La massima

Il chirurgo ospedaliero che invita i pazienti a recarsi presso il proprio studio privato per una visita di controllo post-operatoria a pagamento percepisce un ingiusto vantaggio a scapito del paziente che avrebbe potuto ottenere la stessa prestazione in sede ospedaliera senza ulteriori esborsi economici rispetto al ticket già pagato. In relazione a tale condotta è irrilevante il fatto che il chirurgo, operando nel privato la visita post-operatoria, finisca comunque con il garantire il raggiungimento della finalità pubblica di cura, considerato che non è richiesto che tale fine debba essere perseguito in modo esclusivo, dato che la sussistenza del reato è compatibile quando accanto al fine di vantaggio ingiusto si sovrapponga o si affianchi anche il conseguimento di un interesse pubblico.

 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE VI

SENTENZA 17 ottobre 2012, n.40824

Ritenuto in fatto e considerato in diritto

 

N..G. ricorre, a mezzo del suo difensore, avverso la sentenza 10 maggio 2011 della Corte di appello di Cagliari deducendo vizi della decisione nei termini che verranno ora esaminati.

1) le accuse e le decisioni dei giudici di merito.

Con sentenza 23 ottobre 2009, confermata in punto di responsabilità dalla Corte di appello di Cagliari in data 10 maggio 2011, il Tribunale di Cagliari, dichiarò il dr. N..G. colpevole del reato continuato di abuso d’ufficio (commesso in (omissis)), perché, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, in qualità di medico chirurgo in servizio presso il Reparto di chirurgia, con mansioni di coordinatore dell’Unità di Coloproctologia (del Presidio Ospedaliero (omissis) ), nello svolgimento del predetto servizio, in violazione dell’art. decies, comma 1 del D. Lgv.o 19 giugno 1999, n. 229, del regolamento di disciplina dell’attività libero professionale intramuraria dell’ASL n. (OMISSIS) e del successivo chiarimento del Direttore Sanitario della stessa ASL in data 21.11.03, omettendo altresì di astenersi in presenza di un interesse proprio (e così violando anche gli artt. 2 e 6 del D.M. 28 novembre 2000), procurava intenzionalmente a sé medesimo un ingiusto vantaggio patrimoniale. In particolare, all’atto delle dimissioni dall’ospedale di alcuni pazienti, indicati nelle persone di M.F. , B.G. , B.G. , Me.Ce. , V.F. , contravvenendo all’obbligo di astenersi in presenza di un interesse proprio, li invitava esplicitamente a recarsi per la ‘visita di controllo post operatoria’ presso il suo studio professionale, ove poi eseguiva delle visite a pagamento per l’importo di Euro 200 ciascuna, senza informare i pazienti stessi circa la possibilità di ottenere la medesima prestazione presso quel Presidio Ospedaliero di (omissis) , senza ulteriori spese, in quanto detta attività era già remunerata dalla tariffa, onnicomprensiva, corrisposta per il ricovero e l’intervento chirurgico.

2.) i motivi di impugnazione e le ragioni della decisione di questa Corte.

Con un primo motivo di impugnazione viene dedotta inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonché vizio di motivazione sotto il profilo dell’affermata sussistenza dell’elemento materiale del delitto di abuso d’ufficio e della ingiustizia della condotta, recuperate dalla corte distrettuale ‘soprattutto dall’inottemperanza del dovere di astensione’ in presenza di un interesse proprio (pag.17). In particolare si lamenta che non si sia precisato quale fosse l’interesse del Presidio ospedaliero e quello contrapposto del medico ed inoltre in cosa consistesse il conflitto medesimo, all’atto dell’invito del chirurgo al paziente di recarsi (a pagamento) nel suo studio privato per l’esecuzione della visita post-operatoria, successivamente eseguita con esborso della somma di Euro 200.

Con un secondo motivo si lamenta vizio di motivazione in ordine alla sostenuta ingiustizia del vantaggio patrimoniale, non potendosi ritenere ingiusta la spesa posta a carico del paziente per l’esecuzione extra moenia della visita post-operatoria.

