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SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE VI

SENTENZA 11 dicembre 2014, n. 51688

 

Considerato in fatto

p.1. Con ordinanza del 4 agosto 2014 il Tribunale di Milano confermava il provvedimento del giudice per le indagini preliminari che aveva applicato la misura cautelare della custodia in carcere a M.M., accusato del delitto previsto dall’art. 319 cod.pen., per avere, quale “consigliere politico” del Ministro dell’economia T. e quale componente delle Commissioni parlamentari Bilancio e Finanze, ricevuto da Ma.Gi. , presidente del Consorzio Venezia Nuova, la somma di Euro cinquecentomila per influire sullo stanziamento di finanziamenti statali per i lavori del MOSE.
Il Tribunale del riesame, dalla chiamata in correità elevata da Ma. , corroborata dalle convergenti chiamate di altri concorrenti nel reato (B.P. , S.P. e Mi.Cl. ) e dagli esiti di conversazioni intercettate, desumeva un quadro indiziario dal quale, in estrema sintesi, risulta che Ma. , tramite i buoni uffici di Me.Ro. amministratore della Palladio Finanziaria, si era incontrato con M. e gli aveva promesso il pagamento della somma di cinquecentomila Euro se fosse riuscito a fare inserire nella delibera del CIPE il finanziamento necessario per la prosecuzione dei lavori del MOSE. In effetti, grazie ai contatti tenuti da M. con i funzionari ministeriali, veniva deliberato dal CIPE (il 13.5.2010) e poi disposto con d.l. 31.5.2010 n. 78 un finanziamento di quattrocentomilioni a favore del Consorzio; il successivo 14.6.2010 Ma. , nella sede milanese della Palladio Finanziaria versava nelle mani di M. la somma pattuita.
Sulla qualificazione giuridica del fatto, il Tribunale osservava che l’indagato, accettando la promessa del denaro, aveva asservito la pubblica funzione ricoperta all’interesse particolare del Consorzio, con violazione dei doveri di indipendenza e imparzialità, per cui era corretta la contestazione del reato di corruzione propria ex art. 319 cod.pen..
p.2. Avverso detta ordinanza ricorre la difesa dell’indagato, che enuncia i seguenti motivi:
1. inosservanza delle norme processuali di cui agli artt. 27 e 291, comma 2, cod.proc.pen. Premesso che il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Venezia, investito della richiesta datata 10.6.2014 di emissione della misura cautelare, con ordinanza del 4.7.2014 aveva declinato la propria competenza territoriale in favore del Tribunale di Milano applicando in via d’urgenza la misura richiesta, il ricorrente sostiene che, essendo intervenuta nelle more tra la richiesta e l’ordinanza anzidette, la decisione con cui il Tribunale di Venezia, pronunciando sulla richiesta di riesame presentata dal coindagato Me.Ro. , aveva dichiarato la competenza del Tribunale di Milano (nel cui circondario era avvenuta la consegna del denaro versato a M. ), il giudice per le indagini preliminari non avrebbe potuto applicare la misura cautelare neppure in via di urgenza, perché privato, a causa della decisione del giudice dell’impugnazione, di ogni funzione al riguardo;
