di legittimita’.
Non sara’ tuttavia superfluo rilevare come lo stesso ricorrente, pur nel contesto di un ricorso assai prolisso, non sia stato mai in grado di indicare quale fosse davvero il suo reddito, e come fosse stato dimostrato: mare verborum, gutta rerum.
1.2.3. In secondo luogo, la scelta del giudice di merito di fare o non fare ricorso alla prova presuntiva e’ insindacabile in sede di legittimita’, e comunque quella scelta potrebbe essere censurata al massimo come omesso esame d’un fatto decisivo – nella ricorrenza degli altri presupposti di legge -, non certo assumendo che il mancato ricorso alla prova presuntiva sia causa di nullita’ della sentenza.
1.2.4. In terzo luogo, non pertinente e’ il richiamo al criterio del triplo della pensione sociale (oggi assegno sociale), di cui all’articolo 137 cod. ass..
Tale criterio, infatti e’ alternativo (e non “residuale”, come preteso dal ricorrente), in quanto dettato dalla legge per disciplinare i casi in cui la vittima non abbia un reddito, e non certo per sopperire alle negligenze istruttorie delle parti o dei loro procuratori (ex multis, Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 8896 del 04/05/2016, Rv. 639896 – 01; Sez. 3, Ordinanza n. 25370 del 12/10/2018, Rv. 651331 – 01).
2. Con la seconda censura (pp. 15-17 del ricorso) inglobata nel primo motivo il ricorrente (OMISSIS) si duole del rigetto della sua domanda di risarcimento del danno patrimoniale, consistito nella perdita dell’apporto economico a lui fornito dall’attivita’ lavorativa della moglie.
Deduce che la moglie lavorava come collaboratrice domestica “in nero”, e che di conseguenza non era in grado di documentare i redditi della scomparsa; che aveva chiesto di provare per testimoni l’ammontare di tali redditi, ma tale richiesta era stata ingiustificatamente rigettata; che avrebbe avuto comunque diritto al risarcimento del danno consistito quanto meno nella perdita dell’utilita’ preveniente dal lavoro domestico svolto anche in suo favore dalla moglie deceduta; che, in ogni caso, la prova dell’esistenza dello svolgimento di lavoro domestico da parte della persona scomparsa in favore di esso ricorrente poteva desumersi in via presuntiva dal fatto che la vittima primaria ed i suoi familiari erano di nazionalita’ rumena, e che nella loro cultura “alla donna viene affidato in via esclusiva il compito di gestione di tutte le faccende domestiche”.
2.1. Nella parte in cui lamenta il rigetto della prova testimoniale intesa a dimostrare l’apporto economico della scomparsa in favore del ricorrente, la censura e’ inammissibile ai sensi dell’articolo 366 c.p.c., n. 6.
Denunciare, infatti, l’illegittimo rigetto della richiesta d’una prova testimoniale da parte del giudice di merito e’ un motivo di ricorso che, per usare le parole della legge, “si fonda” sull’atto processuale contenente la richiesta istruttoria del cui mancato esame il ricorrente si duole.
Quando il ricorso si fonda su atti processuali, il ricorrente ha l’onere di “indicarli in modo specifico” nel ricorso, a pena di inammissibilita’ (articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 6).
“Indicarli in modo specifico” vuol dire, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte:
(a) trascriverne il contenuto, oppure riassumerlo in modo esaustivo;
(b) indicare in quale fase processuale siano stati prodotti;
(c) indicare a quale fascicolo siano allegati, e con quale indicizzazione (in tal senso, ex multis, Sez. 6 – 3, Sentenza n. 19048 del 28/09/2016; Sez. 5, Sentenza n. 14784 del 15/07/2015; Sez. U, Sentenza n. 16887 del 05/07/2013; Sez. L, Sentenza n. 2966 del 07/02/2011).
Di questi tre oneri, il ricorrente non ne ha assolto alcuno. Il ricorso, infatti, non riassume ne’ trascrive il contenuto delle richieste istruttorie; ne’ indica con quale atto ed in quale fase processuale siano state formulate; ne’ indica in quale fascicolo e con quale indicizzazione si trovi allegato l’atto suddetto.
2.2. Nella parte in cui lamenta il mancato ricorso, da parte del giudice di merito, alla prova presuntiva per ritenere dimostrato lo svolgimento di lavoro domestico da parte della scomparsa, il motivo e’ parimenti inammissibile.
Il giudizio sulla sussistenza dei presupposti per il ricorso alla prova presuntiva; sulla gravita’, precisione e concordanza degli indizi che la giustificano; sulla sufficienza della prova presuntiva; forma oggetto di altrettanti apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito e non sindacabili in sede di legittimita’ (ex multis, Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 1234 del 17/01/2019, Rv. 652672 – 01; Sez. 5, Sentenza n. 8315 del 04/04/2013, Rv. 626129 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 237 del 10/01/1995, Rv. 489602 – 01).
3. Con la terza censura contenuta nel primo motivo di ricorso, infine, il ricorrente si duole del rigetto della propria domanda di risarcimento del danno patrimoniale patito, in tesi, in conseguenza della perdita dei due figli minorenni.
Il ricorrente muove dall’assunto che i due figli minori, se fossero restati in vita, una volta raggiunta l’eta’ adulta avrebbero economicamente sovvenuto l’anziano genitore; deduce che erroneamente la Corte d’appello avrebbe ritenuto non provata l’esistenza di questo pregiudizio; sostiene che l’esistenza di esso si sarebbe dovuta ritenere dimostrata in base alla considerazione che secondo gli usi e costumi rumeni, “contrariamente ai costumi italiani”, le relazioni familiari sono fondate sulla mutua cooperazione “ma sempre nel rigido rispetto dei ruoli e dei gradi”, con la conseguenza che la Corte d’appello avrebbe dovuto ritenere verosimile che “i figli, educati secondo i dettami della tradizione su riferita, non appena ne fossero stati in grado, avrebbero contribuito economicamente ai bisogni della famiglia”.
3.1. Anche questa terza censura non sfugge al vizio delle prime due: ovvero che il ricorrente prospetta come “motivazione insanabilmente contraddittoria” quella che fu, piu’ semplicemente, una motivazione a lui non gradita.
