Suprema Corte di Cassazione
sezioni unite
sentenza 14 luglio 2015, n. 14688
Svolgimento del processo
Il dr. D.G.P. , per quanto ancora qui specificamente rileva, venne incolpato dell’illecito disciplinare di cui agli artt. 1 e 2, comma 1, lett. g), dl.vo n. 109/06, perché, in qualità di sostituto procuratore in servizio presso la Procura di Lecco, in violazione dei doveri di diligenza e con grave violazione di legge:
– nell’ambito del procedimento penale n. 783/09 GIP-3883/08 PM, iscritto a carico di L.A. , per il reato di cui all’art. 609 bis cp, omettendo di effettuare il necessario controllo sulla scadenza dei termini massimi di custodia cautelare disposta nei confronti dell’indagato, in grave violazione, commessa per negligenza inescusabile, degli artt. 303, comma 1, lett. a), n. 2, e 306 cpp, aveva avanzato richiesta di liberazione con un ritardo di complessivi giorni 208, arrecando con tale condotta, ed in violazione dei doveri di cui all’art. 1 dl.vo n. 109/06, un ingiusto danno al predetto indagato, che era rimasto ingiustificatamente ristretto sine titulo;
– nell’ambito del procedimento penale n. 2046/09 GIP-2438/09 PM. iscritto nei confronti di B.G. per i reati di cui agli artt. 337, 582, 585 cp, omettendo di effettuare il necessario controllo sulla scadenza del termine di durata massima della misura cautelare disposta nei confronti dell’indagato, ed in grave violazione, commessa per negligenza inescusabile, degli artt. 303, comma 1, lett. a), n. 1, e 306 cpp, aveva avanzato richiesta di liberazione con un ritardo di 116 giorni, arrecando con tale condotta, ed in violazione dei doveri di cui all’art. 1 dl.vo n. 109/06, un ingiusto danno al predetto imputato che rimaneva ingiustificatamente ristretto sine titulo.
La Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, con sentenza del 12.12.2014-22.1.2015, corretta, su richiesta del difensore dell’incolpato, con provvedimento del 20.3.2015, assolse il dr. D.G. da analoga incolpazione relativa ad un altro episodio e, ritenutane la responsabilità quanto alle condotte relative ai ricordati procedimenti L. e B. , gli inflisse la sanzione disciplinare della censura.
Ritenne la Sezione disciplinare, quanto al procedimento L. , l’inaccoglibilità della prospettazione difensiva secondo cui diversa e maggiore avrebbe dovuto essere la durata della custodia cautelare e, quanto al procedimento B. , che la responsabilità dell’incolpato non poteva essere esclusa dal fatto che tale procedimento facesse parte di un gruppo di novecento fascicoli processuali contro noti riassegnati al magistrato in data 1 ottobre 2009.
Avverso l’anzidetta sentenza della Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura il dr. D.G.P. ha proposto ricorso per cassazione fondato su sette motivi.
Il Ministero della Giustizia non ha svolto attività difensiva.
Il Procuratore Generale ha concluso per l’accoglimento parziale del ricorso con applicazione dell’ammonimento.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, relativo al procedimento L. , il ricorrente denuncia violazione dell’art. 2, comma 2, dl.vo n. 109/06; assume che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Sezione disciplinare, il termine massimo di custodia cautelare per la fase delle indagini preliminari era di un anno, e non di sei mesi, in quanto la pena astrattamente applicabile era non inferiore nel massimo a venti anni, dovendo la pena edittale massima di 10 anni prevista dall’art. 609 bis cp essere aumentata per la circostanza aggravante ad effetto speciale della recidiva reiterata e, ulteriormente, per l’aggravante della minore difesa, contestata in fatto, di cui all’art. 61, n. 5, cp; rileva al riguardo che la Sezione disciplinare, disattendendo tale assunto, non aveva applicato il principio secondo cui non può dar luogo a responsabilità disciplinare del magistrato l’attività di interpretazione di norme di diritto, che, nella specie, neppure era stata definita come abnorme o implausibile.
Con il secondo motivo, sempre relativo al procedimento L. , il ricorrente denuncia vizio di motivazione e violazione di plurime norme di legge; al riguardo deduce diffusamente le ragioni per cui in effetti, nel caso di specie, il termine massimo di custodia cautelare per la fase delle indagini preliminari era di un anno, e non di sei mesi, stante la correttezza giuridica dell’interpretazione già esposta nel precedente motivo, e si duole che la Sezione disciplinare abbia omesso di motivare sugli orientamenti giurisprudenziali favorevoli alla sua opzione interpretativa; deduce inoltre che, essendo la detenzione iniziata il 22.4.2009, il termine annuale scadeva il 22.4.2010, epoca, tuttavia, in cui esso ricorrente non aveva più la materiale disponibilità del fascicolo, avendolo depositato al GUP con la richiesta di rinvio a giudizio in data 17.12.2009, e assume che la responsabilità del magistrato sul controllo della scadenza dei termini della misura cautelare deve essere ancorata alla materiale disponibilità del fascicolo processuale.
Con il terzo motivo, relativo al procedimento B. , il ricorrente denuncia violazione di plurime norme di legge; ribadendo le argomentazioni già svolte con il secondo motivo, deduce che, pure
nel caso di specie, il termine di durata massima della custodia cautelare avrebbe dovuto essere calcolato facendo riferimento anche alla contestata recidiva reiterata infraquinquennale, cosicché il ritardo doveva essere considerato soltanto di 24 giorni, con conseguente diversa valutazione della gravità oggettiva del fatto addebitato.
I suddetti tre motivi, fra loro connessi, vanno esaminati congiuntamente.
1.1 Deve premettersi che non può essere condiviso l’assunto difensivo del ricorrente, svolto nell’ambito del secondo motivo di ricorso, secondo cui dovrebbe essere esclusa la sua responsabilità sul controllo della scadenza dei termini della misura cautelare per il periodo successivo alla mancata materiale disponibilità del fascicolo processuale, nella specie decorrente, quanto all’incolpazione relativa al L. , dalla richiesta di rinvio a giudizio in data 17.12.2009.
La potestà del PM di richiedere la revoca della misura cautelare (art. 299, comma 3, cpp) sussiste infatti anche successivamente alla richiesta del rinvio a giudizio (come, del resto, nel caso di specie, seppur tardivamente, si è verificato), posto che la medesima disposizione di legge contempla l’ipotesi che, nei casi ivi considerati, il giudice provveda al riguardo “anche d’ufficio”; si tratta quindi di un potere-dovere officioso del giudice che, come espresso dall’uso della congiunzione “anche”, non esclude quello concorrente del PM di richiedere il provvedimento; correlato a tale persistente potere è il conseguente dovere dello stesso PM di procedere in tal senso qualora i termini di custodia cautelare siano scaduti; deve quindi ritenersi che l’obbligo di diuturnamente vigilare circa la persistenza delle condizioni, anche temporali, cui la legge subordina la privazione della libertà personale non viene meno, nei confronti del PM, per essere stata inoltrata la richiesta di rinvio a giudizio (tenuto anche conto della facoltà di estrarre copia degli atti indicati dall’art. 419, commi 2 e 3, cpp prevista dall’art. 131 delle norme di attuazione del cpp), laddove, al contrario, il coesistente dovere del Giudice presuppone che egli sia stato già investito del procedimento per l’esercizio di uno dei poteri appartenenti alla sua competenza funzionale (cfr, Cass., SU, n. 19097/2003).
1.2 Un tanto premesso, deve osservarsi che il ricorrente assume, in relazione ad entrambi casi per i quali è stata pronunciata condanna, che diverso (e maggiore) doveva ritenersi il termine di scadenza dei termini della custodia cautelare.
In entrambi i casi, infatti, avrebbe dovuto essere considerata, ai fini del calcolo della pena, la contestata recidiva reiterata ex art. 99, comma 4, cp, di cui si assume la ricomprensione nell’ambito delle circostanze “ad effetto speciale”, delle quali, a mente dell’art. 278 cpp, deve tenersi conto, agli effetti delle misure cautelari, per l’individuazione della pena stabilita dalla legge.
La questione è stata decisa dalle Sezioni Unite Penali con la sentenza n. 17386/2011, con la quale è stato affermato il principio di diritto secondo cui nel computo della pena edittale, ai fini della verifica dell’arresto in flagranza, e più in generale per la determinazione della pena agli effetti dell’applicazione delle misure cautelari, non si deve tenere conto della recidiva reiterata.
Ne consegue che, poiché, per entrambi gli episodi contestati, ai fini della prospettata determinazione in misura più estesa dei termini di custodia cautelare, assume efficacia decisiva la considerazione della recidiva reiterata (in aggiunta, quanto al procedimento L. , alla pretesa necessaria considerazione dell’aggravante di cui all’art. 61, n. 5, cp), deve convenirsi che i ritardi nelle richieste di liberazione si sono effettivamente verificati nei termini ritenuti dalla sentenza impugnata.
