assegno divorzile

Suprema Corte di Cassazione

sezione VI

sentenza  26 giugno 2014, n. 27923

Ritenuto in fatto

1. È impugnata la sentenza in data 13/03/2013 con la quale la Corte d’appello di Catania, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Catania del 13/05/2009, ha ritenuto l’odierno ricorrente colpevole del delitto di cui all’art. 570, comma 2, lettera a), cod. pen., riducendo la pena inflitta dal citato Tribunale fino a due mesi per la reclusione e ad Euro 200,00 per la multa.
Secondo l’accusa, V.D. aveva prestato osservanza parziale ed episodica al provvedimento, assunto in sede di separazione tra coniugi, che gli imponeva di corrispondere alla moglie un assegno mensile per il mantenimento dei figli, fissato dapprima in 700 Euro e poi in 500 Euro. In particolare, egli avrebbe corrisposto una tantum la somma di 5.000 Euro solo dopo l’intervento di un legale, sospendendo ogni ulteriore versamento dal 2005 fino al marzo 2008, epoca di cessazione della permanenza indicata nell’imputazione.
Tale atteggiamento avrebbe determinato uno stato di bisogno per i figli minori, poiché la madre, gravata dall’onere di un mutuo immobiliare per 800 Euro mensili, guadagnava solo 1.400 Euro al mese, tanto da essere costretta, secondo la sua testimonianza, a chiedere l’aiuto della famiglia di provenienza.
La Corte territoriale ha poi ritenuto che l’imputato non si fosse trovato nell’assoluta impossibilità di adempiere, posta la regolare percezione di un reddito e considerato che sul soggetto gravato dall’obbligo di mantenimento pesa un onere di massima attivazione al fine di conseguire i redditi utili al soddisfacimento della citata obbligazione.
In relazione all’attività difensiva dispiegata nel giudizio di appello, la Corte catanese ha notato che in effetti il ricorrente ha versato alla moglie somme ulteriori rispetto a quelle sopra indicate, ma solo in un periodo successivo alla data di cessazione della permanenza del reato contestato. Quanto poi al fatto che uno dei figli minori di cui si tratta sarebbe in realtà il frutto di una relazione adulterina della moglie separata del V. , il Giudici dell’appello hanno ritenuto che l’obbligo di mantenimento non fosse venuto meno in mancanza di un esito definitivo dell’azione di disconoscimento della paternità.
2. Ricorre per cassazione il Difensore dell’imputato, denunciando in via generale “violazione di legge – omessa motivazione – erronea interpretazione e applicazione della legge – illogicità – travisamento”.
Risulterebbe dalla documentazione prodotta che l’inadempimento del V. sarebbe stato episodico, in corrispondenza “con la perdita del proprio lavoro”. D’altra parte la madre dei minori avrebbe avuto disponibilità di un reddito tale che i figli non sarebbero venuti comunque a trovarsi in stato di bisogno. Inoltre, l’obbligo di mantenimento dovrebbe considerarsi insussistente quanto al minore del quale l’imputato non sarebbe padre naturale.
Ancora, la Corte territoriale non avrebbe dato alcuna risposta alle censure proposte in via subordinata con l’atto di appello, e non avrebbe motivato sulla quantificazione della pena inflitta.
Infine, nel pronunciarsi nel senso della responsabilità del ricorrente, la Corte avrebbe violato la regola processuale posta nel testo riformato dell’art. 533 cod.proc. pen., non adeguandosi al canone della prova di colpevolezza efficace oltre il ragionevole dubbio.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è inammissibile, in quanto proposto per motivi in parte diversi da quelli consentiti, e comunque manifestamente infondati. Dalla dichiarazione di inammissibilità consegue la necessaria condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché di una somma ulteriore in favore della Cassa delle ammende, che la Corte, valutate le circostanze del caso concreto, stima di quantificare in mille Euro.
2. Il ricorrente si è limitato, in sostanza, a riprendere i temi trattati coi motivi di appello, senza confrontarsi realmente con gli argomenti che la Corte territoriale ha posto a fondamento della propria decisione.
