Corte di Cassazione, sezioni unite, sentenza 8 giugno 2017, n. 28659

Il giudice dell’esecuzione, in caso di riconoscimento della continuazione tra più reati oggetto di distinte sentenze irrevocabili, nel determinare la pena è tenuto anche al rispetto del limite del triplo della pena inflitta per la violazione più grave, oltre che del criterio indicato dall’art. 671, comma 2, cod. proc. pen., rappresentato dalla somma delle pene inflitte con ciascuna decisione irrevocabile

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE

SENTENZA 8 giugno 2017, n. 28659

 

Ritenuto in fatto

La Corte di appello di Napoli, su istanza di G.G. , ha riconosciuto il vincolo della continuazione tra i reati di cui alla sentenza di quella stessa Corte in data 13 febbraio 2008 e la sentenza del Tribunale di Napoli, sezione distaccata di Pozzuoli, in data 25 settembre 2008, e, ritenuta violazione più grave quella di cui al punto 6 del provvedimento di cumulo-pene 111/2008 della Procura generale della Corte di appello di Napoli (per la quale era stata inflitta la pena di anni uno e mesi sei di reclusione ed Euro 1031,91 di multa), elevata nello stesso provvedimento fino al triplo – e quindi ad anni quattro, mesi sei ed Euro 3098,73 – per continuazione con altri reati (undici le sentenze relative a reati ritenuti avvinti da tale vincolo), ha rideterminato la pena complessiva in anni quattro, mesi otto di reclusione ed Euro 3498,73 di multa (fissando l’aumento per continuazione in mesi due di reclusione ed Euro 400 di multa per i reati oggetto delle due sentenze di cui sopra).

I reati oggetto delle tredici sentenze, commessi nell’arco temporale di circa un anno, attengono alla detenzione e vendita di supporti magnetici riproducenti opere dell’ingegno tutelate dal diritto di autore ex legge n. 633 del 1941.

G. , con ricorso per cassazione proposto tramite il difensore, evidenziato che il vincolo della continuazione era già stato in precedenza riconosciuto, tra i reati di cui ad altre undici sentenze, con ordinanza del Tribunale di Napoli, sez. dist. di Pozzuoli, in data 16-26 luglio 2013, la quale aveva applicato l’aumento del triplo della pena irrogata per la violazione più grave, deduce inosservanza o erronea applicazione dell’art. 81, primo e secondo comma, cod. pen., per violazione del limite in esso stabilito, superato nel provvedimento impugnato per effetto dell’applicazione di un ulteriore aumento di pena per ciascuno dei reati di cui alle sentenze rispettivamente della Corte di appello di Napoli e del Tribunale di Napoli, sez. dist. di Pozzuoli, sopra citate.

La Prima Sezione penale, con ordinanza del 17 gennaio 2017, depositata il 15 febbraio 2017, dato atto che la giurisprudenza di legittimità maggioritaria, da tempo consolidata, afferma che l’applicazione della disciplina della continuazione in fase esecutiva è soggetta al solo limite di pena di cui all’art. 671, comma 2, cod. proc. pen., e non anche al limite del triplo di cui all’art. 81, primo e secondo comma, cod. pen. – sull’assunto che le due predette norme siano in concorso apparente, che la seconda sia speciale rispetto alla prima e che, a diversamente ritenere, si determinerebbero ‘sacche di impunità’ -, ha rimesso il ricorso alle Sezioni Unite ritenendo di dissentire da tale orientamento, e di condividere quello opposto, minoritario e più risalente, secondo cui anche il giudice dell’esecuzione, nell’applicare la continuazione, è tenuto al rispetto del limite del triplo della pena relativa alla violazione più grave.

Con decreto del 21 febbraio 2017 il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite fissando per la trattazione l’odierna udienza camerale.

Con requisitoria scritta il Procuratore generale ha chiesto il rigetto del ricorso richiamando le ragioni alla base dell’orientamento maggioritario.

Considerato in diritto

La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite è la seguente: ‘Se il giudice dell’esecuzione, in caso di riconoscimento della continuazione – ex art. 671 cod. proc. pen. – tra più violazioni di legge giudicate in distinte decisioni irrevocabili, sia tenuto, in sede di determinazione della pena, al rispetto del limite del triplo della pena inflitta per la violazione più grave (art. 81, primo e secondo comma, cod. pen.) o se in tale sede trovi applicazione esclusivamente la disposizione di cui all’art. 671, comma 2, cod. proc. pen. (limite rappresentato dalla somma delle pena inflitte in ciascuna decisione irrevocabile)’.