La Corte d’appello, infatti, ha rigettato la domanda in esame con una motivazione di inequivoco tenore: ovvero che “per quanto attiene al danno per mancata percezione del contributo economico da parte (…) in futuro dei figli (…) non vi e’ stata prova di nessun genere”.
La Corte d’appello ha dunque ritenuto non provato che i figli della vittima, se fossero sopravvissuti e divenuti adulti, avrebbero contribuito economicamente al sostentamento del padre.
Il ricorrente si duole di questa valutazione sostenendo che la Corte d’appello avrebbe dovuto prendere in esame le circostanze di fatto rappresentate dalla nazionalita’ e dai costumi sociali delle vittime: ma questa, com’e’ evidente, costituisce una censura che investe la valutazione delle prove e il giudizio prognostico sulla probabile esistenza futura del danno, e cioe’ apprezzamenti di puro fatto, riservati al giudice di merito.
4. Il secondo motivo di ricorso.
4.1. Anche col secondo motivo il ricorrente, da un punto di vista formale, invoca la nullita’ della sentenza ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 4, per violazione dell’articolo 132 c.p.c., comma 2, n. 4, ovvero per inesistenza della motivazione.
L’illustrazione del motivo contiene tuttavia due distinte censure.
4.2. Con una prima censura il ricorrente investe la stima del danno biologico compiuta dalla Corte d’appello.
Espone che, in conseguenza della commorienza della moglie e dei due figli, aveva patito una malattia psichica; che l’esistenza di tale malattia era stata accertata dal consulente tecnico d’ufficio nominato dal Tribunale, e che la suddetta malattia aveva lasciato postumi permanenti stimati dall’ausiliario del giudice in misura pari ad una compromissione del 50% della complessiva validita’ dell’individuo. Soggiunge che, in applicazione dei criteri uniformi per la stima del danno alla salute adottati dal Tribunale adito (le c.d. tabelle milanesi), un’invalidita’ di tale grado, in un soggetto della sua eta’ (31 anni al momento del fatto), si sarebbe dovuta monetizzare con la somma di 361.920 Euro, mentre il Tribunale aveva ritenuto di liquidare il danno alla salute patito dall’odierno ricorrente in soli 50.000 Euro.
Soggiunge che la Corte d’appello, chiamata a stabilire se tale valutazione del Tribunale fosse stata corretta, rispose in modo affermativo, osservando: “non si e’ in presenza di una lesione comportante una incidenza sulla complessiva integrita’ psicofisica del danneggiato, quanto di una lesione comportante la riduzione della sola capacita’ lavorativa dell’interessato.
Per quanto (…) tale lesione non abbia comportato un danno patrimoniale, non puo’ negarsi che da essa possa derivare un maggiore sforzo per il danneggiato nel conseguire in futuro lo stesso reddito che egli conseguiva o poteva conseguire in precedenza”.
Conclude il ricorrente sostenendo che tale motivazione non sia intelligibile, in quanto pur ammettendo in fatto l’esistenza della malattia psichica, nega che essa abbia inciso “sulla complessiva integrita’ psicofisica dell’individuo”, ne’ ha liquidato il pur accertato danno alla salute in base ai criteri comunemente adottati dalla giurisprudenza di merito.
4.3. Il motivo e’ fondato.
Il passo della sentenza d’appello trascritto al § che precede non e’, infatti, razionalmente comprensibile, sotto due diversi aspetti.
4.4. In primo luogo e’ inesplicabile, su piano della logica formale, l’affermazione secondo cui nel caso di specie non si sarebbe “in presenza di una lesione comportante una incidenza sulla complessiva integrita’ psicofisica del danneggiato, quanto di una lesione comportante la riduzione della sola capacita’ lavorativa dell’interessato”.
Tale affermazione, infatti, proclama la possibile autonomia di due concetti (la validita’ fisica e la capacita’ lavorativa) che sono invece legati, per secolare insegnamento della medicina legale, da un nesso di implicazione unilaterale.
Come noto, il danno alla salute o danno biologico consiste nelle conseguenze non patrimoniali derivanti da una lesione dell’integrita’ psicofisica, suscettibile di accertamento medico-legale.
Le conseguenze d’una lesione dell’integrita’ psicofisica, non aventi ripercussioni patrimoniali, sono quelle che incidono sulla validita’ dell’individuo.
La validita’ dell’individuo e’ la sua efficienza sociale, ovvero l’idoneita’ a svolgere una qualsiasi attivita’ – lavorativa o meno – coerente con la sua eta’, il suo sesso, le sue conoscenze.
Fra le infinite attivita’ che un individuo valido e’ in grado di svolgere vi e’ il lavoro produttivo di reddito.
L’idoneita’ a svolgere un lavoro remunerato e’ anche definita efficienza lavorativa, la quale si inscrive, come circonferenza di minor raggio, nella generale efficienza sociale di cui s’e’ appena detto.
Essa e’ tradizionalmente designata come capacita’ o abilita’, lemmi che etimologicamente esprimono l’idea dell’homo habilis, ovvero dell’individuo in grado di manipolare il mondo esterno per trarne un vantaggio.
Ecco spiegata la ragione per la quale i concetti di validita’ (biologica) e di capacita’ (lavorativa) si sono detti, poc’anzi, vincolati da un nesso di implicazione unilaterale: la capacita’ lavorativa presuppone infatti la, e si fonda sulla, validita’ biologica, mentre non e’ vera la reciproca.
Una persona invalida potra’ infatti pur sempre conservare una residua capacita’ di lavoro (si pensi ad un lavoratore sedentario che patisca l’amputazione d’un arto inferiore); mentre una persona divenuta inabile al lavoro, nel senso sopra indicato, e’ per cio’ solo biologicamente invalida.
I concetti appena riassunti costituiscono insegnamento risalente e consolidato della medicina-legale.
Sostenere, pertanto, che la vittima d’un trauma psichico (la Corte d’appello riferisce espressamente dell’esistenza d’una “lesione”) non abbia patito un danno alla salute, ma abbia patito una riduzione della capacita’ di lavoro, e’ affermazione insanabilmente contraddittoria, in quanto postula l’esistenza dell’effetto (la perdita della capacita’) dopo aver negato l’esistenza della causa (l’invalidita’).
