Cassazione 10

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE VI

SENTENZA 10 marzo 2015, n. 10133

Ritenuto in fatto

 

1. Con sentenza del 19.11.2013 la Corte di appello di Perugia – a seguito di gravame interposto dall’imputato S.A. , rinunciante alla prescrizione, avverso la sentenza emessa il 27.4.2009 dal locale Tribunale – ha confermato detta sentenza con la quale il predetto imputato è stato riconosciuto colpevole del reato di cui agli artt. 110 – 323 cod. pen. perché in concorso con altri e con il deceduto P. R., nelle rispettive qualità di assessori (lo S. e G.M. ) e di responsabile dell’ufficio patrimonio (SP.La. ) del Comune di Gualdo Tadino e A.A. , titolare della società Hotel Ristorante Gigiotto di Angeli & C, al fine di procurare un ingiusto vantaggio alla famiglia A. (gestore del Ristorante “(…)”), assegnavano con delibera di giunta comunale del 12.6.2002 arbitrariamente alla stessa società la gestione dell’immobile denominato “(omissis) ” nonostante la società assegnataria fosse cessata in data antecedente alla delibera giuntale e senza l’adozione delle procedure – per pubblici incanti, in violazione dell’art. 192 d.leg.vo 267/2000 in riferimento al R.D. 2442/23 ed al R.D. 287/24, condannando lo S. a pena di giustizia, condizionalmente sospesa.

2. La vicenda riguarda la gestione del Ristorante (omissis), ubicato in un immobile di proprietà del Comune di Gualdo Tadino in località (omissis). La società in nome collettivo BARTOCCI & SPEZIALI, subentrata nella gestione di detto ristorante a seguito di un contratto di cessione di azienda stipulato nel marzo 2000, sin dall’inizio accusa difficoltà economiche per le spese che doveva affrontare per l’adeguamento degli impianti al fine di ottenere dall’autorità sanitaria l’autorizzazione per lo svolgimento della attività di ristorazione. L’amministrazione comunale – a fronte di una prospettata spesa di 40 milioni di lire – riconosce alla società come suscettibili di compensazione con i canoni di locazione solo la metà della somma preventivata. Di qui una serie di trattative del B. con esponenti dell’ente comunale fino alla comunicazione nel dicembre del 2001 del B. di voler restituire l’immobile alla data del 31.12.2001, in attesa di una nuova aggiudicazione del contratto di locazione. Con delibera n. 250 del 12.6.2002 la Giunta comunale, su proposta del responsabile del procedimento, decide di assegnare in comodato oneroso e per la durata necessaria alla ristrutturazione dei locali, danneggiati dal terremoto,- in cui si svolgeva l’attività di ristorazione – alla ditta A.A. , titolare del “Ristorante (…)”, la gestione dell’immobile in (omissis). Con determina n. 1288 del 22.8.2002 veniva approvato lo schema di contratto e stabilito il canone annuo della locazione (la metà rispetto a quello previsto per il B. ).

3. Avverso la sentenza propone ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del difensore, deducendo:

3.1. inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 192 cod. proc.

pen. e 323 cod. pen. nonché mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della sentenza in relazione alle dichiarazioni testimoniali. La Corte di merito, aderendo alla ricostruzione della prima sentenza, avrebbe omesso di considerare la destinazione delle lettere inviate dal B. (parte civile) al Comune, nessuna delle quali indirizzata all’attuale ricorrente. Ancora, non si sarebbe tenuto conto che la determina 1288 del 22.8.2002 era stata adottata dal solo responsabile dell’Ufficio patrimonio e non sarebbe stato rilevato l’errore di computo ivi contenuto all’entità del canone annuo che era non di 3.780,00 ma di effettive 7.560,00 Euro che, ad onta dello stigmatizzato dimezzamento, sarebbe non solo del tutto congruente rispetto a quello che la sentenza di primo grado da atto essere stato individuato attraverso le delibere di Giunta ma anche determinato all’esito di una adeguata istruttoria desumibile dalla determina del 22.3.2008. Inoltre, la sentenza conterrebbe affermazioni contrastanti con le deposizioni del teste P. e del B. : le prime darebbero conto della partecipazione del ricorrente a uno o due incontri con ruolo del tutto marginale; le seconde – delle quali si dovevano considerare alcune contraddizioni – comunque confermerebbero tale ruolo marginale del ricorrente attribuendo le decisioni ad altri. Emergenze che, dunque, avrebbero dovuto fondare ragionevoli dubbi sull’elemento soggettivo in capo allo S. , elemento – oltretutto – illegittimamente rinvenuto nella consapevolezza che l’atto adottato non fosse quello utile al B. . Anche la condizione di morosità dello stesso B. nei confronti del Comune sarebbe stata travisata dalla prima sentenza e nulla al riguardo sarebbe stato detto nella sentenza impugnata, sebbene detta condizione avrebbe dovuto escludere l’elemento psicologico in capo agli amministratori. Infine, la sovrapponibilità della posizione del ricorrente a quella dell’assolto G. renderebbe contraddittoria la affermazione di responsabilità dello stesso ricorrente; inoltre, si censura la omessa considerazione delle dichiarazioni del ricorrente circa la sua partecipazione alle riunioni ed alla delega rivestita, rilevanti ai fini del limitato ruolo rivestito dall’imputato.