Le Sezioni Unite ritengono condivisibile la soluzione prospettata dalla Sezione rimettente.

Il primo argomento a favore di essa si trae dall’introduzione nel codice di procedura penale vigente dell’art. 671 cod. proc. pen., introduzione preceduta dalla sentenza della Corte cost. n. 115 del 1987. Tale decisione, ritenendo non praticabile la strada di una pronuncia additiva di incostituzionalità, in assenza di un’unica soluzione costituzionalmente obbligata e in presenza di un’ampia alternativa di possibili soluzioni adeguatrici, aveva dichiarato l’inammissibilità della questione di legittimità dell’art. 81 cod. pen. (e dell’art. 90 dell’allora vigente codice di procedura penale del 1930), nella parte in cui non prevedevano l’applicabilità dell’istituto della continuazione tra reati meno gravi già giudicati con sentenza irrevocabile e reati più gravi per i quali fosse ancora in corso il giudizio. Non aveva tuttavia mancato di evidenziare come il campo di applicazione del reato continuato fosse indifferente alla fase processuale in cui viene in rilievo, con la conseguenza che la mancata previsione di strumenti per applicare la relativa disciplina, nella ricorrenza delle condizioni in essa previste vale a dire l’aver agito in esecuzione di un unico disegno criminoso -, costituiva violazione del principio di legalità della pena (art. 25 Cost.).

3.1. La Consulta aveva altresì affermato che tale mancata previsione era fonte di disomogeneità (rilevanti ex art. 3 Cost.) laddove precludeva l’applicazione dell’istituto, ispirato al favor rei, nel caso, puramente accidentale ed estraneo alla volontà del condannato, della trattazione in separati procedimenti, taluni dei quali ancora in corso mentre altri già definiti, di reati espressione di un’unica progettualità, dovendo anche il principio di intangibilità del giudicato essere rettamente inteso come ‘tendenzialmente a favore dell’imputato’.

3.2. È pertanto innegabile che la ratio dell’introduzione dell’art. 671 cod. proc. pen. nel codice di procedura penale oggi vigente sia da rintracciare nell’esigenza di consentire l’applicazione dell’istituto a prescindere dalla sua ‘localizzazione processuale’ (così l’ordinanza di rimessione della Prima Sezione), con l’ovvia conseguenza, anche solo per questo, dell’irragionevolezza – e quindi dell’incostituzionalità – dell’ipotesi della sottoposizione della disciplina del reato continuato in executivis a criteri di determinazione della pena diversi, e, in ipotesi, più sfavorevoli di quelli previsti in sede di cognizione.

Ciò premesso, occorre osservare che, dopo le prime, risalenti decisioni di legittimità che, condividendo tale impostazione, avevano per così dire dato per scontato che l’aumento di pena per continuazione fosse soggetto, anche in fase esecutiva, al duplice limite, da un lato, del triplo della pena relativa alla violazione più grave, dall’altro a quello del cumulo materiale delle pene inflitte per tutti i reati, è prevalso successivamente l’orientamento secondo il quale l’aumento di pena da effettuare a seguito del riconoscimento della continuazione in sede esecutiva è soggetto al solo limite previsto espressamente dall’art. 671, comma 3, cod. proc. pen., quello, cioè, della somma delle pene inflitte con le sentenze irrevocabili.

Sono espressione del più risalente orientamento le seguenti pronunce: Sez. 1, n. 2884 del 11/05/1995, Togna, Rv. 201748; Sez. 1, n. 2565 del 08/04/1997, Ruga, Rv. 207702; Sez. 1, n. 1663 del 26/02/1997, Spinelli, Rv. 207692; Sez. 1, n. 5826 del 22/10/1999, dep. 2000, Buonanno, Rv. 214839; Sez. 1, n. 4862 del 06/07/2000, Basile, Rv. 216752 e Sez. 1, n. 32277 del 25/02/2003, Mazza, Rv. 225742.

A partire dai primi anni 2000 si è affermato il secondo orientamento, inaugurato dalle sentenze Sez. 1, n. 5959 del 12/12/2001, dep. 2002, Franco, Rv. 221100 e Sez. 1, n. 5637 del 14/12/2001, dep. 2002, Iodice, Rv. 221101, il quale ha stabilito che, in tema di applicazione della continuazione in sede esecutiva, il giudice, nella determinazione della pena, è soggetto al limite di cui all’art. 671, comma 2, cod. proc. pen. (consistente nella somma delle pene inflitte con i provvedimenti considerati), ma non al limite del triplo della pena stabilita per il reato più grave di cui all’art. 81, secondo comma, cod. pen., trovando applicazione solo la prima delle disposizioni citate, in forza del principio di specialità di cui all’art. 15 cod. pen., e dovendosi evitare che, raggiunto il limite del triplo per una determinata fattispecie concreta, si determini impunità per ulteriori reati riconducibili, in fase esecutiva, al medesimo disegno criminoso.