4.5. La motivazione sopra trascritta, oltre che insanabilmente illogica per quanto appena detto, presenta poi un secondo ed indipendente profilo di nullita’: ovvero l’inintelligibilita’ della ratio che la sottende.
La Corte d’appello, infatti, era chiamata a stabilire se fosse stata corretta o sbagliata la decisione con cui il Tribunale stimo’ nella misura di 50.000 Euro il danno alla salute psichica patito dall’attore.
Per la stima di tale danno, nel corso del giudizio di primo grado era stato nominato un consulente tecnico medico-legale, cui venne chiesto di stabilire se (OMISSIS) avesse patito un danno alla salute permanente, e di che entita’.
Il consulente tecnico medico-legale, anche sulla scorta del parere d’un ausiliario psicologo, concluse che la vittima, in conseguenza della perdita contemporanea della moglie e dei due figli, aveva patito un “disturbo depressivo maggiore cronico”, e che questa malattia comportava una riduzione della validita’ biologica del 50%.
La Corte d’appello, nonostante queste conclusioni, ha tuttavia negato che la lesione patita da (OMISSIS) “comportasse una incidenza sulla complessiva integrita’ psicofisica del danneggiato”.
Ora, se e’ indubbio che la Corte d’appello non era affatto vincolata alle conclusioni del consulente, e restava sovrana nel decidere di disattenderle, non e’ men vero che una scelta di quest’ultimo tipo avrebbe richiesto una adeguata esposizione delle ragioni che la giustificavano.
La motivazione adottata dalla Corte d’appello, e sopra trascritta, genera invece nel lettore un irresolubile dubbio buridaneo, giacche’ delle due l’una:
-) se la Corte d’appello avesse inteso disattendere le conclusioni del c.t.u., nella parte in cui ha ritenuto che (OMISSIS) fosse invalido al 50%, essa non ha esposto le ragioni di tale dissenso;
-) se, al contrario, la Corte d’appello avesse inteso condividere le conclusioni del consulente d’ufficio, essa non ha esposto le ragioni per le quali non ha liquidato il danno biologico in coerenza con le indicazioni dell’ausiliario.
Nell’uno, come nell’altro caso, la sentenza non sfuggirebbe ad un severo giudizio di nullita’: per” mancanza totale di motivazione sinanche come segno grafico nella prima ipotesi; per insanabile contraddittorieta’ nella seconda ipotesi.
4.6. La sentenza impugnata va dunque cassata sotto questo aspetto, con rinvio al giudice di merito, il quale nell’esaminare il corrispondente motivo d’appello di (OMISSIS), sanera’ le mende motivazionali sopra rilevate, ed in particolare:
-) valutera’ se condividere o meno la relazione di consulenza d’ufficio nella parte in cui afferma esistere un danno psichico, e che questo abbia comportato una invalidita’ permanente pari al 50% (valutazione, quest’ultima, che e’ mancata nella sentenza impugnata, e che si imporra’ anche alla luce dell’evidente iato tra la gravita’ del caso e lo scarno approfondimento clinico compiuto dal consulente d’ufficio e dal suo ausiliario sul piano dell’indagine psicologica);
-) in caso di dissenso dalla consulenza, esporra’ le ragioni della propria scelta;
-) in caso di condivisione della consulenza, esporra’ i criteri di monetizzazione del danno alla salute.
Resta solo da aggiungere, per maggior chiarezza ed a prevenzione di eventuali qui pro quo in sede di rinvio, che l’invalidita’ biologica di cui s’e’ appena detto puo’ scaturire tanto da una lesione fisica, quanto da una lesione psichica. L’una e l’altra costituiscono infatti, dal punto di vista giuridico, un “danno biologico”. Il c.d. “danno psichico” non e’ un pregiudizio diverso dal danno biologico: e’, piu’ semplicemente, un danno biologico consistente nella alterazione o soppressione delle facolta’ mentali. Si tratta dunque d’una categoria descrittiva e non giuridica, cosi’ come – ad esempio -, se si parlasse di “danno neurologico” o di “danno cardiovascolare”.
Anche il danno psichico, pertanto, come qualsiasi altra lesione della salute, va accertato in corpore con criteri medico-legali, e va valutato in punti percentuali in base ad un accreditato bareme medico-legale. Ove, poi, una lesione della salute psichica venga a cumularsi con un evento stressogeno quale il lutto, spettera’ al giudice di merito stabilire in concreto se il dolore causato dalla perdita d’un familiare sia o non sia degenerato in una sindrome di rilievo neurologico: accertamento, quest’ultimo, da compiere con metodo accurato e scientificamente valido, consistente nel far somministrare al danneggiato adeguati test psicologici; nel farlo sottoporlo a reiterati colloqui con uno specialista psichiatra; e finalmente nel comparare la sintomatologia presentata dalla vittima con le descrizioni nosografiche delle malattie psichiche contenute nei testi scientifici, e principalmente nell’universalmente utilizzato Diagnostic and Statiscal Manual of Mental Disorders, o “DSM-5”.
Nel compiere tali operazioni, il giudice di merito ovviamente dovra’ astenersi sia dal ritenere che la stima del danno morale causato dalla morte d’un congiunto possa ristorare di per se’ anche l’eventuale malattia psichica patita dal superstite; sia – all’opposto dall’indulgere a frettolose “panpsichiatrizzazioni” d’ogni moto dell’animo, pervenendo a concludere che qualsiasi turbamento costituisca per cio’ solo un danno alla salute.
4.7. La seconda delle censure contenute nel secondo motivo di ricorso e’ riferibile a tutti e tre i ricorrenti.
Con essa i ricorrenti lamentano che la Corte d’appello avrebbe sottostimato il danno non patrimoniale da loro rispettivamente sofferto in conseguenza della morte dei rispettivi congiunti.
Si dolgono del fatto che la Corte d’appello avrebbe posto a base del risarcimento un valore intermedio, tra quello minimo a quello massimo previsto dalla c.d. tabella milanese per la stima del danno non patrimoniale derivante dall’uccisione d’un prossimo congiunto. Sostengono che tale scelta fu erronea, perche’ nel caso di specie ricorrevano tutte e tre le circostanze suggerite “dall’Osservatorio di Milano” per aumentare l’aestimatio del danno in questione, e cioe’ l’assenza di altri familiari superstiti, la convivenza tra vittima e superstite, la giovane eta’ delle vittime.
