Cassazione toga rossa

Suprema Corte di Cassazione
sezione VI
sentenza 26 novembre 2015, n. 46954

Ritenuto in fatto

1. Con la decisione indicata in epigrafe la Corte di Appello di Messina ha confermato la sentenza del Tribunale di Patti del 14.10.2010 con cui B.F. è stato riconosciuto colpevole del reato di peculato e condannato, concessegli le attenuanti generiche e l’attenuante del fatto di particolare tenuità (art. 323 bis c.p.), alla pena condizionalmente sospesa di un anno e sei mesi di reclusione.
Condotta criminosa ascritta al B. , incaricato di pubblico servizio (o “agente contabile”) quale titolare di una ricevitoria del gioco del lotto (n. XXXXXX di Patti) affidatagli in regime di concessione dall’Amministrazione autonoma dei Monopoli di Stato, per essersi lo stesso appropriato la somma di Euro 2.824,64, corrispondente (detratte le cifre per vincite pagate agli utenti e per l’aggio di sua pertinenza) agli importi riscossi per le giocate ricevute nella settimana contabile dal 24 marzo (mercoledì) al 30 marzo (martedì) del 2004, omettendo di versare detta somma alla amministrazione entro il giovedì successivo, come stabilito dal contratto di concessione.
Le due conformi decisioni di merito, dopo aver ripercorso vigente disciplina primaria e regolamentare della gestione delle ricevitorie del lotto in rapporto di concessione, hanno ricostruito le scansioni modali e temporali della condotta appropriativa posta in essere dal B. , sottolineando come la stessa vada univocamente sussunta nell’area della fattispecie criminosa del peculato, come del resto già affermato dalla giurisprudenza di legittimità.
In particolare la sentenza di secondo grado, respingendo uno specifico motivo aggiunto di appello, ha escluso la riconducibilità del fatto appropriativo del B. alla ipotesi criminosa speciale di cui all’art. 8 L. 19.4.1990 n. 85 (recante modificazioni della legge 2.8.1982 n. 528 sull’ordinamento del gioco del lotto), secondo la quale il raccoglitore del gioco del lotto che versa i proventi della raccolta del gioco (scommesse) oltre il giovedì della settimana successiva all’estrazione è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a lire due milioni (reato da ritenersi prescritto alla data della decisione di appello). Tale norma, osserva la Corte territoriale, punisce la sola circoscritta ipotesi del semplice “ritardo” (di pochi giorni) nel versamento dei proventi della ricevitoria e non è applicabile alla condotta di appropriazione dell’imputato, protrattasi ben oltre la settimana e, soprattutto, dopo l’intervenuta diffida ad adempiere notificatagli dall’Amministrazione dei M.S., la relativa procedura essendosi poi esaurita con la revoca (21.7.2004) della concessione per la raccolta delle giocate del lotto (ricevitoria) conferita al B. . Donde congiuntamente, aggiungono i giudici di appello, l’irrilevanza per gli effetti di cui all’art. 314 c.p. del postumo versamento da parte del B. della somma dovuta, verificatosi soltanto 5.12.2004.
2. Contro la sentenza di appello B.F. ha proposto, con il ministero del difensore, ricorso per cassazione, deducendo le violazioni di legge e le carenze della motivazione di seguito riassunte.
2.1. Violazione degli artt. 521, 522, 552 e 649 c.p.p. e difetto di motivazione.
Come dedotto con un motivo aggiunto di appello, l’accusa aveva in origine contestato al B. il reato di cui all’art. 314 c.p., chiedendone il rinvio a giudizio. Ma all’esito dell’udienza preliminare svoltasi il 4.4.2006 il g.u.p. del Tribunale di Patti aveva disposto – ai sensi dell’art. 33 sexies c.p.p.- la restituzione degli atti al p.m., riqualificando la condotta dell’imputato a norma dell’art. 8 L. 85/1990, reato per il quale è previsto (artt. 550, 552 c.p.p.) l’esercizio dell’azione penale mediante citazione diretta a giudizio davanti al Tribunale in composizione monocratica. In siffatta situazione processuale il p.m. aveva una duplice alternativa: o impugnare per cassazione il provvedimento del g.u.p., censurandone l’abnormità; o accedere alla decisione, disponendo la citazione diretta a giudizio del prevenuto per il reato di cui all’art. 8 L. 85/1990 come riqualificato dal g.u.p. Il procedente p.m., invece, non tenendo in alcun conto il provvedimento del g.u.p., ha formulato nuova richiesta di rinvio a giudizio per il reato di peculato, accolta dal g.u.p. (magistrato diverso dal precedente) che ha emesso il decreto dispositivo del giudizio il 21.5.2008.