2. erronea applicazione di norme processuali e mancanza e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza. Sotto il profilo dell’attendibilità intrinseca delle dichiarazioni di Ma. , lamenta che il tribunale avrebbe omesso di considerare: che l’affermazione che i fondi creati con la frode fiscale erano destinati alla corruzione dei pubblici ufficiali è contraddetta dalle dichiarazioni di S.P. , Bo.Ba.Ma. , Bo.Ba.St. e altri, secondo i quali parte dei fondi sarebbe rimasta nella disponibilità personale di Ma. ; che costui, per ottenere l’agognato finanziamento, teneva contatti anche con il Ministro T. , con i funzionari del suo Ministero e con il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio L.G. ; che lacune e discordanze presenti nella narrazione di Ma. non potevano esser giustificate appellandosi all’età avanzata del dichiarante o alla complessità e lontananza nel tempo dei fatti narrati. Sotto il profilo dell’attendibilità estrinseca, assume: che le chiamate in correità provenienti da B. e dalla Mi. non potrebbero fungere da riscontro, perché fonte dei fatti da loro riferiti è lo stesso Ma. ; inoltre le rispettive dichiarazioni sono divergenti: per Ma. , la richiesta del denaro fu avanzata da Me. e M. a (…), per B. , invece, fu formulata da T. a (…); la consegna del denaro secondo Ma. avvenne il 14 giugno e, invece, secondo B. , nel luglio 2010. Inoltre non si è tenuto conto: che gli altri partecipanti al Consorzio, pur ammettendo di avere contribuito alla formazione dei fondi neri, non hanno confermato l’accusa di corruzione nei confronti di M. ; che, dalle conversazioni intercettate – la cui trascrizione viene allegata al ricorso – non emerge traccia delle presunte influenze esercitate per ottenere la delibera del CIPE;
3. erronea applicazione della legge penale in ordine alla qualificazione giuridica del fatto. La difesa assume: che non è individuabile a carico dell’indagato il compimento di uno specifico atto contrario ai doveri d’ufficio, dato che lo stesso non era titolare di alcuna funzione o potere concernente il finanziamento del MOSE; che il finanziamento deliberato per il lavori del MOSE era legittimo, visto che i successivi Governi continuarono a finanziare l’opera e, pertanto, la pretesa “strumentalizzazione del rapporto di fiducia” con il Ministro T. e le “pressioni” esercitate sui funzionari del Ministero dovevano essere ricondotte nella fattispecie prevista dall’art. 318 cod.pen. o in quella nuova introdotta dall’art. 346 bis cod.pen., cosicché, tenuto conto delle pene comminate per queste figure di reato, l’applicazione della misura custodiale era inibita dalla disposizione dell’art. 280 cod. proc. pen.;
4. erronea applicazione delle norme processuali e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza delle esigenze cautelari. Sostiene che il Tribunale avrebbe motivato solo in modo apparente sull’esistenza di un pericolo attuale e concreto di reiterazione del reato e sulla inadeguatezza di altre misure a prevenire detto pericolo, sottovalutando che sono trascorsi quattro anni dai fatti, che l’indagato è incensurato, che non ricopre alcun ruolo istituzionale, che lo stato di salute è incompatibile con il regime detentivo. Censura infine che il Tribunale, violando il principio devolutivo dell’impugnazione, prendendo spunto da un episodio di corruzione ascritto al generale della G. di F. Sp. , abbia ravvisato anche il pericolo di inquinamento probatorio:
La difesa, pertanto, conclude chiedendo l’annullamento dell’ordinanza impugnata.