4.8. Il motivo e’ inammissibile.
Lo stabilire, infatti, quale sia il “prezzo del dolore” patito da chi abbia perso un prossimo congiunto e’ una valutazione di puro fatto, riservata al giudice di merito: lo ammette, del resto, la difesa degli stessi ricorrenti, la quale a pagina 23, ultimo capoverso, del ricorso, si lascia andare freudianamente alla seguente affermazione: “e’ evidente che la Corte d’appello non abbia correttamente valutato come nel caso in esame esistessero tutti i requisiti (…) per giustificare la liquidazione nella forma massima dei valori stabiliti dalle tabelle”.
Inoltre, i ricorrenti non espongono a quale diverso risultato, ed attraverso quali diversi criteri di calcolo, sarebbe dovuta pervenire la Corte d’appello, per decidere conformemente a diritto, ne’ indicano in violazione dell’articolo 366 c.p.c., n. 6, – dove e quando, nei gradi di merito, abbiano dedotto le circostanze prospettate con la censura qui in esame.
5. Il terzo motivo di ricorso.
5.1. Col terzo motivo tutti e tre i ricorrenti lamentano che la sentenza impugnata sia da un lato nulla, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 4; e dall’altro lato violi, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3, gli articoli 1226, 1227, 2043, 2056 e 2059 c.c..
Lamentano che la Corte d’appello abbia erroneamente applicato, per liquidare nell’anno 2016 il danno non patrimoniale da essi patito, le tabelle diffuse dal Tribunale di Milano nell’anno 2010, nonostante sin dal 2014 queste tabelle fossero state aggiornate, e gli importi ivi previsti aumentati.
5.2. Il motivo e’ fondato, nella parte in cui lamenta la violazione dell’articolo 1226 c.c..
Questa Corte ha gia’ stabilito che, quando la legge non detti criteri per la liquidazione del danno non patrimoniale, questo non possa che avvenire in via equitativa.
La liquidazione equitativa e’ imposta in tali casi dall’articolo 1226 c.c.; ma l’equita’ di cui alla norma suddetta non costituisce una aequitas rudis, ma una ben piu’ articolata nozione (la ETCLEIKEUX aristotelica), i cui fondamenti sono due: l’adeguata considerazione delle specificita’ del caso concreto, e la garanzia della parita’ di trattamento a parita’ di danno (cosi’ Sez. 3, Sentenza n. 12408 del 07/06/2011, in motivazione).
Al solo fine di garantire il secondo dei suddetti requisiti, e non per altre ragioni, questa Corte ha indicato nei criteri uniformi applicati dal Tribunale di Milano il criterio idoneo a garantire la parita’ di trattamento: con la conseguenza che il giudice di merito, per garantire la correttezza della liquidazione equitativa ex articolo 1226 c.c., dovra’ applicare in linea di massima quel criterio, a meno che non indichi le ragioni per le quali, nel caso concreto, quel criterio risulterebbe iniquo.
5.3. Corollario di tale principio e’ che, se nelle more del giudizio il criterio indicato da questa Corte come idoneo a garantire la parita’ di trattamento venga a mutare, il giudice di merito dovra’ liquidare il danno in base ai nuovi criteri condivisi e generalmente applicati al momento della decisione, e non in base a criteri risalenti ed oramai abbandonati (ex multis, Sez. 3 -, Sentenza n. 24155 del 04/10/2018, Rv. 650934 – 02; Sez. 3 -, Ordinanza n. 22265 del 13/09/2018, Rv. 650595 – 01;Sez.3 -, Sentenza n. 25485 del 13/12/2016, Rv. 642330 – 01;Sez.3 -, Sentenza n. 21245 del 20/10/2016 (Rv. 642948- 01),salva l’ipotesi in cui il debitore, al momento della decisione, non abbia gia’ adempiuto spontaneamente la propria obbligazione: in tal caso soltanto l’esattezza dell’adempimento va valutata in base al criterio di liquidazione generalmente applicato al momento della solutio spontanea, e non al momento – successivo della decisione sulla esattezza dell’adempimento (Sez. 3 -, Sentenza n. 5013 del 28/02/2017, in motivazione).
5.4. I rilievi che precedono non sono superati dalle deduzioni svolte dalla controricorrente (OMISSIS), alle pp. 22-26 del proprio controricorso. Ivi la (OMISSIS) ha eccepito che:
-) il motivo sarebbe inammissibile, perche’ il ricorrente non ha indicato a quale diverso e piu’ vantaggioso risultato sarebbe pervenuta la decisione, se avesse fatto applicazione dei diversi e piu’ aggiornati criteri da lui invocati;
-) in ogni caso questa Corte avrebbe gia’ stabilito che e’ consentito al giudice d’appello liquidare il danno non patrimoniale in base ai criteri giurisprudenziali “vigenti” alla data della decisione di primo grado, anche quando tali criteri siano mutati prima della conclusione del giudizio d’appello. Invoca, al riguardo, la decisione pronunciata da Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 1305 del 25.1.2016.
5.4.1. La prima delle suddette eccezioni e’ infondata.
La giurisprudenza di merito comincio’ a diffondere i suoi criteri uniformi per la stima del danno non patrimoniale da lesione della salute o da morte nel 1974 (Tribunale di Genova); seguito nel 1982 dal Tribunale di Pisa, nel 1995 dal Tribunale di Milano, e poi via via da tutti gli altri uffici giudiziari. Tali criteri sono stati nel corso degli anni ora abbandonati, ora aggiornati, ora modificati: ma mai le fonti di cognizione della giurisprudenza di merito (banche dati, riviste e repertori) hanno fatto registrare, in quarantacinque anni, una evoluzione riduttiva dei suddetti criteri, i quali sono andati sempre crescendo.
Costituisce, pertanto, nozione di fatto rientrante nella comune esperienza, non impedita a questa Corte, quella secondo cui l’aggiornamento periodico delle tabelle giurisprudenziali per la stima del danno non patrimoniale comporta un innalzamento dei valori ivi previsti. Sarebbe stato, dunque, onere della controricorrente (OMISSIS) dedurre, e dimostrare, che solo nel 2016 il Tribunale di Milano avrebbe deciso di diffondere nuove tabelle, riduttive dei risarcimenti per l’innanzi liquidati.
5.4.2. La seconda delle suddette eccezioni e’, del pari, infondata.
Si e’ gia’ dato conto dei precedenti con cui questa Corte ha ripetutamente affermato il principio secondo cui il giudice d’appello, quando debba liquidare un danno non patrimoniale con criteri pretori, debba tenere conto degli aggiornamenti medio tempore sopravvenuti dopo la decisione di primo grado.
Non contrasta con tali decisioni il precedente invocato dalla controricorrente (OMISSIS) (come s’e’ detto, Cass. 1305/16, cit.), il quale aveva ad oggetto una fattispecie ben diversa rispetto a quella oggi in esame.
Nel caso deciso da quell’ordinanza, infatti, l’appellante aveva chiesto alla Corte d’appello unicamente di stabilire se il giudice di primo grado avesse o non avesse liquidato il danno non patrimoniale in base a tabelle aggiornate: questo soltanto era l’oggetto di quel giudizio, sicche’ la Corte d’appello, una volta accertato che il Tribunale aveva utilizzato le ultime tabelle rilasciate prima del momento della decisione di primo grado, null’altro aveva da stabilire, ne’ le venne chiesto dall’appellante di applicare tabelle piu’ recenti rispetto a quelle utilizzate dal giudice di primo grado.
6. Il quarto motivo di ricorso.
6.1. Il quarto motivo di ricorso e’ riferibile al solo (OMISSIS) .
Con esso il ricorrente lamenta, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli articoli 1226, 1227, 2043, 2056 e 2059 c.c..
Sostiene che erroneamente la Corte d’appello avrebbe rigettato la sua domanda di risarcimento del danno non patrimoniale patito dalla propria figlia (OMISSIS) nei tre giorni di sopravvivenza intercorsi fra il sinistro e la morte, danno il cui credito risarcitorio, sorto in capo alla piccola vittima, sarebbe stato da lui acquistato jure haereditario.
Assume che la Corte d’appello non avrebbe “fornito alcuna seria risposta” alla relativa domanda; che il risarcimento del danno in esame spetta alla vittima – e, per essa, ai suoi eredi – in tutte i casi in cui vi sia stato un apprezzabile lasso di tempo tra il ferimento e la morte; che nel caso di specie una sopravvivenza di tre giorni doveva ritenersi “apprezzabile”.
6.1.1. La controricorrente societa’ (OMISSIS) ha eccepito l’inammissibilita’ del motivo, per novita’ della questione in essa prospettata.
L’eccezione e’ infondata: avendo infatti la Corte d’appello deciso su tale domanda (p. 8 della sentenza d’appello), non si vede come essa possa ritenersi “nuova” e formulata in questa sede per la prima volta. Ove, poi, la (OMISSIS) a p. 27 del proprio controricorso avesse inteso dolersi (il controricorso non e’ del tutto chiaro su questo punto) che la domanda di risarcimento del danno patito da (OMISSIS), ed il cui credito fu acquisito jure haereditario dal padre, non era stata prospettata nemmeno in primo grado, essa avrebbe dovuto proporre un ricorso incidentale condizionato, inteso a censurare l’ultrapetizione in cui, in tesi, sarebbe incorsa la Corte d’appello.
6.2. Nel merito, il quarto motivo di ricorso e’ fondato, ma l’esame di esso impone una premessa di metodo.
La tragica eventualita’ in cui una persona venga dapprima ferita in conseguenza d’un fatto illecito, ed in seguito muoia a causa delle lesioni, e’ stata in passato designata con varie espressioni, coniate dalla troppo fervida fantasia di taluni interpreti, e talora non rifiutate da questa Corte (“danno terminale”, “danno tanatologico”, “danno catastrofale”, “danno esistenziale”).
Queste espressioni non hanno alcuna dignita’ scientifica; sono usate in modo polisemico; sono talora anche etimologicamente scorrette (come l’espressione “danno tanatologico”).
L’impiego di lemmi dal contenuto cosi’ ambiguo ingenera somma confusione ed impedisce qualsiasi seria dialettica, dal momento che ogni discussione scientifica e’ impossibile in assenza d’un lessico condiviso.
L’esigenza del rigore linguistico come metodo indefettibile nella ricostruzione degli istituti e’ stata gia’ segnalata dalle Sezioni Unite di questa Corte, allorche’ hanno indicato, come precondizione necessaria per l’interpretazione della legge, la necessita’ di “sgombrare il campo di analisi da (…) espressioni sfuggenti ed abusate che hanno finito per divenire dei mantra ripetuti all’infinito senza una preventiva ricognizione e condivisione di significato (…), (che) resta oscuro e serve solo ad aumentare la confusione ed a favorire l’ambiguita’ concettuale nonche’ la pigrizia esegetica” (sono parole di Sez. U, Sentenza n. 12310 del 15/06/2015).
L’esame del quarto motivo di ricorso esige dunque, preliminarmente, la messa a fuoco di alcuni concetti fondamentali nella materia del danno non patrimoniale da uccisione.
6.3. La persona che, ferita, sopravviva quodam tempore, e poi muoia a causa delle lesioni sofferte, puo’ patire un danno non patrimoniale. Questo danno puo’ teoricamente manifestarsi in due modi, ferma restando la sua unitarieta’ quale concetto giuridico.
Il primo e’ il pregiudizio derivante dalla lesione della salute; il secondo e’ costituito dal turbamento e dallo spavento derivanti dalla consapevolezza della morte imminente.
Ambedue questi pregiudizi hanno natura non patrimoniale, come non patrimoniali sono tutti i pregiudizi che investono la persona in se’ e non il suo patrimonio.
Quel che li differenzia non e’ la natura giuridica, ma la consistenza reale: infatti il primo (lesione della salute):
-) ha fondamento medico legale;
-) consiste nella forzosa rinuncia alle attivita’ quotidiane durante il periodo della invalidita’;
-) sussiste anche quando la vittima sia stata incosciente. Il secondo, invece:
-) non ha fondamento medico legale;
-) consiste in un moto dell’animo;
-) sussiste solo quando la vittima sia stata cosciente e consapevole.