Come hanno chiarito le Sezioni Unite della S.C. (Sez. U, n. 5307 del 20/12/2007, dep. 2008, Battistella, Rv. 238239), il provvedimento del g.u.p. quale atto legittimo in virtù dell’estensione analogica dell’art. 521 c.p.p. non è atto abnorme, rientrando nei poteri del giudice in ogni fase processuale quello di dare al fatto contestato una diversa definizione giuridica. Ne consegue che la sentenza di primo grado, che non ha preso in considerazione la descritta evenienza, ha prodotto una sentenza di condanna “viziata da nullità in quanto emessa per un reato già implicitamente ritenuto insussistente dal g.u.p.” [art. 314 c.p., ndr]. Su tale nullità pur eccepita con i motivi aggiunti di appello la Corte distrettuale non si è espressa.
2.2. Violazione dell’art. 521 c.p. in relazione agli artt. 8 L. 85/1990 e 314 c.p. e mancanza o contraddittorietà della motivazione.
Erroneamente i giudici di appello non hanno ritenuto configurabile nel contegno dell’imputato il reato previsto dall’art. 8 L. 85/1990, perché – al contrario della interpretazione operatane dalla Corte territoriale – tale norma punisce la condotta del raccoglitore del gioco del lotto che effettui il versamento dei proventi riscossi “oltre il giorno di giovedì della settimana successiva all’estrazione”, senza postulare una scansione temporale della durata del ritardo, che può protrarsi “anche di diversi mesi”. I giudici di merito hanno creduto applicabile la fattispecie del peculato, che invece sanziona la diversa ipotesi del raccoglitore che “ometta totalmente il versamento dei proventi”. Ciò che non si è verificato nel caso di B. che, come riconosce la stessa sentenza di appello, ha provveduto al “pagamento” nel dicembre del 2004.
2.3. Violazione degli artt. 43 e 314 c.p. e motivazione apparente.
I giudici di appello avrebbero comunque dovuto escludere la sussistenza in capo al B. dell’elemento psicologico del reato di peculato, essendo emerso nel corso del dibattimento di primo grado che il ricorrente non gestiva direttamente la ricevitoria (avendone affidato la conduzione al padre B.A. ), non era presente nella stessa e non ha personalmente ricevuto la diffida al pagamento delle somme, giacché i solleciti di pagamento dell’amministrazione finanziaria sono stati sì recapitati presso la ricevitoria, ma non sono stati consegnati fisicamente all’imputato, rimasto sostanzialmente estraneo ai fatti contestati.
2.4. Violazione dell’art. 603 c.p. e mancanza di motivazione.
La Corte territoriale ha omesso di decidere o di motivare le ragioni del diniego della parziale riapertura dell’istruttoria “per assumere quale teste” B.A. a sostegno della tesi difensiva esposta dall’imputato.
2.5. Violazione dell’art. 157 c.p..
Alla data della pronuncia della sentenza di appello il reato di cui all’art. 8 L. 85/1990, quale riqualificato dal g.u.p. a fronte della prima richiesta di rinvio a giudizio del p.m., era già estinto per sopravvenuta prescrizione.

Considerato in diritto

Il ricorso proposto nell’interesse di B.F. deve essere rigettato per infondatezza, per alcuni versi manifesta, dei descritti motivi di impugnazione.
1. L’ultima censura neppure può definirsi tecnicamente un motivo di ricorso, trattandosi di una mera constatazione che trova la premessa maggiore nei precedenti motivi di ricorso (di natura processuale o sostanziale) prefiguranti la configurabilità nella condotta appropriativa dell’imputato del reato di cui all’art. 8 L. 85/1990 e non del contestato reato di peculato. Nessuno dubita infatti che, qualora la condotta dell’imputato fosse stata o sia nell’odierno giudizio giuridicamente definita ai sensi del citato art. 8 L. 85/1990, il corrispondente termine massimo di prescrizione (sette anni e sei mesi) dovrebbe considerarsi (non registrandosi nel corso dei due giudizi di merito sospensioni ex lege) spirato ben prima dell’impugnata pronuncia di appello; con l’ovvia conseguente della declaratoria di tale causa estintiva del reato.
2. La doglianza relativa all’asserita violazione dell’art. 603 c.p.p. (secondo motivo di ricorso) per mancata assunzione (in parziale riapertura dell’istruttoria) della testimonianza del padre dell’imputato, B.A. , che sarebbe stato, al di là della formale intestazione della ricevitoria al figlio attuale imputato, l’effettivo gestore dell’esercizio di raccolta delle giocate del lotto è indeducibile e palesemente infondata.
La Corte peloritana ha rimarcato, con motivazione puntuale e corretta, l’inconducenza decisoria dell’eventuale testimonianza del padre dell’imputato, siccome certamente non idonea a scriminare la penale responsabilità di B.F. , che -a tacer d’altro- avrebbe scientemente violato il “contratto” di concessione stipulato con l’Amministrazione dei Monopoli, cedendo arbitrariamente o comunque consentendo la conduzione della ricevitoria da parte di una terza persona estranea al vincolo di concessione dell’esercizio del gioco del lotto, cioè del relativo servizio pubblico “riservato allo Stato” (come statuisce l’art. 1 della L. 2.8.1982 n. 528, recante l’ordinamento del gioco del lotto). In patente elusione, quindi, del carattere fiduciario tipico del rapporto concessorio intercorrente tra una pubblica amministrazione e il privato concessionario.
Con la coerente inferenza, per tanto, che ineccepibile deve valutarsi l’argomentazione della sentenza di appello, secondo cui giammai il ricorrente potrebbe andare esente da penale responsabilità per l’accertata appropriazione delle somme delle giocate raccolte dalla “sua” ricevitoria per il solo fatto di “essersi colpevolmente posto nella condizione di affidare ad altri illegalmente la gestione della ricevitoria, dovendo in questo caso rispondere degli abusi da costoro commessi ex art. 40 cpv. c.p.”. Di qui la palese inutilità dell’invocato esame del terzo supposto concessionario di fatto, che al più avrebbe potuto originare un suo concorso nel reato proprio del B. , lasciando immutata la responsabilità di quest’ultimo.
3. Il primo motivo di ricorso sull’asserito giudicato endoprocessuale che si sarebbe formato ex art. 649 c.p.p. sul reato di peculato (“insussistente”) in luogo di quello di cui all’art. 8 L. 85/1990, per effetto della iniziale riqualificazione del fatto appropriativo formulata dal g.u.p. con restituzione degli atti al p.m., non ha pregio.
3.1. Giova innanzitutto precisare che la mancata risposta della Corte di Appello alla omologa censura sollevata nel giudizio di secondo grado appare giustificata dal fatto che la stessa è stata formulata con un motivo aggiunto di appello, che -come è facile evincere dalla lettura dell’atto di appello genetico- non mostra nessuna inerenza ai capi e punti della decisione di primo grado investiti dall’appello principale del B. . In totale assenza, quindi, della indispensabile connessione funzionale o logica, che –sola – ne legittima l’apprezzamento, tra tale motivo “nuovo” o aggiunto e i motivi originari dell’appello. Motivi, questi, riferiti unicamente alla pretesa assenza dell’elemento soggettivo del contestato reato di peculato (imputato non edotto dal padre, cui ha affidato la gestione della ricevitoria, dell’emerso “ammanco”) e alla insufficienza dell’attività istruttoria dibattimentale per la mancata audizione (id est ammissione della prova) del “testimone” B.A. . Nessuna eccezione di carattere processuale è stata mai prospettata con l’atto di appello originario (cfr., ex plurimis, da ultimo: Sez. 6, n. 45075 del 02/10/2014, Sabbatini, Rv. 260666; Sez. 6, n. 6075 del 13/01/2015, Comitini, Rv. 262343).