Nessuno dei due motivi merita accoglimento per palese loro infondatezza.

Secondo l’orientamento della Corte di cassazione civile, il contratto di prestazione d’opera professionale concluso tra paziente e medico e, per esso, tra paziente e struttura sanitaria, rientra nell’ambito di applicazione delle norme di disciplina dei contratti del consumatore (cfr. Cass. civ. sez. 3, Ordinanza n. 20/2009 Rv. 606960), ed il concreto relazionarsi tra medico curante e paziente va valutato come ‘contratto di protezione’ (cfr. Cass. civ. Sez. 3, Ordinanza 6824/2010 Rv. 612052) nel quale la posizione dell’ammalato si qualifica come quella di un contraente debole.

Orbene, nel reato di abuso in atti di ufficio come modificato dalla legge 12 aprile 1990 n. 86 possono ritenersi confluite le originarie figure di peculato per distrazione, interesse privato e abuso innominato ed il reato è punito a titolo di dolo specifico, sicché alla cosciente e volontaria condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio di ‘abusare’ del suo ufficio, deve accompagnarsi la cosiddetta ‘finalizzazione’ della condotta stessa, integrante appunto la specificità del dolo, consistente nella necessità che il fatto sia posto in essere ‘al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale (secondo comma) o non patrimoniale (primo comma)’.

Inoltre il reato di abuso di ufficio, diretto ad arrecare ad altri un danno ingiusto, ha natura plurioffensiva, in quanto è idoneo a ledere, oltre il buon andamento e la trasparenza della P.A., il concorrente interesse del privato, nella specie paziente destinatario di ‘visita post-operatoria’ a non essere turbato nei suoi diritti dal comportamento illegittimo e ingiusto del pubblico ufficiale (Cass. pen. sez. 6, C.C. 29 maggio 2012 Del Latte) e che, in presenza della violazione del dovere di astensione, il reato si integra, come nella specie, quando concorre anche un ingiusto vantaggio patrimoniale o un danno ingiusto (Cass. pen. sez. 6, 3 novembre 2011 Aulicino).

Questa Corte ha avuto modo di affermare la sussistenza del delitto di abuso d’ufficio nella condotta del medico specialista di una struttura sanitaria pubblica che, immediatamente dopo aver effettuato una visita ambulatoriale, inviti il paziente a recarsi nel suo laboratorio privato per un approfondimento diagnostico, anziché indirizzarlo ad uno dei contigui presidi ospedalieri, perché tale condotta viola il dovere di astensione e realizza un ingiusto vantaggio patrimoniale in favore del medico che non cessa di esercitare l’attività di pubblico rilievo nella fase del cosiddetto dopo-visita (Cass. pen. sez. 6, 27936/2008 Rv. 240653).

Orbene nella presente vicenda si versa in una situazione, si sovrapponibile, ma di maggior disvalore in quanto, il medico, con la visita post-operatoria in ambito privato, viene a percepire, un ingiusto vantaggio (da doppia retribuzione), con danno del paziente (che viene a versare un emolumento già compreso nel ticket), quale conseguenza della dolosa e funzionale carenza di informazione, al paziente stesso, della possibilità di ottenere il medesimo risultato terapeutico in sede ospedaliera: alternativa questa favorevole alla ‘persona operata’, ma da essa non potuta esercitare per doloso difetto di informazione, in un contesto in cui il pubblico ufficiale ha violato manifestamente il dovere di astensione, indirizzando le parti nel suo studio privato per una prestazione che doveva essere contrattualmente praticata in ambito ospedaliero.

Sotto tali profili è irrilevante il fatto che il chirurgo, operando nel privato la visita post-operatoria, finiva comunque con il garantire il raggiungimento della finalità pubblica di cura, considerato che non è richiesto che tale fine debba essere perseguito in modo esclusivo, dato che la sussistenza del reato è compatibile quando accanto al fine di vantaggio ingiusto si sovrapponga o si affianchi anche il conseguimento di un interesse pubblico (Cass. Pen. Sez. 6, 5507/1996 Rv. 205467 P.G. in proc. Scopinaro Massime precedenti Vedi: Rv. 201348).