1.3 Il ricorrente invoca tuttavia l’applicazione del principio secondo cui il comportamento del magistrato può essere censurato sul piano disciplinare con riguardo ad atti e provvedimenti resi nell’esercizio delle sue funzioni e, quindi, anche con riguardo all’attività interpretativa e applicativa delle norme di diritto, purché tale attività riveli scarsa ponderazione, approssimazione, frettolosità o limitata diligenza, idonee a riverberarsi negativamente sulla credibilità del magistrato o sul prestigio dell’ordine giudiziario, restando invece esclusa la censurabilità dell’attività interpretativa del magistrato allorché pervenga a soluzioni non implausibili, ancorché criticabili come non fondate (cfr, in particolare, Cass., SU n. 7379/2013).
1.4 Con riferimento alla questione della computabilità della recidiva reiterata, deve considerarsi che la già ricordata sentenza delle Sezioni Unite Penali n. 17386/2011 è stata emessa successivamente agli episodi oggetto di incolpazione e che, come emerge anche dalla lettura di tale sentenza, le Sezioni Unite erano stata investite del problema interpretativo in presenza di un contrasto di giurisprudenza al riguardo (in particolare, come si legge nella ricordata decisione delle Sezioni Unite Penali, nel senso dell’opzione ermeneutica propugnata dall’odierno ricorrente si era espressa anche la Corte di Cassazione con la sentenza della Sez. 2, n. 29142 del 10.7.2008, depositata il 14.7.2008, Major); tanto basta per ritenere non implausibile l’opzione ermeneutica prospettata dal ricorrente.
1.5 Ad analoghe conclusioni può addivenirsi anche con riferimento alla questione della computabilità, quanto al procedimento L. , dell’aggravante di cui all’art. 61, n. 5, cp; ciò perché, da un lato, la cosiddetta contestazione in fatto dell’aggravante è stata ritenuta valida pur in mancanza dell’indicazione della disposizione normativa nel capo d’imputazione (cfr, ex plurimis, Cass. Pen., nn. 47863/2003; 46323/2011; 40283/2012; 14651/2013), essendo sufficiente che, conformemente al principio di correlazione tra accusa e decisione, l’imputato sia posto nelle condizioni di espletare pienamente la propria difesa sugli elementi di fatto integranti l’aggravante, laddove, nella specie, l’imputazione contemplava espressamente l’abuso delle condizioni di inferiorità psichica del minore, affetto da immaturità intellettiva, affettiva e relazionale; dall’altro perché, nel caso di specie, il delitto contestato, pur indicando le fattispecie astratte di cui all’art. 609 bis, commi 1 e 2 n. 1, cp, descriveva il fatto nell’avere l’agente costretto il minore a subire atti sessuali nonostante il suo espresso dissenso, configurando quindi in concreto l’ipotesi criminosa dell’art. 609 bis, comma 1, cp (cosiddetta violenza sessuale per costrizione), anziché quella, cosiddetta per induzione, di cui al comma 2, rispetto alla quale soltanto costituisce elemento costitutivo del reato l’abuso delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto; cosicché non appare implausibile il ritenere che siffatto abuso delle indicate condizioni del soggetto passivo, appunto perché non concretizzante un elemento costitutivo del delitto contestato, potesse non di meno costituire in fatto la contestazione dell’aggravante di cui all’art. 61, n. 5, cp.
1.6 Le considerazioni testé svolte non giovano tuttavia al ricorrente, atteso che:
– quanto alla prima delle incolpazioni sanzionate, anche sulla base della opzione interpretativa asseritamente seguita dal ricorrente, il termine (di un anno, anziché di sei mesi) di scadenza della custodia cautelare sarebbe maturato il 22.4.2010, laddove soltanto il 18.5.2010 l’imputato era stato rimesso in libertà, subendo pertanto comunque un’indebita restrizione della libertà personale di 26 giorni;
– quanto alla seconda delle incolpazioni sanzionate, perché, come riconosciuto dallo stesso ricorrente, il ritardo addebitabile, pur aderendo alla sua impostazione interpretativa, sarebbe stato di 24 giorni.
Dunque, in entrambi i casi, non può ritenersi che la diversa opzione interpretativa addotta dal ricorrente sia stata il presupposto giuridico sul quale egli ha fondato la sua attività, perché, se così fosse stato, egli avrebbe dovuto richiedere la liberazione degli imputati in coincidenza con la ritenuta (secondo tale interpretazione) scadenza del termine di custodia cautelare e non già in un tempo ampiamente successivo; in altri termini l’invocazione della indicata diversa soluzione interpretativa è priva di decisività al fine di escludere la sussistenza dei ritardi contestati, restando quindi confermata l’oggettiva sussistenza degli addebiti sanzionati ed in tal senso dovendo pertanto essere parzialmente modificata la motivazione del’impugnata sentenza.