3.2. In secondo luogo, ad ogni buon conto, la censura muove da una incongrua lettura della decisione delle Sezioni Unite menzionata nel ricorso a supposto sostegno della legittimità della prima decisione del g.u.p. del Tribunale di Patti in punto di diversa e meno grave qualificazione del fatto reato contestato al B. (Sez. U, n. 5307/2008, Battistella, cit.). Decisione volta a definire la nozione del provvedimento giudiziario abnorme, ma non pertinente alla specifica situazione processuale regolata dall’art. 33 sexies c.p.p., eccepita con il ricorso e riproduttiva della doglianza espressa con un motivo nuovo di appello non scrutinabile dal giudice di secondo grado.
In linea di principio va chiarito che, pur ben potendo il g.u.p. attribuire al fatto contestato una diversa definizione giuridica (in estensiva applicazione della regola generale dettata dall’artt. 521 c.p.p.) ovvero precisare, modificare o correggere gli eventuali errori dell’imputazione nel rispetto dei percorsi procedurali indicati dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 384 del 2006, si profilerebbe come illegittimo, prima ancora o piuttosto che abnorme, il provvedimento del g.u.p. che pervenga ai predetti esiti valutativi al di fuori degli schemi decisori rappresentati dalla emissione del decreto dispositivo del giudizio (ex art. 429 c.p.p.) ovvero della sentenza di non luogo a procedere ex art. 425 c.p.p.. E non certo -come è accaduto nel caso in esame (primo provvedimento del g.u.p. del Tribunale di Patti)- con la irrituale restituzione degli atti al pubblico ministero ai sensi dell’art. 33 sexies c.p.p. Tale disposizione afferisce pacificamente (ex multis Sez. 5, n. 15051 del 22/02/2012, De Cicco, Rv. 252475) al solo fatto reato così come contestato dal p.m., non potendo il g.u.p. nelle eventuali ipotesi di citazione diretta a giudizio modificare i “termini fattuali dell’imputazione” (ex plurimis: Sez. 5, n. 31975 del 10/07/2008, Ragazzoni, Rv. 241162; Sez. 6, n. 29855 del 30/05/2012, Rv. 253177; Sez. 1, n. 10666 del 27/01/2015, Comparane, Rv. 262694).
3.3. Ne discende, allora, che a fronte della persistente richiesta di rinvio a giudizio del p.m. per il reato di peculato, il difensore avrebbe in tesi potuto unicamente eccepire, durante la successiva nuova udienza preliminare (definita con il decreto di cui all’art. 429 c.p.p.) e prima della sua conclusione ovvero subito dopo il compimento delle formalità di apertura del dibattimento di primo grado (art. 491 c.p.p.), l’inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del giudice di primo grado, secondo quanto previsto dall’art. 33 quinquies c.p.p. Ferma rimanendo l’inefficacia preclusiva del precedente provvedimento del g.u.p. “riqualificante” l’imputazione ex art. 314 c.p.p., emerge ex actis che l’imputato né nell’udienza preliminare, né all’inizio del giudizio di primo grado ha sollevato eccezioni di sorta. Di tal che nessuna violazione di legge (e tanto meno degli artt. 521 e 649 c.p.p.) sarebbe stato possibile dedurre, anche in nome del principio utile per inutile non vitiatur sotteso al disposto dell’art. 33 octies – co. 1 e 2 – c.p.p., con l’atto di appello avverso la sentenza di primo grado, né può essere dedotta nell’odierno giudizio di legittimità (v. Sez. 6, n. 2416 del 08/10/2009, dep. 2010, Briatico, Rv. 245805).