Al nuovo indirizzo si sono tralaticiamente allineate, senza ulteriori approfondimenti, Sez. 3, n. 12850 del 22/01/2003, Leoncini, Rv. 224367, Sez. 1, n. 3367 del 14/01/2003, Mengoni, Rv. 222866, Sez. 1, n. 24823 del 31/03/2005, Tanzii, Rv. 232000, Sez. 1, n. 39306 del 24/09/2008, Cantori, Rv. 241145, Sez. 1, n. 45256 del 27/09/2013, Costantini, Rv. 257722 e Sez. 2, n. 22561 del 08/05/2014, Do Rosario Lopez, Rv. 259349.

Come già evidenziato, l’argomento su cui fa perno tale ultimo indirizzo è costituito dalla sussistenza di un rapporto di concorso apparente tra l’art. 81 cod. pen. e l’art. 671 cod. proc. pen., il cui elemento specializzante rispetto alla prima norma sarebbe da rintracciare nel diverso momento processuale di applicazione dell’istituto, la fase esecutiva in luogo di quella di cognizione. La scoperta finalità dell’impegno argomentativo è tuttavia quella di evitare che, raggiunto il limite del triplo per una determinata fattispecie concreta, si determini l’impunità per ulteriori reati riconducibili, in fase esecutiva, al medesimo disegno criminoso.

Entrambi gli argomenti sono stati sottoposti a convincente critica da parte della Sezione rimettente, la quale ha ineccepibilmente osservato che il rapporto di specialità è configurabile, ai sensi dell’art. 15 cod. pen., tra più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale che regolano la stessa materia, con evidente riferimento a fattispecie di diritto sostanziale, e – va aggiunto – tra norme che prevedono per lo stesso fatto una sanzione rispettivamente penale e amministrativa, oppure diverse sanzioni amministrative, ai sensi dell’art. 9 della legge n. 689 del 1981. Ne discende la difficoltà concettuale di riconoscere un rapporto di quel tipo tra una norma che prevede un istituto penale sostanziale (l’art. 81 cod. pen.) e una norma (l’art. 671 cod. proc. pen.) che ne prevede l’applicazione in una diversa fase processuale, esulandosi dalle ipotesi di specialità appena ricordate.

Né potrebbe ipotizzarsi la voluntas legis di regolare diversamente la continuazione in sede, rispettivamente, di cognizione e di esecuzione, ciò non essendo in primo luogo autorizzato dall’esegesi dell’art. 671 citato. Invero la stessa rubrica della norma (‘Applicazione della disciplina del concorso formale e del reato continuato’) milita a favore della conclusione della volontà del legislatore di trasposizione integrale in executivis della disciplina della continuazione dettata dall’art. 81, primo e secondo comma, a fronte della quale è irrilevante il mancato richiamo espresso al limite di pena del triplo di quella relativa alla violazione più grave, essendo tale limite implicito nella previsione della possibilità del condannato – o del pubblico ministero – di chiedere al giudice dell’esecuzione l’applicazione di quella disciplina, sempreché non esclusa dal giudice della cognizione: condizione, quest’ultima, che ulteriormente convince che l’istituto è il medesimo, quale che sia il momento, antecedente o successivo al giudicato, della sua applicazione.

Tale approdo non è contraddetto dalla previsione, nel comma 2 dell’art. 671, del limite imposto al giudice dell’esecuzione – che, secondo la giurisprudenza finora maggioritaria, sarebbe l’unico in sede esecutiva – di determinare la pena in misura non superiore alla somma di quelle inflitte con le sentenze irrevocabili. Invano si pretenderebbe, infatti, di ravvisare in tale disposizione un’inutile replica dell’art. 81, terzo comma, cod. pen., a fronte, invece, dell’ovvia necessità di adattare la previsione di quest’ultima norma secondo cui la pena per il reato continuato, elevabile fino al triplo, non può comunque essere superiore a quella che sarebbe applicabile a norma degli articoli precedenti (i quali regolano il cumulo materiale delle pene in caso di concorso di reati) – alle peculiarità della fase esecutiva mediante la previsione, non identica alla precedente e quindi non superfluamente ripetitiva della stessa, che la misura della pena non può essere superiore alla somma di quelle inflitte con ciascuna sentenza o ciascun decreto.

Nel primo caso, dunque, la pena non deve superare il cumulo materiale delle pene applicabili ai vari reati ritenuti in continuazione, nel secondo non deve essere superiore alla somma delle pene già inflitte; diversità di disciplina che tiene opportunamente conto come, da un lato, nel primo caso si tratti di una mera ipotesi di pena applicabile, nel secondo di pene già concretamente applicate. Limite, nell’uno come nell’altro caso, destinato ad operare soltanto se quello del triplo della pena relativa alla violazione più grave si riveli in concreto meno favorevole all’imputato/condannato.

Né contrasta con la tesi qui condivisa il richiamo, nel comma 2-bis dell’art. 671, alle disposizioni dell’art. 81, quarto comma, che potrebbe ritenersi a sua volta superfluo se in sede esecutiva fosse in toto applicabile la disciplina ex art. 81 cod. pen.

Come si è già osservato, infatti, l’applicazione della disciplina del reato continuato in executivis comporta la trasposizione in quest’ultima sede dei primi due commi dell’art. 81 (che prevedono il limite del triplo della pena da infliggere per la violazione più grave), donde l’esigenza di richiamare, a conferma dell’indifferenza della fase processuale di applicazione dell’istituto, la deroga al tetto del triplo – quindi ex professo indicato come applicabile anche in executivis – quando i reati-satellite siano commessi da soggetti ai quali sia stata applicata la recidiva prevista dall’art. 99, quarto comma, cod. pen., caso nel quale l’aumento di pena – fermo il solo limite di cui, rispettivamente, al terzo comma dell’art. 81 e al comma 2 dell’art. 671 – non può essere comunque inferiore ad un terzo della pena stabilita per il reato più grave.

Si impone un’ulteriore considerazione. Quella prospettata dall’ordinanza di rimessione è anche la sola interpretazione che non si espone a dubbi di costituzionalità, come del resto avvertito dalla Consulta già nel lontano 1987 osservando che il rispetto degli artt. 3 e 25 Cost. comporta che la disciplina legale della pena del reato continuato sia quella di cui all’art. 81 cod. pen., tanto nel processo di cognizione che in sede esecutiva.

Del pari ispirata all’esigenza di adattamento dell’istituto alle caratteristiche proprie dell’esecuzione è la previsione dell’art. 187 disp. att. cod. proc. pen. (secondo cui il giudice dell’esecuzione deve considerare violazione più grave quella per la quale è stata inflitta la pena più grave), parallela a quella dell’art. 81, primo e secondo comma, cod. pen., per la quale la violazione con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso della stessa o di diverse violazioni di legge è punita con la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave. Infatti, mentre nel processo di cognizione l’individuazione della violazione più grave è affidata alla valutazione discrezionale, per quanto vincolata, del giudice, nella fase esecutiva essa, pur a fronte alla cedevolezza, pro reo, del giudicato, non può che incontrare il limite della pena più grave già inflitta. Nell’uno come nell’altro caso, quindi, la pena-base è sempre quella per la violazione più grave, rispettivamente da determinare o già determinata.

Passando all’esame dell’ulteriore elemento a sostegno dell’opposto indirizzo di legittimità, e cioè lo scopo di evitare che, raggiunto il limite del triplo per una determinata fattispecie concreta, si determini l’impunità per ulteriori reati riconducibili, in fase esecutiva, al medesimo disegno criminoso, va osservato che anch’esso è stato sottoposto a puntuale verifica critica nell’ordinanza di rimessione per giungere alla condivisibile conclusione che i reati-satellite, individuati dopo il raggiungimento della soglia del triplo, non restano impuniti, dovendo il relativo aumento essere frutto della proporzionale riduzione degli aumenti precedentemente effettuati. Operazione che incombe ovviamente al giudice dell’esecuzione quando riconosca la continuazione di ulteriori reati con quelli per i quali il limite del triplo sia stato già raggiunto, al fine di precisare le frazioni di pena imputabili ai singoli reati-satellite nell’eventualità di un successivo scorporo dal totale di talune di esse.