6.4. Il danno alla salute che puo’ patire la vittima di lesioni personali, la quale sopravviva quodam tempore e poi deceda a causa della gravita’ delle lesioni, dal punto di vista medico-legale puo’ consistere solo in una invalidita’ temporanea, mai in una invalidita’ permanente.
Il lemma “invalidita’”, infatti, per secolare elaborazione medico-legale, designa uno stato menomativo che puo’ essere transeunte (invalidita’ temporanea) o permanente (invalidita’ permanente). L’espressione “invalidita’ temporanea” designa lo stato menomativo causato da una malattia, durante il decorso di questa. L’espressione “invalidita’ permanente” designa invece lo stato menomativo che residua dopo la cessazione d’una malattia.
L’esistenza d’una malattia in atto e l’esistenza di uno stato di invalidita’ permanente non sono tra loro compatibili: sinche’ durera’ la malattia, permarra’ uno stato di invalidita’ temporanea, ma non v’e’ ancora invalidita’ permanente; se la malattia guarisce con postumi permanenti si avra’ uno stato di invalidita’ permanente, ma non vi sara’ piu’ invalidita’ temporanea; se la malattia dovesse condurre a morte l’ammalato, essa avra’ causato solo un periodo di invalidita’ temporanea (Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 32372 del 13.12.2018; Sez. 3, Sentenza n. 5197 del 17/03/2015, Rv. 634697 – 01; cosi’ pure Sez. 3 Sentenza n. 7632 del 16/05/2003, Rv. 563159, § 3.3 dei “Motivi della decisione”).
6.5. Il danno biologico causato dall’invalidita’ temporanea consiste nella forzosa rinuncia, durante il periodo di malattia, alle ordinarie attivita’ non spiacevoli cui la vittima si sarebbe altrimenti dedicata, se fosse rimasta sana.
Per risalente convenzione medico-legale, il danno alla salute da invalidita’ temporanea si apprezza in giorni, mai in frazioni di giorni: sarebbe, infatti, un esercizio puramente teorico pretendere di dare un peso monetario alle attivita’ di cui la vittima e’ stata privata, durante un periodo di sopravvivenza protrattosi per poche ore o per pochi minuti.
Da quanto esposto consegue che in tanto la vittima di lesioni potra’ acquistare il diritto al risarcimento del danno alla salute, in quanto abbia sofferto un danno alla salute medico legalmente apprezzabile, dal momento che per espressa definizione normativa, oltre che per risalente insegnamento della dottrina, il danno biologico e’ solo quello “suscettibile di accertamento medico legale” (cosi’ l’articolo 138 cod. ass.; conforme e’ la dottrina e l’ormai pluridecennale giurisprudenza di questa Corte).
Cio’ sul presupposto che il danno biologico non consiste nella mera lesione dell’integrita’ psicofisica, ma presuppone che tale lesione abbia compromesso l’esplicazione piena ed ottimale delle attivita’ realizzatrici dell’individuo nel suo ambiente di vita, sicche’ “una concreta perdita o riduzione di tali potenzialita’ puo’ concretizzarsi soltanto nell’eventualita’ della prosecuzione della vita, in condizioni menomate, per un apprezzabile periodo di tempo successivamente alle lesioni.
Consegue che, in difetto di una apprezzabile protrazione della vita successivamente alle lesioni, pur risultando lesa l’integrita’ fisica del soggetto offeso, non e’ configurabile un danno biologico risarcibile, in assenza di una perdita delle potenziali utilita’ connesse al bene salute suscettiva di essere valutata in termini economici” (cosi’ gia’, tra le prime, Sez. 3, Sentenza n. 1704 del 25/02/1997, Rv. 502664 – 01). La conclusione e’ che nel caso di morte causata da lesioni personali, e sopravvenuta a distanza di tempo da queste, un danno biologico permanente e’ inconcepibile.
Quanto al danno biologico temporaneo, per potersene predicare l’esistenza sara’ necessario che la lesione della salute si sia protratta per un tempo apprezzabile, perche’ solo un tempo apprezzabile consente quell'”accertabilita’ medico legale” che costituisce il fondamento del danno biologico temporaneo.
Normalmente tale “lasso apprezzabile di tempo” dovra’ essere superiore alle 24 ore, giacche’ come accennato e’ il “giorno” l’unita’ di misura medico legale della invalidita’ temporanea; ma in astratto non potrebbe escludersi a priori l’apprezzabilita’ del danno in esame anche per periodi inferiori.
Nell’uno, come nell’altro caso, lo stabilire se la vittima abbia patito un danno biologico “suscettibile di accertamento medico legale” e’ un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, e non sindacabile in questa sede.
Naturalmente, una volta accertata la sussistenza di un danno biologico temporaneo provocato da una lesione mortale, esso sara’ risarcibile a prescindere dalla consapevolezza che la vittima ne abbia avuto, dal momento che quel pregiudizio consiste nella oggettiva perdita delle attivita’ quotidiane (Sez. 3 -, Sentenza n. 21060 del 19/10/2016, Rv. 642934 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 2564 del 22/02/2012, Rv. 621706 – 01).
6.6. La vittima di lesioni che, a causa di esse, deceda dopo una sopravvivenza quodam tempore, puo’ poi patire, come accennato, un pregiudizio non patrimoniale di tipo diverso: la sofferenza provocata dalla consapevolezza di dovere morire.
Questa sofferenza potra’ essere multiforme, e potra’ consistere nel provare – ad esempio – la paura della morte; l’agonia provocata dalle lesioni; il dispiacere di lasciar sole le persone care; la disperazione per dover abbandonare le gioie della vita; il tormento di non sapere chi si prendera’ cura dei propri familiari, e cosi’ via, secondo le purtroppo infinite combinazioni di dolore che il destino puo’ riservare al genere umano. Si tratta, insomma, di quel tipo di sofferenza che piu’ e meglio d’ogni giurista seppe descrivere Luigi Pirandello nella celebre novella Il marito di mia moglie.
L’esistenza stessa, e non la risarcibilita’, del pregiudizio in esame, al contrario del danno alla salute, presuppone che la vittima sia cosciente.
Se la vittima non sia consapevole della fine imminente, infatti, non e’ nemmeno concepibile che possa prefigurarsela, e addolorarsi per essa.