4. L’assunto difensivo, oggetto del secondo motivo di ricorso, della definibilità della condotta appropriativa del B. ai sensi, non del contestato art. 314 c.p., ma della più mite fattispecie prevista dall’art. 8, comma 1, L. 19.4.1990 n. 85 (reato proprio che altro non integra se non una forma lieve, se così può dirsi, di peculato del “raccoglitore del gioco del lotto”) non ha fondamento.
4.1. La vicenda processuale rimessa al giudizio di questa Corte regolatrice impone di ribadire (Sez. 6, n. 30541 del 17/05/2007, Lombardo, Rv. 237185) che il titolare di una ricevitoria in regime contrattuale di concessione pubblica (Amministrazione dei Monopoli), investito dell’attività di raccolta delle giocate del lotto, è senz’altro qualificabile come persona incaricata di un pubblico servizio per gli effetti di cui all’art. 358 c.p. (se non un pubblico ufficiale, ove voglia valorizzarsene la congiunta indiretta posizione di agente contabile ai sensi dell’art. 178 R.D. 23.5.1924 n. 827), poiché svolge un servizio, quello del gioco del lotto, di natura pubblica in quanto per legge riservato (come detto) allo Stato e disciplinato, nei suoi aspetti esecutivi (raccolta delle giocate, rilascio delle relative ricevute, pagamento delle vincite entro prefissati limiti di valore), da norme primarie di valenza pubblica (L. 2.8.1982 n. 528, L. 19.4.1990 n. 85 e loro successive modificazioni). Ond’è che il raccoglitore-ricevitore delle giocate del lotto risponde del delitto, avente natura istantanea, di peculato quando si appropri le somme riscosse dai giocatori, omettendone il versamento erariale nel termine individuato dalla legge nel giovedì successivo all’estrazione del lotto cui pertengono le giocate o nel diverso termine stabilito dal contratto di concessione. Il denaro che costui incassa dai giocatori (scommettitori) è pubblico, perché entra immediatamente (ipso facto nel momento stesso in cui sono ricevute le giocate) nella appartenenza dell’amministrazione pubblica, a nulla rilevando che il ricevitore abbia facoltà (come da concessione) di disporre di parte del denaro riscosso per le percentuali di aggio a suo favore e per il pagamento immediato di talune vincite. Sicché il ricevitore non è un semplice debitore di quantità dell’erario, ma entra in possesso del denaro incassato per conto dell’amministrazione finanziaria, verso cui ha obbligo di rendiconto.
4.2. Come correttamente ha già osservato l’impugnata sentenza di appello, il 1 comma dell’art. 8 L. 85/1990 sanziona il “mero ritardo nel versamento” dei proventi effettuato entro il giovedì della settimana successiva all’estrazione del lotto cui i proventi si riferiscono, così come il 2 comma della stessa norma prevede, solo in simili casi, una sorta di ravvedimento operoso (“Non è punibile il raccoglitore del gioco del lotto che abbia omesso di versare i proventi estrazionali della raccolta in misura non superiore alla metà della somma dovuta entro il termine di cui al comma 1, quando compia il versamento integrativo entro sette giorni dal ricevimento di apposito avviso dell’ufficio competente”). Diversamente da quanto si ipotizza nel ricorso l’art. 8, comma 1, L. 85/90 non facoltizza affatto il ricevitore a versare le somme riscosse in un qualunque momento, anche notevolmente distante, posteriore al giovedì della settimana successiva all’estrazione. La disposizione va, in vero, coordinata con la complessiva disciplina dell’attività monitoria dell’amministrazione pubblica (Monopoli di Stato), cui non siano stati tempestivamente corrisposti i proventi delle giocate entro la settimana contabile di riferimento delle stesse. Disciplina specificamente recepita nel contratto di concessione stipulato dal B. e diffusamente esaminata dalla sentenza di primo grado, cui sul punto ha fatto rinvio l’attuale sentenza di appello.