Considerato in diritto

p.1. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
La dichiarazione di incompetenza per territorio pronunciata dal Tribunale di Venezia nel procedimento cautelare a carico di Me.Ro. non poteva sicuramente espandere i suoi effetti sul distinto e separato procedimento a carico dell’odierno ricorrente, cosicché il giudice per le indagini preliminari, legittimamente investito della richiesta di emissione della misura cautelare prima ancora che fosse adottata l’anzidetta pronuncia, doveva necessariamente decidere sull’applicazione della misura medesima e, nell’esercizio dello ius dicere, come ogni giudice che si accinge a giudicare, aveva anche il potere di verificare preliminarmente, in piena autonomia, la propria competenza.
Di fatto il giudice per le indagini preliminari si è dichiarato incompetente e, però, avvalendosi della facoltà riconosciutagli dall’art. 291, comma 2, cod.proc.pen., ritenuta l’urgenza di soddisfare le esigenze cautelari previste dall’art. 274 cod.proc.pen., ha disposto l’applicazione della misura richiesta, trasmettendo gli atti al Tribunale di Milano. Avendo il giudice operato con osservanza delle disposizioni di legge, nessuna illegittimità è stata commessa.
Aggiungasi che il ricorrente non ha un interesse concreto a coltivare la questione testé risolta, perché la misura cautelare attualmente in essere è quella deliberata dal giudice al quale gli atti sono stati trasmessi per competenza e la sua validità non dipende in alcun modo dalla decisione che l’ha preceduta, la cui pretesa nullità non potrebbe pertanto dispiegare effetto ultrattivo.
p.2. Anche il secondo motivo di ricorso è infondato.
Infatti l’ordinanza impugnata contiene un’adeguata valutazione critica dell’attendibilità sia intrinseca che estrinseca della chiamata in correità proveniente da Ma.Gi. , nonché una logica confutazione delle deduzioni esposte dalla difesa a sostegno della richiesta di riesame.
In particolare il Tribunale ha diffusamente argomentato:
– che le dichiarazioni di Ma. sono credibili perché caratterizzate da immediatezza, univocità, spontaneità, genuinità, costanza, coerenza logica, assenza di sentimenti di inimicizia o di altri motivi perturbatori;
– che il dichiarante, prima ancora di accusare gli altri, aveva accusato se stesso e, anche dopo l’attenuazione del regime cautelare, aveva continuato a collabora-re con gli inquirenti;
– che le lacune e imprecisioni rinvenibili nella narrazione vanno attribuite a dimenticanze giustificate dall’età (il dichiarante è ultraottantenne) e, comunque, non incidono sui momenti fondamentali per la ricostruzione del fatto;
– che le dichiarazioni di Ma. e B. , pur divergenti su circostanze di secondaria importanza, coincidono sul nucleo essenziale dell’accusa;
– che i contatti tenuti da Ma. con il Ministro T. o con il sottosegretario L. non escludono che l’accordo corruttivo sia stato concluso solamente con l’indagato;
– che il mero sospetto, affacciato da S. e altri consorziati, che parte dei fondi neri accumulati sia finita nelle tasche di Ma. , non essendo corroborato da elementi concreti, non può smentire le affermazioni del chiamante in correità e, comunque, non vale ad escludere che altra parte sia stata effettivamente impiegata per corrompere i pubblici ufficiali che hanno favorito il Consorzio.
Si osserva, poi, che la censura secondo cui le dichiarazioni di B. , S. e Mi. non potrebbero riscontrare – essendo de relato – quelle rese da Ma. , è fondata solamente per la parte in cui riferiscono notizie apprese da quest’ultimo, stante la palese “circolarità” che le caratterizza, ma non può valere quando gli stessi raccontano cosa hanno fatto a seguito delle notizie ricevute (la raccolta dei fondi necessari per il pagamento del compenso).
Inoltre, come ampiamente illustra l’ordinanza impugnata, gravi e precisi elementi a sostegno dell’accusa – che, da un lato, confermano la chiamata in correità e, dall’altro, costituiscono autonomi indizi a carico – si traggono dall’intercettazione delle comunicazioni intercorse (via filo e sms) tra Ma. e Me. , che consentono di ricostruire lo sviluppo della vicenda per cui è processo, dall’approccio con l’indagato ai risultati del suo interessamento fino agli incontri predisposti per il pagamento della somma pattuita.
La motivazione stesa per giustificare la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza è, dunque, logicamente completa e coerente, e resiste alle censure sollevate dalla difesa, che si risolvono, per la maggior parte, nel proporre una diversa valutazione – non consentita nel giudizio di legittimità – degli elementi già esaminati dal giudice di merito.
p.3. Il terzo motivo di ricorso, che censura la qualificazione giuridica attribuita al fatto, è fondato.