In questa seconda ipotesi, poiche’ il danno risarcibile e’ rappresentato non dalla perdita delle attivita’ cui la vittima si sarebbe dedicata, se fosse rimasta sana, ma da una sensazione dolorosa, la durata della sopravvivenza non e’ un elemento costitutivo del danno, ne’ incide necessariamente sulla sua gravita’.
Anche una sopravvivenza di pochi minuti, infatti, puo’ consentire alla vittima di percepire la propria fine imminente, mentre – al contrario una lunga sopravvivenza in totale stato di incoscienza non consentirebbe di affermare che la vittima abbia avuto consapevolezza della propria morte (Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 32372 del 13.12.2018; nonche’ Sez. U, Sentenza n. 26972 del 11/11/2008, Rv. 605494 – 01). Cosi’, ad esempio, i passeggeri del volo GermanWings, che il 24.3.2015 la lucida follia d’un pilota condusse a schiantarsi sui Pirenei, trascorsero solo sei minuti in cui ebbero la chiara percezione che il velivolo su cui si trovavano stava precipitando, e non v’era scampo: ma nessuno oserebbe negare che il timor panico da essi provato in quella manciata di minuti non costituisca, per il nostro ordinamento, un danno risarcibile.
6.7. In conclusione:
-) le espressioni “danno terminale”, “danno tanatologico”, “danno catastrofale” non corrispondono ad alcuna categoria giuridica, ma possono avere al massimo un valore descrittivo, e neanche preciso;
-) il danno da invalidita’ temporanea patito da chi sopravviva quodam tempore ad una lesione personale mortale e’ un danno biologico, da accertare con gli ordinari criteri della medicina legale. Di norma, esso sara’ dovuto se la sopravvivenza supera le 24 ore, ed andra’ comunque liquidato avendo riguardo alle specificita’ del caso concreto;
-) la sofferenza patita da chi, cosciente e consapevole, percepisca la morte imminente, e’ un danno non patrimoniale, da accertare con gli ordinari mezzi di prova, e da liquidare in via equitativa avendo riguardo alle specificita’ del caso concreto.
6.8. E’ alla luce di questi principi che puo’ ora scrutinarsi il fondo del quarto motivo di ricorso.
La Corte d’appello ha rigettato la domanda di risarcimento proposta da (OMISSIS), ed avente ad oggetto il ristoro del pregiudizio patito dalla figlia nei tre giorni di sopravvivenza trascorsi tra il sinistro e la morte, con la seguente motivazione: “nulla va riconosciuto (a (OMISSIS)) per la morte della minore (OMISSIS), figlia, dato il breve periodo di sopravvivenza della stessa post evento, di circa tre giorni”.
Siffatta decisione viola effettivamente gli articoli 1223, 1226 e 2059 c.c..
6.8.1. In primo luogo, infatti, essa ancora la sussistenza del danno alla durata della sopravvivenza. Ma nella giurisprudenza di questa Corte, per quanto sopra esposto, la durata della sopravvivenza non e’ elemento costitutivo del danno consistente nell’aver provato la formido mortis. La paura di morire puo’ provarla anche chi sopravviva pochi minuti alla lesione; cosi’ come puo’ restarne immune chi sia sopravvissuto per lungo tempo.
La durata della sopravvivenza puo’ essere un elemento indiziario dal quale desumere l’esistenza del pregiudizio (in base al rilievo che una sopravvivenza di pochi istanti, ad esempio, difficilmente lascia alla vittima la consapevolezza della propria sorte); e costituisce certamente un parametro di valutazione del quantum debeatur. Non costituisce, invece, elemento costitutivo dell’an debeatur.
6.8.2. In secondo luogo, per escludere l’esistenza del danno patito da (OMISSIS) il giudice di merito avrebbe dovuto accertare non gia’ e non solo per quanto tempo sopravvisse, ma avrebbe dovuto accertare:
-) se la sopravvivenza supero’ le 24 ore, al fine di stabilire se si era prodotto un danno biologico da invalidita’ temporanea;
-) se la vittima conservo’ coscienza e consapevolezza della propria sorte, al fine di stabilire se vi fosse stato un danno non patrimoniale da lucida agonia.
6.9. La sentenza impugnata va dunque cassata anche sotto questo aspetto; il giudice del rinvio, nel tornare ad esaminare il gravame, applichera’ il seguente principio di diritto:
la persona che, ferita, non muoia immediatamente, puo’ acquistare e trasmettere agli eredi il diritto al risarcimento di due pregiudizi: il danno biologico temporaneo, che di norma sussistera’ solo per sopravvivenze superiori alle 24 ore (tale essendo la durata minima, per convenzione medico-legale, di apprezzabilita’ dell’invalidita’ temporanea), che andra’ accertato senza riguardo alla circostanza se la vittima sia rimasta cosciente; ed il danno non patrimoniale consistito nella formido mortis, che andra’ accertato caso per caso, e potra’ sussistere solo nel caso in cui la vittima abbia avuto la consapevolezza della propria sorte e della morte imminente.
7. Il quinto motivo di ricorso.
– 7.1. Il quinto motivo e’ riferibile a tutti e tre i ricorrenti.
Con esso si lamenta, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 4, la nullita’ della sentenza per mancanza di motivazione
Sostengono i ricorrenti che la Corte d’appello non avrebbe motivato in modo chiaro, logico e non contraddittorio il rigetto della domanda di accertamento della mala gestio delle due compagnie assicuratrici, e della conseguente responsabilita’ ultramassimale.
7.2. Prima di esaminare il motivo nel merito, va rilevato come esso sia ammissibile, sebbene i ricorrenti non abbiano indicato nel ricorso quale fosse il massimale previsto dalle polizze stipulate dai due assicuratori convenuti.
Infatti, essendo stati accolti in questa sede i motivi di ricorso concernenti la stima del danno alla salute patito da (OMISSIS), la stima del danno non patrimoniale patito da (OMISSIS), e la stima del danno non patrimoniale da uccisione patito da tutti e tre i ricorrenti, e dovendo il giudice di merito procedere per tutti tre ad una nuova valutazione e liquidazione, sarebbe stato impossibile per il ricorrente (e sarebbe impossibile anche per questa Corte) antivedere come si orientera’ il giudice di rinvio, per poi stabilire se nel caso di specie sussista o non sussista un problema di incapienza del massimale.
