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La massima

In materia di revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli e di quelle relative alla misura e alle modalità dei contributi da corrispondere a seguito dello scioglimento e della cessazione degli effetti del matrimonio, a norma dell’art. 9 della legge n. 1 dicembre 1970 n. 898 e successive modificazioni, il decreto pronunciato dal tribunale è immediatamente esecutivo, in conformità di una regola più generale, desumibile dall’art. 4 della citata legge regolativa della materia e incompatibile con l’art. 741 c.p.c., che subordina l’efficacia esecutiva al decorso del termine utile per la proposizione del reclamo.

 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE

SENTENZA 26 aprile 2013, n. 10064

Svolgimento del processo

1. La controversia ha per oggetto l’opposizione proposta dalla signora T.L. al precetto notificatole il 6 luglio 2005 dal signor I.C.,  già coniuge dell’opponente, per il pagamento di somme dovute per il mantenimento del figlio. L’opponente contestava l’efficacia esecutiva del titolo posto a fondamento dell’esecuzione, trattandosi di decreto emesso dal tribunale in sede di modifica delle condizioni di divorzio, e gravato da reclamo davanti alla corte d’appello. Il tribunale ha respinto l’opposizione, ritenendo applicabile alla fattispecie la norma, interpretata estensivamente, contenuta nell’art. 4, (comma 11 previgente) della legge n. 74 del 1987, come modificato da ultimo dalla legge n. 80 del 2005, laddove al comma quattordici afferma che, per la parte riguardante i provvedimenti di natura economica, la sentenza di primo grado è immediatamente esecutiva.

2. Per la cassazione di questa sentenza ricorre la signora T. con due mezzi d’impugnazione. Resiste il signor I. .

3. Con ordinanza interlocutoria in data 15 giugno 2012, la prima sezione civile ha rimesso gli atti al Primo presidente della corte, per l’eventuale assegnazione della causa alle Sezioni Unite civili, rilevando l’esistenza di un contrasto tra le sezioni semplici della corte sulla questione dell’esecutività immediata dei decreti di modifica delle condizioni di divorzio emessi dal tribunale, in pendenza di reclamo.

Ragioni della decisione

4. Con i due mezzi d’impugnazione, entrambi proposti sotto il profilo dell’art. 360, comma primo n. 3 c.p.c., la ricorrente denuncia rispettivamente la violazione dell’art. 741 c.p.c., che stabilisce espressamente che i provvedimenti pronunciati in primo grado acquistano efficacia quando sono decorsi i termini di cui agli articoli precedenti senza che sia stato proposto reclamo; e la falsa applicazione dell’art. 4 comma 14 della legge n. 898 del 1970 – come novellato dalla legge n. 80 del 2005 – a norma del quale, per la parte riguardante i provvedimenti di natura economica la sentenza di primo grado è immediatamente esecutiva.

Il ricorso verte dunque sulla questione dell’immediata efficacia esecutiva dei provvedimenti di revisione delle condizioni del divorzio, emessi in primo grado dal tribunale “in camera di consiglio”, secondo quanto prevede l’art. 9 della legge 898 del 1970, nel testo novellato dalla legge n. 74 del 1987.

5. Con ordinanza interlocutoria in data 15 giugno 2012, la prima sezione civile, alla quale il ricorso era stato assegnato, ha rilevato l’esistenza, sul punto decisivo della controversia, dell’esecutività immediata dei decreti di modifica delle condizioni di divorzio, di un contrasto tra due precedenti della corte, per dirimere il quale è stato sollecitato l’intervento di queste sezioni unite.

La prima sentenza, 27 aprile 2011 n. 9373, ha affermato il principio che il provvedimento di modifica delle condizioni di separazione previsto dall’art. 710 c.p.c. non è immediatamente esecutivo, ma lo è solo ove in tal senso sia disposto dal giudice ai sensi dell’art. 741 c.p.c. Si è osservato a questo proposito che, mentre l’art. 1 della novella 29 luglio 1988, n. 331 richiama espressamente la disciplina dei procedimenti in camera di consiglio, resta inapplicabile l’art. 4, comma 14, della legge 1 dicembre 1970, n. 898, il quale dispone la provvisoria esecutività della sentenza di primo grado pronunciata all’esito del giudizio di divorzio, regola estesa dall’art. 23 della legge 6 marzo 1987, n. 74 ai giudizi di separazione personale, ma non a quelli di modifica del regime di separazione. Sebbene di fronte alla generalizzata esecutorietà delle sentenze di primo grado il carattere non esecutivo del decreto di primo grado di modifica delle condizioni di separazione appaia come una sorta di residuo affatto eccezionale in una materia come quella familiare, che richiede tempestività e snellezza applicativa, la discrezionalità utilizzata dal legislatore renderebbe manifestamente infondata una questione di costituzionalità.