Preliminarmente è opportuno ribadire che il delitto di corruzione appartiene alla categoria del reati c.d. propri, con la peculiarità che, a integrare il fatto tipico, non è sufficiente che l’autore abbia la qualifica di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, ma è necessario che sfrutti o comunque strumentalizzi funzione o potere connessi all’ufficio per ricevere denaro o altra utilità non dovuti. Occorre cioè che l’atto o comportamento che forma oggetto del mercimonio rientri nella competenza o sfera di influenza dell’ufficio ricoperto dal soggetto corrotto, nel senso che sia espressione della pubblica funzione dallo stesso esercitata, con la conseguenza che non ricorre il delitto di corruzione se l’intervento del pubblico ufficiale in esecuzione dell’accordo illecito non comporti l’attivazione di poteri istituzionali propri del suo ufficio o non sia in qualche maniera a questo ricollegabile, e sia invece destinato a incidere nella sfera di competenza di pubblici ufficiali terzi, rispetto ai quali il soggetto agente è privo di potere funzionale (v. per tutte Cass., Sez. 6, 4.5.2006 n. 33435, Battistella, rv 234359).
Ciò premesso, si rileva che l’ordinanza impugnata ravvisa in capo all’indagato la qualifica di pubblico ufficiale principalmente per il fatto che è stato designato dal Ministro T. come suo “consigliere politico” e, in secondo luogo, che individua l’attività illecita da lui compiuta in adempimento dell’asserito accordo corruttivo nell’avere esercitato “pressioni sui funzionari tecnici del ministero” preposti all’elaborazione del testo della delibera del CIPE e poi del decreto legge n. 78/2010, affinché favorissero il Consorzio Venezia Nuova, inserendo nelle delibere lo stanziamento di fondi per la prosecuzione dei lavori del MOSE.
Orbene, a prescindere dal rilievo che non è allegato al fascicolo l’atto formale della nomina dell’indagato a “consigliere politico” e che l’ordinanza impugnata non specifica quali sarebbero poteri e funzioni di rilevanza pubblicistica con tale nomina conferiti, si osserva che la figura del “consigliere politico” non è prevista da alcuna norma giuridica: egli non compone l’organico ministeriale né fa parte della segreteria particolare o dell’ufficio di gabinetto del Ministro. In base a una prassi recentemente introdotta e tutt’altro che consolidata, è un parlamentare che, grazie al rapporto di fiducia con un determinato Ministro, viene da costui discrezionalmente designato come suo consigliere personale sui temi concernenti la politica. Considerato, dunque, che il “consigliere politico” non ricopre un incarico istituzionalizzato e che la somministrazione fiduciaria di consigli politici non è riconducibile all’esercizio di alcuna delle pubbliche funzioni tipizzate dall’art. 357, comma primo, cod. pen., ne discende che non può essergli attribuita, né sotto il profilo formale né sotto quello sostanziale, la veste di pubblico ufficiale.
Alle anzidette considerazioni, che già di per sé portano a escludere la possibilità di configurare il delitto di corruzione, va aggiunto, alla luce del principio di diritto sopra enunciato, l’ulteriore argomento che l’indagato, nel premere sui funzionari ministeriali affinché soddisfacessero le esigenze di finanziamento del Consorzio Venezia Nuova, non esercitava certamente le prerogative connesse al ruolo di “consigliere politico” del Ministro, ma piuttosto coglieva l’occasione, offertagli dal possesso di quel titolo prestigioso che gli consentiva l’accesso quotidiano alla sede del Ministero, per avvicinare i funzionari che ivi operavano.
Ma la questione della configurabilità del delitto di corruzione non è ancora risolta, posto che il capo d’imputazione contesta all’indagato anche la qualifica di componente delle Commissioni parlamentari Bilancio e Finanze, qualifica che, però, nel caso concreto, è irrilevante, perché non vi fu alcuna strumentalizzazione delle funzioni di componente di Commissione parlamentare; basta il richiamo al principio della divisione dei poteri per rendere manifesta la separazione tra gli atti di Governo che qui vengono in rilievo (le delibere del CIPE e del Consiglio dei ministri) e la funzione legislativa spettante al Parlamento.
Appurato dunque che l’indagato, nel promettere il proprio intervento retribuito a favore del Consorzio nelle procedure destinate a deliberare il finanziamento di opere pubbliche, non ha messo in gioco l’esercizio di pubbliche funzioni, per completezza si deve aggiungere che, allo stato degli atti e salva l’eventuale acquisizione di ulteriori elementi probatori, non è neppure prospettabile ch’egli agisse, nella commissione dei fatti ascrittigli, quale longa manus del Ministro o che ne avesse comunque il consenso; ciò perché – come espressamente afferma l’ordinanza impugnata – difettano “in radice elementi che supportino il sospetto di un coinvolgimento” del Ministro del quale l’indagato era “consigliere politico”.
E allora, sgombrato il campo dal presunto mercimonio di funzioni pubbliche, si deve prendere atto che il denaro versato non è servito a retribuire il compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio, ma a compensare la mediazione svolta dall’indagato verso i funzionari ministeriali sui quali vantava capacità di influenza. Si può dunque concludere che il fatto contestato, depurato dell’elemento – allo stato non accertato – del mercimonio di una funzione pubblica, va sussunto nella fattispecie di millantato credito descritta dal primo comma dell’art. 346 cod. pen., tenendo presente che il concetto di “millantato credito” comprende anche l’ipotesi che la vantata vicinanza con il pubblico ufficiale sia effettiva.
A questo proposito, risalendo nel tempo, occorre ricordare che il “millantare credito” veniva inizialmente interpretato come vanteria di un’influenza inesistente, idonea a ingannare il c.d. compratore di fumo, il quale, credendo alle parole del millantatore, da il denaro destinato a compensare la presunta mediazione; successivamente, considerato che il reato di cui all’art. 346 cod. pen. è stato concepito per tutelare il prestigio della pubblica amministrazione piuttosto che il patrimonio del solvens, si è focalizzata l’attenzione sulla condotta dell’agente, che si fa dare il denaro rappresentando i pubblici impiegati come persone venali, inclini ai favoritismi, cosicché si è consolidato l’indirizzo ermeneutico secondo cui, per integrare la millanteria, non è necessaria una condotta ingannatoria o raggirante, perché ciò che rileva è la vanteria dell’influenza sul pubblico ufficiale, che, da sola, a prescindere dai rapporti effettivamente intrattenuti, offende l’immagine della pubblica amministrazione (v. ex plurimis, Cass., Sez. 6, 4.3.2003 n. 16255, Pirosu, rv 224872; idem, 17.3.2010 n. 13479, D’Alessio, rv 246734).
A questo punto si deve tener conto dell’entrata in vigore della legge n. 190/2012, che, senza toccare l’art. 346 cod. pen., ha aggiunto la nuova fattispecie di reato denominata “traffico di influenze illecite”, che fissa come presupposto della ricezione del denaro chiesto come prezzo della mediazione propria o come retribuzione per il pubblico ufficiale “lo sfruttamento delle relazioni esistenti” con quest’ultimo. Ai sensi dell’art. 346 bis cod. pen., autore del reato non è più chi millanta influenze non importa se vere o false, ma unicamente chi sfrutta influenze effettivamente esistenti (il che giustifica il diverso trattamento riservato a chi sborsa denaro ripromettendosi di trame vantaggio: non punibile nel primo caso, che ha per protagonista un millantatore puro sedicente faccendiere, concorrente nel reato nel secondo caso, che vede all’opera un faccendiere vero realmente in contatto con il pubblico ufficiale).
Ne deriva che i fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge n. 190/2012, nei quali il soggetto attivo ha ottenuto la promessa o dazione del denaro vantando un’influenza sul pubblico ufficiale effettivamente esistente, che pacificamente ricadevano sotto la previsione dell’art. 346 cod. pen., devono ora essere ricondotti nella nuova fattispecie descritta dall’art. 346 bis cod. pen., che, comminando una pena inferiore, ha realizzato un caso di successione di leggi penali regolato dall’art. 2, comma quarto, cod. pen., con applicazione della norma più favorevole al reo; col risultato paradossale che una riforma presentata all’insegna del rafforzamento della repressione dei reati contro la pubblica amministrazione ha prodotto, almeno in questo caso, l’esito contrario.
Invero, mentre l’art. 346, comma primo, cod. pen. stabilisce la pena della reclusione da uno a cinque anni, l’art. 346 bis cod. pen. commina la reclusione da uno a tre anni, ossia una pena il cui massimo edittale, nel caso di affermazione della responsabilità penale, comporta l’irrogazione di una sanzione meno severa e, quanto agli effetti sulla disciplina cautelare, preclude l’applicazione di qualsivoglia misura coercitiva.
Si può dunque affermare il seguente principio di diritto: le condotte di colui che, vantando un’influenza effettiva verso il pubblico ufficiale, si fa dare o promettere denaro o altra utilità come prezzo della propria mediazione o col pretesto di dover comprare il favore del pubblico ufficiale, condotte finora qualificate come reato di millantato credito ai sensi dell’art. 346, commi primo e secondo, cod. pen., devono, dopo l’entrata in vigore della legge n. 190/2012, in forza del rapporto di continuità tra norma generale e norma speciale, rifluire sotto la previsione dell’art. 346 bis cod. pen., che punisce il fatto con pena più mite.
Ne consegue che il ricorrente, per effetto della riqualificazione del fatto come reato previsto dall’art. 346 bis, comma primo, cod. pen., deve essere liberato, non essendo consentita, a norma dell’art. 280, comma 1, cod. proc. pen., la detenzione cautelare.

P.Q.M.

Riqualificato il fatto come reato previsto dall’art. 346 bis cod. pen., annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata nonché quella in data 20 luglio 2014 del giudice per le indagini preliminari dello stesso Tribunale e ordina l’immediata liberazione di M.M. se non detenuto per altra causa.
Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 626 cod. proc. pen..

 

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