Il motivo in esame e’ dunque ammissibile perche’ la questione della responsabilita’ ultramassimale dei due assicuratori convenuti e’ potenzialmente rilevante nel giudizio di rinvio, e tanto basta per scrutinare nel merito la censura, come da tempo ritenuto da questa corte (ex multis, tra le piu’ risalenti, gia’ Sez. 3, Sentenza n. 1182 del 18/02/1980, Rv. 404672 – 01).
7.3. Nel merito, il motivo e’ fondato.
Gli odierni ricorrenti chiesero alla Corte d’appello la condanna dei due assicuratori convenuti (la (OMISSIS), assicuratore del vettore; e la (OMISSIS), assicuratore del veicolo antagonista) sul presupposto che essi avessero colposamente ritardato l’adempimento delle rispettive obbligazioni (c.d. mala gestio impropria).
La Corte d’appello, confermando la decisione di primo grado, rigetto’ il relativo motivo di gravame, affermando che non sussisteva la mala gestio “da parte della societa’ assicuratrice” (non e’ chiaro a quale delle due societa’ convenute intendesse riferirsi la Corte d’appello), giacche’ il ritardo dell’assicuratore nell’adempimento della propria obbligazione nel caso di specie era giustificato, alla luce della “particolarita’ dell’evento (che) imponeva una valutazione ponderata del caso”.
7.4. La motivazione sopra trascritta incorre effettivamente nel vizio di nullita’, ex articolo 132 c.p.c., comma 2, n. 4. Essa, infatti, e’ tautologica per un verso, e inintelligibile per altro verso.
7.4.1. La motivazione della sentenza impugnata e’, in primo luogo, tautologica.
I motivi di una sentenza devono infatti consistere in ragioni, non in affermazioni: nel caso di specie, invece, la Corte d’appello si e’ limitata ad affermare che il ritardato adempimento degli assicuratori era giustificato dalla “particolarita’ del caso”, senza tuttavia spiegare qual fosse tale particolarita’, e perche’ questo sinistro fosse “particolare” rispetto agli altri.
7.4.2. La motivazione sopra trascritta, in secondo luogo, e’ inintelligibile. Essa, infatti, non spiega ne’ quali fossero le “particolarita’ dell’evento” giustificative del ritardato adempimento da parte dei due assicuratori convenuti, ne’ di qual genere di ponderazione questi avessero bisogno, ed in special modo quello del vettore.
Nel caso di specie, infatti, sono decedute tre persone che erano trasportate su un autoveicolo venuto a collisione con altro mezzo: e secondo la legislazione e la giurisprudenza vigenti all’epoca del fatto (2003) i congiunti delle vittime potevano invocare la responsabilita’ solidale cumulativa tanto del vettore, quanto del veicolo antagonista, ai sensi del combinato disposto dell’articolo 2054 c.c., comma 1, e articolo 2055 c.c..
L’assicuratore della r.c.a., inoltre, deve fornire anche nei confronti del terzo danneggiato una prestazione connotata dalla diligenza professionale rafforzata da lui esigibile, ai sensi dell’articolo 1176 c.c., comma 2.
Di conseguenza, qualunque assicuratore mediamente diligente, ai sensi della norma appena indicata, deve sapere che, in presenza della morte d’una persona trasportata:
(a) il suo assicurato e’ gravato dalla presunzione di colpa di cui all’articolo 2054 c.c., comma 1;
(b) in ogni caso, quand’anche l’apporto del proprio assicurato alla verificazione del danno sia stato minimo, egli e’ comunque tenuto per l’intero ai sensi dell’articolo 2055 c.c., salvo regresso nei confronti del corresponsabile o del suo assicuratore della r.c.a..
Ne’ a giustificazione della mora debendi in cui sono incorsi i due assicuratori convenuti sarebbe valso invocare l’eventuale incertezza nella ricostruzione della dinamica del sinistro.
Tale incertezza, infatti, in presenza della morte d’una persona trasportata, aggrava, invece che attenuare, la responsabilita’ dell’assicuratore in caso di ritardato adempimento.
Infatti quanto piu’ sia problematica la ricostruzione della dinamica di fatti, tanto piu’ sara’ presumibile che difficilmente le parti coinvolte nel sinistro riusciranno a vincere la presunzione di corresponsabilita’ posta a loro carico dall’articolo 2054 c.c., comma 2.
Di conseguenza l’assicuratore il quale, dinanzi ad un sinistro dalla dinamica controvertibile, neghi caparbiamente la responsabilita’ del proprio assicurato nei confronti della pretesa avanzata da persona trasportata, affida le proprie difese ad una eccezione di incerto fondamento, e si espone per cio’ solo al rischio di condanna per mala gestio impropria.
7.5. In conclusione, nel caso di morte d’una persona trasportata su un veicolo a motore in conseguenza d’uno scontro tra veicoli:
-) se non vi e’ incertezza sulla dinamica del sinistro, gli assicuratori dei veicoli coinvolti, una volta spirato lo spatium deliberandi di cui alla L. 24 dicembre 1969, n. 990, articolo 22, si presumono per cio’ solo in mora culpata;
-) se vi e’ incertezza sulla dinamica del sinistro, i due assicuratori dei veicoli coinvolti debbono, ai sensi dell’articolo 1176 c.c., comma 2prefigurarsi l’ipotesi della corresponsabilita’ dei rispettivi assicurati, ex articoli 2054 e 2055 c.c., ed il non farlo costituisce per cio’ solo una mora culpata.
Questi essendo i criteri da applicare per l’accertamento della mala gestio impropria dell’assicuratore della r.c.a., ne consegue che nel caso di specie la Corte d’appello, dichiarando giustificato il ritardo dei due assicuratori in un caso di morte di tre persone trasportate sul presupposto che il caso concreto presentava delle “particolarita’”, ha effettivamente adottato una motivazione imperscrutabile, non spiegando quali fossero tali “particolarita’”.
8. Le spese.
Le spese del presente giudizio di legittimita’ saranno liquidate dal giudice del rinvio.

P.Q.M.

la Corte di cassazione:
(-) rigetta il primo motivo di ricorso;
(-) accoglie, nei limiti e nei sensi di cui in motivazione, il secondo, il terzo, il quarto ed il quinto motivo di ricorso;
(-) cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimita’.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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