La più recente sentenza 20 marzo 2012 n. 4376 ha al contrario affermato che il provvedimento di modifica delle condizioni di separazione tra i coniugi, pronunciato ai sensi dell’art. 710 cod. proc. civ., è immediatamente esecutivo, in quanto a esso non si applica il differimento dell’efficacia esecutiva previsto in via generale dall’art. 741 c.p.c. per gli altri provvedimenti camerali. La conclusione, in consapevole contrasto con il precedente già ricordato, è sorretta da un’approfondita analisi del testo dell’art. 710 c.p.c., novellato dalla legge 29 luglio 1988 n. 331. Si osserva che il primo comma è espressamente ed esclusivamente riferito all’atto introduttivo del procedimento, e il rimando alle forme del procedimento in camera di consiglio potrebbe essere esteso a tutti gli altri aspetti del procedimento regolato solo se il contenuto della disposizione regolativa si fermasse a questa norma. Il secondo e il terzo comma dello stesso articolo, disciplinando alcuni aspetti del procedimento, dimostrerebbero invece che il rinvio alla disciplina dei procedimenti in camera di consiglio non è integrale, e che anzi l’autonoma disciplina dettata su aspetti importanti – quali il contraddittorio e l’istruttoria – è profondamente diversa da quella dettata dagli artt. 737-742 c.p.c. In particolare, risulta decisiva – in questa ricostruzione – la previsione, nel terzo comma, della possibilità di adottare, prima della definizione del procedimento, provvedimenti provvisori, e di modificarne il contenuto nel corso del procedimento. La possibilità di provvedimenti anticipatori della tutela che sarà offerta dal provvedimento finale, infatti, è estranea alla tutela camerale com’è disciplinata negli artt. 737 – 742 c.p.c. Il potere di pronunciare simili provvedimenti, considerato secondo il canone dell’intentio legis, esigerebbe che anche il provvedimento finale, di là da un’espressa previsione, consenta una tutela immediata: il legislatore, infatti, non potrebbe attribuire efficacia esecutiva a provvedimenti provvisori, e negarne la permanenza degli effetti una volta che il loro contenuto fosse trasposto in un provvedimento definitivo; e sarebbe non meno contraddittorio permettere una tutela esecutiva immediata sulla base di un provvedimento provvisorio emesso all’esito di cognizione sommaria, e non di un provvedimento definitivo emesso all’esito di un’istruttoria svolta nella pienezza del contraddittorio. Infine si richiama il principio costituzionale desumibile dall’art. 24 della Costituzione, che implica una consequenzialità logica e giuridica tra espressa previsione di una tutela anticipatoria in corso di procedimento ed esecutività immediata del provvedimento conclusivo, tale da non tollerare l’operatività della diversa regola dettata dall’art. 741 c.p.c..

6. Si deve preliminarmente rilevare che sulla questione oggetto del presente giudizio, costituita dall’efficacia immediatamente esecutiva dei provvedimenti, emessi a norma dell’art. 9, comma 1 della legge 1 dicembre 1970 n. 898, come sostituito dall’art. 13, comma 1 della legge 6 marzo 1987, n. 74, con i quali il tribunale provvede alla revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli, e di quelle relative alla misura e alle modalità dei contributi da corrispondere ai sensi degli articoli 5 e 6 della stessa legge, non vi sono precedenti in termini nella giurisprudenza di legittimità. Le due contrastanti pronunce, richiamate nell’ordinanza interlocutoria, vertono, infatti, sui provvedimenti pronunciati dal tribunale a norma dell’art. 710 c.p.c., in tema di modifica delle condizioni di separazione, e non propriamente sui provvedimenti pronunciati a norma del novellato art. 9, comma 1 della legge n. 898 del 1970, in tema di revisione delle condizioni di divorzio. Lo stesso apparato argomentativo svolto delle due sentenza, e in particolare in quella n. 4376 del 2012, per la definizione dell’efficacia esecutiva dei provvedimenti adottati ex art. 710 c.p.c. non sarebbe direttamente utilizzabile, nonostante la generica affinità dei due procedimenti, per la soluzione del problema riguardo ai provvedimenti assunti ex art. 9, comma 1 della legge n. 898 del 1970; e ciò sebbene, come si dirà, esso offra spunti di riflessione che vanno al di là della fattispecie regolata.

Nonostante ciò, l’esame dello stato della giurisprudenza sollecitato dalla prima sezione appare ben giustificato dalla stretta connessione tra i problemi, che emerge sia dal comune richiamo – diretto o indiretto – alla disciplina dei procedimenti camerali, e sia dalla norma contenuta nell’art. 23 (testo novellato) della legge n. 898 del 1970, che estende “ai giudizi di separazione personale dei coniugi”, in quanto compatibili, le regole di cui all’articolo 4 della legge 1 dicembre 1970, n. 898, istituendo un innegabile parallelismo tra i due diversi procedimenti.

Si deve aggiungere che il parallelismo è accentuato dal fatto che il problema dell’efficacia esecutiva del provvedimento emesso in primo grado ha assunto un carattere più acuto dal momento in cui, con la novella dell’art. 282 c.p.c. (art. 33 L. 26 novembre 1990 n. 353), la sentenza pronunciata in primo grado in tutti i giudizi ordinari è divenuta esecutiva ex lege, mentre il testo dell’art. 741 c.p.c., che nega ai provvedimenti camerali efficacia esecutiva ex lege, è rimasto invariato. È opinione generalmente condivisa, in giurisprudenza come in dottrina, che il ricorso del legislatore alle forme del procedimento camerale fosse ispirato – sia nel caso della revisione delle condizioni del divorzio (legge 6 marzo 1987, n. 74, che ha novellato l’art. 9 legge n. 898 del 1970 senza estenderlo alla revisione delle condizioni di separazione) e sia nel caso della revisione delle condizioni della separazione (legge 29 luglio 1988, n.331, che detta una disciplina diversa e molto più articolata che nel caso precedente), a esigenze di maggiore speditezza nel regolamento dei rapporti personali e patrimoniali fra i coniugi e in ordine alla prole. Il regime ordinario sarebbe invece, oggi, più aderente alle esigenze particolari che il legislatore perseguiva con la novella n. 74 del 1987, del procedimento camerale che allora poteva apparire più rapido ed efficace.

Occorre ancora osservare, prima di affrontare il punto in discussione, che problemi analoghi non si pongono con riguardo al regime esecutivo delle sentenze pronunciate in primo grado, nei giudizi di separazione e in quelli di scioglimento del matrimonio. Nei secondi il legislatore del 1987 era intervenuto con il nuovo testo dell’art. 4 della legge n. 898 del 1970, a norma del quale, per la parte relativa ai provvedimenti di natura economica la sentenza di primo grado era provvisoriamente esecutiva. La stessa norma era poi ritenuta applicabile alla sentenza pronunciata nel giudizio di primo grado del processo di separazione, in forza della disposizione contenuta nell’art. 23 della legge n. 74 del 1987. La successiva novella dell’art. 282 – con la già ricordata legge n. 353 del 1990 – ha poi disposto che, in generale, le sentenze pronunciate in primo grado sono immediatamente esecutive. In questo quadro, i procedimenti di revisione delle condizioni della separazione e del divorzio appaiono come un’anomalia nel sistema generale della tutela in questa materia.

7. Per un’adeguata trattazione del tema posto dal ricorso è indispensabile muovere dalla ricostruzione sistematica delle norme che disciplinano il procedimento di scioglimento o di cessazione degli effetti del matrimonio, che di quello di revisione costituisce il giudizio presupposto. In questo giudizio – come, del resto, in quello di separazione personale dei coniugi -la tutela interinale del regime di affidamento della prole e dei rapporti economici tra i coniugi assume un carattere particolare, nel senso che essa non si pone in posizione meramente strumentale e accidentale rispetto al giudizio di cognizione, ma costituisce una tutela normalmente concorrente con l’altra, potendo mancare solo laddove non vi siano figli minori, e i coniugi siano economicamente indipendenti. Fuori di questi casi, il procedimento prevede che, sin dalla fase preliminare della comparizione dei coniugi davanti al presidente del tribunale, i loro rapporti siano regolati da opportuni provvedimenti temporanei e urgenti, i quali garantiscono – nello stesso disegno del legislatore – che non vi siano lacune temporali nella disciplina giudiziaria dei loro rapporti. Il principio è consacrato da una norma che, per la sua specialità, è sempre stata al centro dell’attenzione degli interpreti: l’art. 189 disp. att. c.p.c. stabilisce non soltanto (al primo comma) che l’ordinanza con la quale il presidente del tribunale o il giudice istruttore da i provvedimenti di cui all’articolo 708 (oggi anche 709, a seguito delle modifiche apportate dall’art. 2 d.l. 14 marzo 2005 n. 35 conv. in legge con mod. dalla L. 14 maggio 2005 n. 80) del codice costituisce titolo esecutivo; ma, inoltre, che (secondo comma) essa conserva la sua efficacia anche dopo l’estinzione del processo, finché non sia sostituita con altro provvedimento emesso dal presidente o dal giudice istruttore a seguito di nuova presentazione della domanda. Nel disegno normativo, il ruolo di questi provvedimenti è dunque così rilevante, che non viene meno neppure nel caso che il processo si estingua, e che perciò il provvedimento conclusivo, che dovrebbe costituirne il titolo, non sia emesso. Per l’argomento presente è rilevante il fatto che questa disposizione sia espressamente richiamata dall’art. 4, comma 8 della legge n. 898 del 1970, nel testo novellato dalla legge 14 maggio 2005, n.80, il quale stabilisce che, nel processo di divorzio, si applica ai provvedimenti del presidente del tribunale e a quelli del giudice istruttore l’articolo 189 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile.

Il valore della norma citata deve essere apprezzato nel quadro della giurisprudenza consolidata di questa corte, per la quale i provvedimenti adottati dal presidente del tribunale e poi dal giudice istruttore hanno natura cautelare (Cass. 1 dicembre 1966 n. 2823; 22 maggio 1990 n. 4613; 1 aprile 1998 n. 3374). La forma camerale non è mai stata ritenuta di ostacolo al riconoscimento della loro natura contenziosa; al tempo stesso, la singolarità che essi possano sopravvivere all’estinzione del processo, in tal modo contraddicendo il loro carattere meramente strumentale e anticipatorio, non è mai stata di ostacolo alla loro qualificazione cautelare, anche prima che l’ordinamento conoscesse altri casi di provvedimenti cautelari ultrattivi (art. 669 octies c.p.c.).

Nel giudizio di scioglimento o cassazione degli effetti del matrimonio, il provvedimento pronunciato nella fase preliminare dal presidente del tribunale è poi sostituito dalla sentenza pronunciata all’esito del giudizio di primo grado, che ha immediata efficacia esecutiva (art. 4 della legge n. 898/1970, come modificato già dall’art. 8 legge 6 marzo 1987 n. 74). La limitazione di questa efficacia ai provvedimenti di natura economica è oggi superata dal nuovo testo dell’art. 282 c.p.c. (art. 33, L. 26 novembre 1990 n. 353), e conserva il significato di escludere solo gli effetti propriamente costitutivi della sentenza in ordine allo status personale dei coniugi.