In conclusione le censure formulate, nel loro sviluppo finalizzato al favorevole esito in punto di giudizio di responsabilità, implicano un inammissibile frazionamento dell’intervento ospedaliero, nella specie connotato da attività chirurgica e successiva necessaria verifica della adeguatezza dell’intervento stesso, l’una e l’altra apprestabili nello stesso ambito ospedaliero.

Infatti l’oggetto del contratto d’opera (che regola il rapporto paziente struttura ospedaliera) è l’esito chirurgico nella sua globalità, il quale risulta dallo stesso paziente economicamente supportato con il versamento del ticket, senza necessità di ricorrere all’ambulatorio privato del chirurgo, al quale compete l’obbligo di ‘concludere’ l’intervento professionale nella sede naturale, ospedaliera, e senza ulteriori esborsi economici non dovuti, a meno : che sia lo stesso paziente che opti, ‘re cognita’, per tale soluzione, volendo che l’autore della visita post-operatoria sia lo stesso medico che ha praticato l’intervento.

In altre parole il chirurgo era tenuto a definire il ‘rapporto terapeutico’ con il paziente all’interno della struttura ospedaliera in quanto, come ampiamente emerso agli atti, la visita ‘post-operatoria’ faceva parte dell’accordo negoziale per cui era stato versato il ticket.

A tale obbligo contrattuale, corrispondeva l’interesse del Presidio ospedaliero all’esatto ed integrale adempimento della prestazione terapeutica, data dalla ‘visita post-operatoria intra moenia’, anche se non necessariamente ad opera del chirurgo che aveva materialmente operato.

Vincolo questo, peraltro, che comportava come corollario l’obbligo derivato del chirurgo di astenersi dal porre in essere condotte con esso incompatibili, a maggior ragione se comportanti per il paziente un esborso non dovuto di denaro, in quanto a ciò bastava l’avvenuto versamento del ticket. Né può sostenersi che si è trattato nella specie di una ‘scelta volontaria dei pazienti’, posto che non risulta affatto che gli stessi siano stati informati del loro diritto di essere visitati, senza aggravi economici ulteriori, all’interno della struttura pubblica nella quale era stato praticato l’intervento chirurgico.

Nessun dubbio quindi circa la sussistenza della materialità e dell’azione esecutiva del contestato delitto.

Con un terzo motivo si prospetta violazione di legge e vizio di motivazione sull’elemento soggettivo del reato, tenuto conto che la circostanza, valorizzata (tra le altre) dalla corte distrettuale, della falsità delle date di dimissioni, ha riguardato soltanto 2 delle 19 cartelle cliniche sottoposte ad esame.

Il motivo non supera la soglia dell’ammissibilità posto che impone alla Corte di legittimità una rivalutazione dei dati probatori quali esaminati ed argomentati dai giudici di merito con una giustificazione ineccepibile in punto di soggettività del reato che si è – tra l’altro fondata – sul dato, inoppugnabile, che in almeno due delle quietanze rilasciate dal medico, l’imputato ha avuto cura di indicare date posteriori a quelle della concreta esecuzione, e ciò all’evidente effetto di rendere ‘autonoma e scollegata la sua prestazione’ rispetto alla visita post-operatoria apprestabile nel Presidio ospedaliero.

Il terzo motivo è pure radicalmente infondato considerato che in tema di elemento soggettivo del delitto di abuso d’ufficio, il dolo intenzionale riguarda soltanto l’evento del reato, mentre gli altri elementi della fattispecie sono oggetto di dolo generico (Cass. pen. sez.. 6,34116/2011 Rv. 250833).

Il ricorso quindi va dichiarato inammissibile.

All’inammissibilità del ricorso stesso consegue, ex art. 616 C.P.P., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle ammende che si stima equo determinare in Euro. 1000,00 (mille).

 

P.Q.M.

 

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro. 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *