sindaco quimby

Suprema Corte di Cassazione

sezione VI

sentenza  26 marzo 2014, n. 14287 

Ritenuto in fatto

1. Il 7 dicembre 2011 il Tribunale di Bassano del Grappa condannò alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione O.R. e S.G., rispettivamente Sindaco e Assessore del Comune di Romano d’Ezzelino per avere, abusando della loro qualità e del loro potere, compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco a costringere o indurre G.L. a dare le dimissioni dalla carica di consigliere comunale, intimandogli e consigliandogli di dimettersi, minacciando altrimenti di denunciare al competente ufficio comunale e di rendere pubblici gli abusi edilizi commessi in passato dallo stesso L. e da alcuni suoi familiari (fatti commesso nel settembre 2006).
2. Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte d’appello di Venezia, in riforma della sentenza di primo grado, ha assolto gli imputati per insussistenza del fatto, ritenendo che gli stessi non operarono quali pubblici ufficiali e, comunque, non abusarono della loro qualità e dei loro poteri. Essi agirono nel ruolo di esponenti di partito, nel tentativo di indurre il L., consigliere di maggioranza, a dare le dimissioni da consigliere comunale nell’interesse dello stesso partito, ponendo in essere condotte che non hanno nulla a che fare con il funzionamento della pubblica amministrazione.
3. Contro la sentenza ricorrono il Procuratore generale presso la Corte d’appello di Venezia e la parte civile L..
3.1. Il primo censura di contraddittorietà e manifesta illogicità la motivazione della sentenza impugnata, rilevando, per un verso, che, ricevuta la notizia degli abusi edilizi del L. e dei suoi familiari, la O. omise di informare, come sarebbe stato suo dovere di sindaco e di pubblico ufficiale, il competente ufficio comunale oppure direttamente, ai sensi dell’att. 321 c.p.p., la competente Procura della Repubblica; per latro verso, che la O. prospettò al L. un’alternativa integrante una vera e propria minaccia: dimissioni da consigliere comunale ovvero denuncia.
3.2. La parte civile G.L. deduce, ex art. 606.1 lett. b) ed e) c.p.p., mancanza di motivazione ed erronea applicazione della legge penale in relazione alla qualificazione giuridica del fatto contestato, integrante la fattispecie di cui all’art. 319-quater cod. pen. o altre fattispecie delittuose.

Considerato in diritto

1. I ricorsi non meritano accoglimento.
2. La Corte d’appello di Venezia ha saggiamente ridimensionato a scontro politico-partitico una vicenda, originariamente presentata come grave fatto in danno della pubblica amministrazione, che aveva determinato, in primo grado, la condanna di R.O. e G.S. (rispettivamente sindaco e assessore di Romano d’Ezzelino) per tentativo di concussione ai danni di G.L., capogruppo consiliare della maggioranza che sorreggeva la giunta comunale formata dalla O..
Il Collegio non rileva alcuni dei vizi dedotti dai ricorrenti contro la decisione della Corte territoriale, che, ex art. 530.1 c.p.p., ha assolto gli imputati perchè il fatto non sussiste, mentre il pubblico ministero aveva richiesto l’assoluzione a norma dell’art. 530.2, c.p.p.
3. Premesso nella parte narrativa che sin dal 25 agosto (prima dei fatti di cui alla contestazione) il Sindaco, ottemperando al suo dovere, aveva segnalato di aver appreso dell’esistenza delle irregolarità edilizie commesse dal L. al responsabile dell’Ufficio tecnico del comune (su cui, pertanto, incombeva l’obbligo di procedere alle verifiche amministrative e, se del caso, alla denuncia autorità giudiziaria), la sentenza impugnata ha escluso che gli imputati realizzarono le condotte loro contestate in qualità di pubblici ufficiali, rilevando sia l’inesistenza dell’abuso della qualità e dei poteri pubbici sia l’utilizzazione del metus publicae potestatis per conseguire il risultato sperato.
I giudici d’appello hanno, con esauriente e persuasiva motivazione, inquadrato i fatti all’interno di vicende politiche del gruppo di maggioranza consiliare del Comune di Romano d’Ezzelino, ascrivendoli a comportamenti realizzati dagli imputati in qualità di dirigenti di una formazione politica nel tentativo di indurre un membro di esso, già capogruppo consiliare di maggioranza (a cui carico erano risultate irrigolarità edilizie) a dimettersi, così scongiurando una danno di immagine al gruppo politico che aveva impostato il suo programma politico-amministrativo sul rinnovamento di persone e di costume politico.
A tale conclusione la Corte territoriale è pervenuta anche in base a ricostruzioni e valutazioni di fatto (di esclusiva competenza dei giudici del merito) e, particolarmente, delle registrazioni di conversazioni tra i vari protagonisti della vicenda, nelle quali emergeva che il “gruppo” consiliare, irritato contro il L. era intenzionato ad agire contro di lui nel caso di mancate dimissioni.
4. Del tutto condivisibile è poi l’esclusione di minaccia, rilevante ex art. 317 o 319-quater cod. pen., nella prospettazione di denuncia penale per irregolarità edilizia. La connotazione di una condotta come minacciosa e la sua idoneità a integrare un elemento strutturale di costrizione o di induzione vanno valutate in relazione a concrete circostanze oggettive, quali l’oggetto della prospettazione ritenuta minacciosa e l’ingiustizia della stessa, la condotta oggettivamente sopraffattrice dell’agente, le circostanze ambientali in cui il fatto avviene, le condizioni soggettive della parte offesa.
5. Esclusa la sussistenza dei delitti di cui agli artt. 317 e 319.1-quater cod. pen., manifestamente infondata è la censura della parte civile là dove prospetta la possibilità di inquadrare i fatti in altra fattispecie di reato e, segnatamente, nel tentativo di estorsione, che è tipico reato contro il patrimonio, che richiede la sussistenza di un ingiusto profitto nell’agente e di un danno nella persona offesa, i quali non risultano mai evocati nei dibattimenti di primo e secondo grado.

P.Q.M.

La Corte rigetta i ricorsi e condanna la parte civile ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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