SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
sentenza 16 febbraio 2015, n. 3023
Svolgimento del processo
Con decisione 29.9.2011, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma irrogò all’avv. F.S. la sanzione disciplinare della cancellazione dall’Albo, avendolo ritenuto colpevole della violazione dei doveri di probità, dignità e decoro (di cui all’art. 5 del vigente Codice deontologico forense), di quello di lealtà e correttezza (di cui al seguente art. 6) nonché del dovere di agire in modo tale da non compromettere la fiducia che i terzi debbono avere nella dignità della professione (di cui al successivo art. 56). Ciò, per essersi abusivamente introdotto munito di appunti e trasmettitori, esibendo tesserino simile a quello in dotazione ai commissari di esame e qualificandosi delegato del Consiglio dell’ordine, nelle aule dell’Hotel (omissis) , mentre si svolgeva la sessione di esami di abilitazione all’esercizio della professione di avvocato per l’anno 2010, ed aver tentato di favorire partecipanti all’esame.
Avverso la decisione del Consiglio nazionale forense in data 12.12.2013, di integrale conferma di quella del Consiglio territoriale, l’avv. F.S. ha proposto ricorso per cassazione in quattro motivi, lamentando: a) la mancata sospensione del giudizio nonostante la pendenza, in relazione ai medesimi fatti, di procedimento penale per il reato di cui agli artt. 340 e 494 c.p.; b) il mancato rilievo della nullità del giudizio di primo grado per avervi preso parte un componente del Consiglio dell’Ordine (avv. Alessandro Graziani), poi dichiarato decaduto con decisione del Consiglio nazionale; c) la carenza di prova, con particolare riguardo alla mancata ammissione di testi a discarico; d) la misura eccessiva della sanzione e la sua sproporzione in rapporto al comportamento ascrittogli.
Il Consiglio dell’Ordine territoriale non ha svolto difese.
Motivi della decisione
I) – 1. Le prime tre censure rivolte dal ricorrente alla sentenza impugnata sono infondate.
2. Invero, quanto alla prima doglianza (sulla mancata sospensione del giudizio) – anche a trascurare la previsione dell’art. 54 l. 247/2012, cui pare verosimilmente ispirata la motivazione in parte qua del Consiglio nazionale forense – non può omettersi di rilevare che non risulta provato in atti (e nemmeno prospettato, atteso che, in proposito, il ricorrente riferisce di mera iscrizione nel registro “degli indagati”) il concreto esercizio di azione penale a carico del ricorrente per i medesimi fatti oggetto del (Ndr: pagina mancante)
II) – 1. Alla luce della disciplina sopravvenuta, il quarto motivo di ricorso, incidente sulla misura della sanzione, induce, viceversa, a cassare, sul punto, la sentenza impugnata ed a rinviare corrispondentemente gli atti al Consiglio nazionale forense per un nuovo esame.
2. Invero, la l. 247/2012 (“Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense”), in vigore dal 2.2.2013, contempla all’art. 65 (rubricato “Disposizioni transitorie”) un comma (il quinto, interamente dedicato all’emanando nuovo codice deontologico), che si conclude con le seguenti proposizioni: “… L’entrata in vigore del codice deontologico determina la cessazione di efficacia delle norme previgenti anche se non specificamente abrogate. Le norme contenute nel codice deontologico si applicano anche ai procedimenti disciplinari in corso al momento della sua entrata in vigore, se più favorevoli per l’incolpato”.
Nel fissare il momento di transizione dall’operatività del vecchio a quella del nuovo codice deontologico, la nuova legge professionale sancisce, dunque, esplicitamente – così prevenendo le incertezze interpretative manifestatesi in occasione di precedenti successioni di norme deontologiche (e, peraltro, risolte in base al diverso criterio del tempus regit actum: cfr. Cass. 15120/13, 28159/08) – che la successione nel tempo delle norme dell’allora vigente e di quelle dell'(allora) emanando nuovo codice deontologico (e delle ipotesi d’illecito e delle sanzioni da esse rispettivamente contemplate) deve essere improntata al criterio del favor rei.
2. In tale prospettiva, deve, d’altro canto, constatarsi che il nuovo codice deontologico approvato il 31.1.2014, pubblicato il 16.10.2014 ed entrato in vigore il 15.12.2014 – presenta, tra le principali innovazioni rispetto al codice previgente, la (ancorché non assoluta, certamente tendenziale) tipicizzazione degli illeciti e la predeterminazione delle sanzioni correlativamente applicabili. E, con peculiare riferimento alla condotta di cui agli addebiti oggetto del presente giudizio, che – mentre, il relativo art. 9 comma 2 (in tema di “Doveri di probità, dignità, decoro e indipendenza”), in combinato disposto con l’art. 20 (“Responsabilità disciplinare”), configura quale illecito disciplinare non tipizzato il comportamento dell’avvocato che, anche al di fuori dello stretto esercizio dell’attività professionale, non osservi i doveri di probità, dignità e decoro, nella salvaguardia della propria reputazione e dell’immagine della professione forense – il successivo art. 72 (sotto la rubrica “esame di abilitazione”) prevede specificamente: “2. L’avvocato che faccia pervenire, in qualsiasi modo, ad uno o più candidati, prima o durante la prova d’esame, testi relativi al tema proposto è punito con la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da due a sei mesi. 2. Qualora sia commissario di esame, la sanzione non può essere inferiore alla sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da uno a tre anni. 3….”).
3. Gli esposti rilievi – atteso che al controllo di legittimità sull’applicazione delle norme deontologiche sono estranee la qualificazione dei comportamenti addebitati e la scelta della sanzione (riservate alla valutazione gli organi disciplinari, se non eccedenti i confini della ragionevolezza: cfr. Cass., ss.uu., 15873/13, 19705/12, 20360/07, 6215/05, 20024/04) comportano che, ai fini dell’osservanza della previsione di cui all’art. 65, comma 5, l. 247/2012, gli atti siano rimessi al giudice della deontologia, affinché proceda alla definitiva qualificazione della condotta ascritta ed alla conseguente determinazione della sanzione alla luce della disciplina sopravvenuta.
III) – Alla stregua delle considerazioni che precedono, i primi tre motivi di ricorso vanno respinti, mentre, decidendo sul quarto motivo, la sentenza impugnata va cassata, con corrispondente rinvio della causa, anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità, al Consiglio nazionale forense in diversa composizione.
P.Q.M.
la Corte, a sezioni unite, rigetta i primi tre motivi di ricorso e, decidendo sul quarto motivo, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese, al Consiglio nazionale forense.
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