4.3. Il contratto di concessione sottoscritto dall’imputato prevedeva che il versamento dei proventi delle giocate oltre il giovedì della settimana contabile comportasse l’applicazione della sanzione amministrativa stabilita per legge (con relativi interessi legali) e che “Il mancato versamento” nei cinque giorni dal ricevimento (con raccomandata) dell’intimazione di pagamento dell’amministrazione finanziaria comportasse la revoca della concessione. Nel contesto di tali previsioni contrattuali è emerso che il 2.4.2004 l’amministrazione ha ingiunto al B. di versare i “proventi estrazionali omessi”, con l’avvertimento che in mancanza si sarebbe proceduto alla revoca della concessione. Non essendo intervenuto il pagamento, il 22.4.2004 l’Ispettorato dei M.S. ha sospeso in via cautelativa la concessione e il successivo 1.6.2004 ha instaurato il procedimento di revoca, conclusosi il 21.7.2004 con la revoca della concessione al B. . Questi, soltanto dopo aver ricevuto una ulteriore ingiunzione di pagamento il 5.11.2004, ha provveduto a versare nel dicembre 2004 la somma (Euro 2.824,64) relativa agli incassi dell’ultima settimana contabile del marzo 2004. Evenienza che permette di rimarcare la giustezza della notazione della sentenza di appello sulla irrilevanza di tale postumo pagamento, eseguito quando è ormai da tempo venuto meno ogni rapporto di concessione tra l’ente pubblico e l’imputato e quando, dopo mesi dalla riscossione delle giocate, il reato di peculato è già stato consumato in ragione del ruolo già ricoperto dall’imputato quale preposto a una ricevitoria del lotto e, dunque, quale concessionario dello Stato per la riscossione di entrate erariali (ex artt. 24 d.P.R. 7.8.1990 n. 303, 34 e 38 d.P.R. 16.9.1996 n. 560: regolamenti di applicazione ed esecuzione di gioco del lotto).
Reato che, alla luce della disciplina della concessione della ricevitoria appena illustrata (e le cui sequenze non sono contestate dalla difesa dell’imputato, come sottolineano i giudici di appello), deve considerarsi consumato fin dal momento in cui, in pendenza del rapporto contrattuale di concessione, il B. si è illegittimamente appropriato le somme di pertinenza erariale venute in suo possesso grazie alla funzione esattoriale vicaria svolta. Più esattamente, per la precisione ricostruttiva degli eventi, il reato istantaneo di peculato è stato consumato, divenendo conclamata e non reversibile (anche con decorso, in ipotesi, dei termini “brevi” previsti dalla fattispecie di cui all’art. 8 L. 85/1990) la condotta di appropriazione del B. , nel momento della prima intimazione di pagamento dei proventi estrazionali dallo stesso ritualmente ricevuta il 2.4.2004. Tale intimazione inottemperata, infatti, segna l’interversio possessionis che modifica, rendendolo illecito ex art. 314 c.p., il titolo del possesso delle somme della pubblica amministrazione in disponibilità del B. , che ne ha arbitrariamente usato uti dominus.
5. Palesemente generici e comunque infondati debbono valutarsi, infine, i rilievi (terzo motivo di ricorso) riguardanti l’addotta assenza dell’elemento soggettivo del delitto di peculato. Rilievi basati, in ultima analisi, sulla inconferente ignoranza da parte dell’imputato (a suo dire disinteressatosi della ricevitoria per averla affidata alle cure del padre) delle sollecitazioni e intimazioni di pagamento dell’amministrazione dei Monopoli, pur regolarmente pervenute presso la ricevitoria concessa in gestione al B. .
In proposito è sufficiente osservare che l’indicato illegittimo e consapevole mutamento della destinazione del denaro pubblico formato dalle giocate del lotto riscosse dall’imputato, anche se realizzato (o fatto realizzare) dall’agente per presunta ignoranza sui limiti dei propri poteri dispositivi, costituisce errore o ignoranza sulla legge penale, che come tale non vale ad escludere l’elemento soggettivo del reato di peculato (cfr.: Sez. U, n. 38691 del 25/06/2009, Caruso, Rv. 244190; Sez. 6, n. 12141 del 19/12/2008, dep. 2009, Lombardino, Rv. 243054; Sez. 6, n. 53125 del 25/11/2014, Renni, Rv. 261680).
Al rigetto dell’impugnazione segue per legge la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali del grado.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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