1.7 Ne discende l’inaccoglibilità del primo, secondo e terzo motivo di ricorso.
2. Con il quarto motivo il ricorrente, con riferimento all’incolpazione relativa al B. , denuncia vizio di motivazione, assumendo che la Sezione disciplinare non aveva spiegato in qual modo avrebbe dovuto essere svolto un “accurato controllo” sui novecento procedimenti contro indagati noti che gli erano stati riassegnati (a seguito del trasferimento del precedente magistrato assegnatario) e sul perché aveva ritenuto che tale incombente avrebbe richiesto un “impegno modesto”, né perché il ritardo nella liberazione dell’indagato fosse stato tale da non poter essere bilanciato con la scusabilità della negligenza ascrittagli; assume inoltre che l’interpretazione delle norme disciplinari resa nella sentenza impugnata appariva ipotizzare, contra legem, una sorta di responsabilità oggettiva, tale da rendere superfluo e irrilevante l’esame circa la sussistenza del fattore causale soggettivo della negligenza e della sua inescusabilità.
Con il quinto motivo, relativo ad entrambe le incolpazioni sanzionate, il ricorrente denuncia vizio di motivazione, lamentando che la Sezione disciplinare non aveva tenuto conto della circostanza oggettiva e assolutamente eccezionale, tale da escludere gli illeciti, quanto meno in ordine al requisito della inescusabilità della negligenza, costituita dall’assegnazione di oltre novecento procedimenti contro indagati noti, senza alcuna indicazione circa lo status libertatis dei medesimi; né era stato tenuto conto che agli imputati era stata comminata una pena, ovvero una misura di sicurezza, di gran lunga superiore al periodo di custodia cautelare e che era stato esso ricorrente, e non il GIP ovvero il difensore, a richiedere la liberazione tramite la richiesta di revoca della misura cautelare; parimenti non era stata fatta alcuna valutazione sull’entità del carico esigibile per il lavoro del PM, sulla situazione di grave carenza d’organico dell’ufficio di appartenenza e sulla sua situazione familiare, pur a fronte della valutazione positiva data alla sua professionalità; assume in definitiva che i contestati ritardi si erano verificati in una situazione complessiva non inescusabile.
I due motivi, fra loro connessi, possono essere esaminati congiuntamente.
2.1 Osserva il Collegio che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, deve attribuirsi a gravissima negligenza del magistrato ogni violazione del diritto di libertà non dovuta a cause eccezionali, ovvero già determinate per legge, poiché, per i rilevanti poteri che devono essere esercitati sulla libertà degli indagati, egli è tenuto ad una particolare attenzione, la cui violazione, se non necessitata da circostanze di fatto che impediscano in modo assoluto la scarcerazione, incide su un diritto fondamentale direttamente tutelato dalla Costituzione e dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo; pertanto la disapplicazione della norma che impone la liberazione dell’indagato può essere giustificata solo da un elemento esterno all’illecito, necessario a delimitarne portata e funzione, cioè da una circostanza che rientri nella categoria delle cosiddette “condizioni di esigibilità” dell’ottemperanza al precetto normativo (cfr, ex plurimis, Cass, SU, n. 18191/2013).
È stato altresì precisato che il magistrato ha l’obbligo di diuturnamente vigilare circa la persistenza delle condizioni, anche temporali, cui la legge subordina la privazione della libertà personale di chi è sottoposto ad indagini, cosicché, in caso di notevole ritardo rispetto al momento in cui erano decorsi i termini di custodia cautelare, non può assumere rilevanza il fatto che il magistrato sia stato sottoposto, in quello stesso periodo, ad un gravoso carico di lavoro e vi abbia fatto fronte, dimostrando notevole produttività, nonostante la sussistenza di difficoltà familiari e personali (cfr, Cass., SU, n. 507/2011).
2.2 Nel caso di specie, contrariamente a quanto assunto dal ricorrente, deve escludersi che la sentenza impugnata abbia ipotizzato, contra legem, una sorta di responsabilità oggettiva, avendo espressamente rilevato l’inconferenza del rilievo secondo cui la difesa non aveva sollevato la questione della scadenza dei termini, proprio in considerazione dell’obbligo del magistrato di vigilare diuturnamente circa la persistenza delle condizioni, anche temporali, a cui la legge subordina la privazione della libertà personale del soggetto sottoposto ad indagini ed evidenziato che il dato relativo alla riassegnazione di ben novecento fascicoli, nell’ambito di una situazione di carico già gravoso, non andava enfatizzato oltre misura, dovendo considerarsi che il controllo dello stato dei procedimenti con indagati detenuti, per quanto accurato, avrebbe richiesto un impegno modesto e avrebbe dovuto essere necessariamente svolto, alla luce degli interessi in gioco, proprio nel momento in cui i fascicoli erano stati affidati all’incolpato. Ed invero – e premesso che il ricorrente neppure specifica quanti dei procedimenti di nuova assegnazione riguardassero effettivamente soggetti sottoposti a custodia cautelare -, proprio il rilevato obbligo di diuturna vigilanza al riguardo avrebbe imposto, con immediatezza e precedenza su ogni altro relativo incombente, la individuazione di quali di tali procedimenti riguardavano soggetti sottoposti a misure cautelari e dei relativi termini di scadenza, dovendo ritenersi che tale preliminare impegno, pur necessitando di un qualche, ma pur sempre contenuto, margine temporale, non poteva ritenersi connotato da un’eccezionalità tale da giustificare le richieste di scarcerazione con gli indicati cospicui ritardi, né, come evidenziato nella sentenza impugnata, poteva richiedere, secondo la prospettazione dell’incolpato, un lasso di tempo di tre mesi e mezzo. In tale prospettiva, al fine di escludere l’inescusabilità della negligenza, non costituiscono quindi elementi di giudizio caratterizzati da decisività, né singolarmente considerati, né nel loro complesso, i problemi di carenza di organico dell’ufficio di appartenenza; l’entità complessiva del carico di lavoro, quand’anche superiore alle stime di esigibilità; l’assenza di iniziative da parte del difensore e del GIP; la situazione familiare del ricorrente, peraltro caratterizzata da circostanze di non particolare rilievo (una figlia di quasi due anni e l’attesa di un altro figlio con gravidanza a rischio); le positive valutazioni sull’attività professionale; tanto meno, l’entità delle sanzioni in prosieguo inflitte ai soggetti sottoposti alle misure cautelari.
2.3 I motivi all’esame vanno pertanto disattesi.
3. Con il sesto motivo, denunciando vizio di motivazione e inosservanza dell’art. 3 bis dl.vo n. 109/06, il ricorrente si duole che la Sezione disciplinare non abbia motivato sull’applicabilità della indicata esimente, di cui si assume le pertinenza alla realizzazione di una condotta disciplinare da stimarsi irrilevante ove non sia compromessa l’immagine del magistrato.
Con il settimo motivo, denunciando vizio di motivazione, il ricorrente lamenta che la Sezione disciplinare non abbia motivato in ordine alla graduazione della sanzione applicata e, in particolare, sul perché non sia stata irrogata quella minima dell’ammonimento.
Anche tali motivi, tra loro connessi, vanno esaminati congiuntamente.
3.1 Premesso che, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, ai fini dell’applicabilità dell’art. 3 bis dl.vo n. 109/06, non rileva il pregiudizio in concreto dell’immagine del singolo magistrato, quanto quello della lesività del comportamento di questo per l’immagine o l’onorabilità di tutta la magistratura, spesso oggetto di critiche nell’opinione pubblica per i ritardi e la lentezza con cui opera (cfr, Cass., SU, nn. 69/2014; 648/2015), la ritenuta esclusione dell’applicabilità della suddetta esimente, così come la scelta della sanzione della censura, è riscontrabile, alla luce del complesso della motivazione svolta, nella valutazione dell’oggettiva gravità del ritardo verificatosi nel procedimento B. “pur tenendo conto del lodevole profilo professionale” dell’incolpato (e, quindi, a fortiori, in quello, maggiore, verificatosi nel procedimento L. ), valutazione che risulta ad un tempo incompatibile con la ricorrenza della “scarsa rilevanza del fatto” ed adeguata al fine dell’applicazione della sanzione in misura appena superiore a quella minima dell’ammonimento, dovendo al riguardo tenersi anche conto della previsione dell’art. 5, comma 2, dl.vo n. 109/06, nella parte in cui stabilisce che quando più illeciti disciplinari, commessi in concorso tra loro, sono puniti con la medesima sanzione, si applica la sanzione immediatamente più grave, ancorché possa essere applicata anche la sanzione meno grave se compatibile.
3.2 Ne discende l’inaccoglibilità anche dei mezzi all’esame.
4. In definitiva il ricorso va rigettato.
Non è luogo a pronunciare sulle spese, non avendo il Ministero della Giustizia svolto attività difensiva.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; nulla per le spese.
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