Peraltro, quello del rischio di sacche di sostanziale impunità è solo apparentemente un problema: da un lato, perché non è esclusivo dell’applicazione della continuazione in sede esecutiva, ponendosi anche nel caso del riconoscimento della continuazione nel giudizio di cognizione (dove è meno avvertibile solo perché non sempre vengono indicate le pene che sarebbero irrogabili per ciascun reato singolarmente considerato), in particolare laddove i reati-satellite siano numerosi e di una certa gravità; dall’altro, perché il sistema prevede addirittura forme di correttivi per ovviare al pericolo opposto, quello cioè di pene eccessivamente elevate, in contrasto con le finalità di rieducazione e di reinserimento sociale.

Ci si riferisce, ad esempio, ai criteri moderatori previsti, rispettivamente, dall’art. 78 cod. pen., inteso al temperamento del principio del cumulo materiale delle pene; dall’art. 66 stesso codice finalizzato a limitare gli aumenti di pena nel caso di concorso di più circostanze aggravanti; o ancora al limite di pena in caso di più circostanze aggravanti tra cui quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa o ad effetto speciale (art. 63, quarto comma, cod. pen.). Finalità che ispira pure la previsione del limite degli aumenti in caso di conversione delle pene pecuniarie (art. 103 legge n. 689 del 1981).

Resta tuttavia da sottolineare come il riconoscimento della continuazione in executivis (non diversamente che nel processo di cognizione), debba necessariamente passare attraverso la rigorosa, approfondita verifica della sussistenza di concreti indicatori – quali l’omogeneità delle violazioni e del bene protetto, la contiguità spazio-temporale, le singole causali, le modalità della condotta, la sistematicità e le abitudini programmate di vita – del fatto che, al momento della commissione del primo reato della serie, i successivi fossero stati realmente già programmati almeno nelle loro linee essenziali, non essendo sufficiente, a tal fine, valorizzare la presenza di taluno degli indici di cui sopra se i successivi reati risultino comunque frutto di determinazione estemporanea, di contingenze occasionali, di complicità imprevedibili, ovvero di bisogni e necessità di ordine contingente, o ancora della tendenza a porre in essere reati della stessa specie o indole in virtù di una scelta delinquenziale compatibile con plurime deliberazioni.

Può essere quindi enunciato il seguente principio di diritto:

‘Il giudice dell’esecuzione, in caso di riconoscimento della continuazione tra più reati oggetto di distinte sentenze irrevocabili, nel determinare la pena è tenuto anche al rispetto del limite del triplo della pena inflitta per la violazione più grave, oltre che del criterio indicato dall’art. 671, comma 2, cod. proc. pen., rappresentato dalla somma delle pene inflitte con ciascuna decisione irrevocabile’.

Venendo all’esame del ricorso proposto nell’interesse del G. , va osservato che esso, alla stregua di quanto sopra, merita accoglimento.

Occorre premettere che l’ordinanza impugnata, nel riconoscere la continuazione tra i reati di cui alla sentenza della Corte di appello di Napoli in data 13 febbraio 2008 e alla sentenza del Tribunale di Napoli, sez. dist. di Pozzuoli, in data 25 settembre 2008, e nel ritenere violazione più grave quella di cui al punto 6 del provvedimento di cumulo pene 111/2008 della Procura generale di Napoli (pari ad anni uno e mesi sei di reclusione ed Euro 1031,91 di multa), ha implicitamente, e sostanzialmente, riconosciuto la continuazione dei reati oggetto delle due citate sentenze con quelli giudicati con altre undici sentenze, già unificati nel vincolo della continuazione con provvedimento di determinazione pena del Tribunale di Napoli, sez. dist. di Pozzuoli, in data 16-26 luglio 2013, cui si riferisce il citato cumulo.

Poiché tale ultimo provvedimento aveva già elevato la pena per la violazione più grave (pari ad anni uno, mesi sei di reclusione ed Euro 1031,91 di multa) fino al triplo, determinandola quindi in anni quattro, mesi sei ed Euro 3098,73, la pena comprensiva dell’aumento per i reati di cui alle ultime due sentenze non avrebbe potuto superare, per le considerazioni sopra svolte, tale tetto, mentre la Corte territoriale l’ha elevata di un mese di reclusione ed Euro 200 di multa per ciascuno di essi, così quantificandola in anni quattro, mesi otto ed Euro 3498,73.

Alla rideterminazione della pena, conseguente all’annullamento in parte qua del provvedimento, può provvedersi in questa sede ex art. 620, comma 1, lett. l), cod. proc. pen., fissandola nella misura di anni quattro, mesi sei di reclusione ed Euro 3098,73 di multa.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata limitatamente alla pena, che ridetermina in anni quattro, mesi sei di reclusione ed Euro 3098,73 di multa

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