2.1. Non resta quindi che ribadire, anzitutto, come, ai fini della configurabilità del delitto cui all’art. 570, comma secondo, n. 2, cod. pen., l’obbligo di fornire i mezzi di sussistenza al figlio minore ricorre anche quando vi provveda in tutto o in parte l’altro genitore con i proventi del proprio lavoro e con l’intervento d’altri congiunti, atteso che tale sostituzione non elimina lo stato di bisogno in cui versa il soggetto passivo (tra le molte, Sez. 6, Sentenza n. 14906 del 03/02/2010, rv. 247022). Si tratta di un indirizzo ormai consolidato, che non risulta contraddetto da provvedimenti recenti. La decisione citata dal ricorrente in senso contrario (sentenza n. 36190/2013) è priva di pertinenza al tema.
Nella specie, oltretutto, la Corte territoriale ha chiarito che S.V. si era trovata in effettive e gravi difficoltà, a causa dell’inadempimento di V. , perché disponeva di un reddito non elevato, sul quale gravavano le rate per l’estinzione del mutuo contratto per l’acquisto della casa familiare. A tale giudizio di fatto, congruamente motivato, anche in rapporto alla deposizione della persona offesa, il ricorrente ha opposto affermazioni generiche, o l’assunto che qualche pagamento parziale vi era stato, a sua volta generico e, per ovvi motivi, del tutto irrilevante (in proposito, ex multis, Sez. 6, Sentenza n. 16458 del 05/04/2011, rv. 250090).
2.2. Non più fondato l’insistito rilievo per il quale V. non sarebbe stato effettivamente tenuto al versamento, in quanto il figlio minore sarebbe il frutto di una relazione adulterina della moglie, ciò che la stessa S. avrebbe recentemente ammesso.
È ovvio che l’obbligo di mantenimento può cessare solo quando, stabilita la diversa paternità, l’interessato ottiene dal giudice la revoca del relativo provvedimento. Quanto meno, la circostanza deve essere definitivamente accertata in sede giudiziale. Questa Corte ha già stabilito che il soggetto obbligato non può liberarsi dai doveri connessi alla genitorialità adducendo che il minore cui si fanno mancare i mezzi di sussistenza non sarebbe il proprio figlio, dovendosi ritenere necessario, al riguardo, il passaggio in giudicato della sentenza civile che accolga la relativa domanda di disconoscimento della paternità (Sez. 6, Sentenza n. 8998 del 11/02/2010, rv. 246414).
2.3. Del tutto generica, e dunque inammissibile, è la doglianza secondo cui la Corte territoriale non avrebbe adeguatamente valutato “i motivi subordinati di appello”.
Tali motivi del resto riguardavano le attenuanti generiche (già accordate dal primo giudice) e, in generale, la determinazione della pena, oltreché una reiterata richiesta di proscioglimento nel merito. In punto di sanzione, i Giudici dell’appello hanno dimezzato la pena inflitta, portandola nella specie detentiva fino ad un valore di due mesi. Hanno quindi sostanzialmente accolto i rilievi difensivi, valorizzando per implicito quei recenti pagamenti che, per essere successivi alla data di “chiusura” della contestazione, non assumono rilievo in punto di sussistenza dell’illecito, ma sono stati appunto considerati per una riduzione così incisiva del trattamento sanzionatorio.
2.4. In rapporto alle diffuse considerazioni finali del ricorrente sul principio del “ragionevole dubbio”, non resta che ribadire come la Corte territoriale abbia ricostruito i fatti mediante un corretto ed esplicito ragionamento probatorio, non contrastato con rilievi specifici e, comunque, culminato in una rappresentazione sostanzialmente incontestata. I fatti sono stati poi qualificati alla luce dei correnti principi di diritto che regolano la materia.
Neppure si intuisce, in definitiva, su quale punto della regiudicanda dovrebbe esercitarsi il “ragionevole dubbio” invocato dal ricorrente.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

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