La differenza essenziale tra il regolamento contenuto nei provvedimenti provvisori e urgenti e quello dettato dalla sentenza che conclude il giudizio di primo grado è costituita dal fatto che, diversamente dal primo, quello contenuto nella sentenza del tribunale – e ciò vale altresì per il provvedimento che sia emesso a conclusione dell’eventuale giudizio di secondo grado – è idoneo ad acquistare l’efficacia del giudicato. Nella materia in oggetto, tuttavia, questa differenza è attenuata dal fatto che il giudicato è da intendere sempre sottoposto alla clausola rebus sic stantibus. La possibilità della revisione delle condizioni stabilite al termine di quel giudizio è appunto espressione della predetta clausola: il relativo giudizio assume pertanto il carattere di una prosecuzione – evidentemente circoscritta al tema delle condizioni regolatrici dei rapporti tra gli ex coniugi – di quel primo giudizio, del quale necessariamente condivide gli aspetti legati all’oggetto comune. Nel sistema normativo, quale emerge dall’esame della legge n. 898 del 1970 e delle sue successive modificazioni, il regime dettato dalla sentenza conclusiva del processo di scioglimento o di cessazione della sentenza di divorzio presenta, per gli aspetti qui considerati, un carattere non dissimile – quanto alla sua efficacia – da quello contenuto nel provvedimento iniziale del presidente del tribunale, e che regolerebbe ancora il rapporto qualora per qualsiasi ragione il giudizio di cognizione non fosse giunto alla sua conclusione: l’efficacia “definitiva”, derivante dalla formazione del giudicato, non assume rilievo, perché non esclude la sua modificabilità in ragione delle circostanze sopravvenute, che siano state accertate all’esito del giudizio di revisione. Rispetto a tali circostanze, appunto, sopravvenute, il giudicato è per definizione inidoneo a giustificare una minore efficacia del nuovo accertamento.

Lo stretto collegamento che deve ravvisarsi tra il giudizio di scioglimento o di cessazione degli effetti del matrimonio e quello successivo, di revisione, e che impone per il problema qui esaminato, dell’efficacia esecutiva del provvedimento emesso al termine del giudizio di primo grado, una soluzione uniforme, appare dunque dettato da ragioni immanenti alla materia trattata. A ciò non varrebbe opporre il rilievo formale che nel primo giudizio si ha a che fare con una sentenza, provvisoriamente esecutiva per una regola più generale, specificamente ribadita in materia, mentre nel secondo caso si ha a che fare con un provvedimento camerale, soggetto alla disciplina dell’art. 741 c.p.c.. Non soltanto, infatti, in questo caso il procedimento camerale è applicabile non in ragione della natura propria della materia trattata – che non è di giurisdizione volontaria ma contenziosa – bensì di una scelta del legislatore, in funzione di semplificazione e accelerazione del processo, sostanzialmente contrastante con la conclusione alla quale si perverrebbe altrimenti; per l’altro, a giustificare una diversa efficacia della sentenza di primo grado pronunciata a norma dell’art. 4 e del “decreto” emesso a norma dell’art. 9 della legge n. 898 del 1970 non varrebbe, come s’è visto, l’efficacia di giudicato del provvedimento che si tratta di modificare. La soluzione qui contrastata si porrebbe in termini di evidente e ingiustificabile irragionevolezza, risultante non già dall’intendo legis ricostruibile da un attento esame delle norme vigenti – che appare orientata in senso opposto a quella conclusione – bensì come l’effetto del tutto accidentale e indesiderato della stratificazione del tessuto normativo, conseguente a una serie diacronica di interventi frazionati e privi di coordinamento. A un tale esito interpretativo, che porrebbe questioni non manifestamente infondate di costituzionalità sotto il profilo della regola del giusto processo, ritiene la corte di dover preferire una ricostruzione sistematica della volontà del legislatore, tale da contemperare la specialità del processo, regolato in funzione della materia, con i principi della ragionevolezza. In sintesi, la soluzione deve essere ricercata all’interno della disciplina processuale, disegnata dagli articoli 4 e 9 della legge n. 898 del 1970 con speciale riguardo alla natura della controversia che ne costituisce l’oggetto, rimanendo l’implicito rimando alle regole del processo camerale confinato a un ruolo meramente residuale, per quei casi nei quali la specialità del procedimento non offra indicazioni pertinenti.

8. In conclusione deve affermarsi il principio di diritto che, in materia di revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli e di quelle relative alla misura e alle modalità dei contributi da corrispondere a seguito dello scioglimento e della cessazione degli effetti del matrimonio, a norma dell’art. 9 della legge n. 1 dicembre 1970 n. 898 e successive modificazioni, il decreto pronunciato dal tribunale è immediatamente esecutivo, in conformità di una regola più generale, desumibile dall’art. 4 della citata legge regolativa della materia e incompatibile con l’art. 741 c.p.c., che subordina l’efficacia esecutiva al decorso del termine utile per la proposizione del reclamo.

9. In conclusione il ricorso è respinto. L’assenza di precedenti puntuali in termini giustifica la compensazione delle spese del giudizio tra le parti.

P.Q.M.

La corte rigetta il ricorso e compensa le spese.

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