3.2. violazione degli artt. 43 e 323 cod. pen. nonché mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione alle risultanze della sentenza di primo grado in ordine all’accertamento del dolo fatto coincidere con il vantaggio a favore di un dato soggetto emergente dalla stessa delibera e, quindi, facendo coincidere la ingiustizia del vantaggio con la illegittimità del provvedimento che altro non era che l’asseverazione formale della proposta fatta dall’Ufficio patrimonio. Da ultimo, l’esclusione di un interesse pubblico cogente sulla base del dato temporale sarebbe superata dalla impossibilità prima del 2002 dell’inizio dei lavori di ristrutturazione e, quindi, l’urgenza era ricollegabile alla necessità di dare alla storica attività di ristorazione un locale in cui esercitare. Non si manca di notare, infine, come la sentenza abbia indagato i rapporti tra gli agenti ed i soggetti danneggiati dal provvedimento e non tra i primi e quelli avvantaggiati, in dissonanza con l’imputazione che fa leva sul vantaggio ingiusto.

3.3. violazione degli artt. 185 cod. pen., 323 cod. pen., 2043 e 2049 cod. civ. nonché mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della sentenza in relazione alla condanna risarcitoria ed alla provvisionale. Sarebbe stata confermata detta condanna nonostante le parti civili non fossero persone offese e dovendosi provare l’asserito danno morale.

3.4. violazione degli artt. 166 cod. pen., 597 comma 3 cod. proc. pen. per l’omessa sospensione della pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici applicata dalla sentenza impugnata.

4. Nell’interesse del responsabile civile Comune di Gualdo Tadino si deduce:

4.1. Violazione dell’art. 192 commi 2 e 3 cod. proc. pen. per travisamento delle risultanze processuali e, comunque, omessa, insufficiente, illogica e contraddittoria motivazione essendosi affermata la penale responsabilità dello S. solo sulla base delle dichiarazioni testimoniali dei coniugi B. – SP. e sulle affermazioni del consulente di parte circa la “aspettativa di una rassegnazione” dell’immobile ad un canone più accessibile, ma senza alcun riscontro oggettivo. Inoltre, anche l’ingiusto vantaggio patrimoniale dell’A. sarebbe fondato su mere congetture. Ancora, nessun apporto documentale vi sarebbe a sostegno della ipotesi secondo la quale lo S. avrebbe condizionato la decisione collegiale della Giunta; né vi sarebbe stata considerazione del percorso di autotutela adottato dalla stessa Giunta.

4.2. Violazione degli artt. 533 e 530 comma 2 cod. proc. pen. e, comunque, omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione sulla penale responsabilità dell’imputato e, conseguentemente, sul capo civile della sentenza non avendo la sentenza in alcun modo vagliato l’ipotesi alternativa avanzata dalla difesa nell’appello proposto facendo leva sulla analoga posizione del G. , che – ancorché partecipe della stessa delibera incriminata – era stato mandato assolto dal primo giudice per la sua posizione più defilata.

 

Considerato in diritto

 

I ricorsi sono fondati sugli assorbenti motivi della insussistenza del fatto.

1. Osserva la Corte che ai fini del perfezionamento del reato di abuso d’ufficio non assume alcun rilievo, stante la sua natura di reato di evento, l’adozione di atti amministrativi illegittimi da parte del pubblico ufficiale agente, ma unicamente il concreto verificarsi (reale o potenziale) di un ingiusto vantaggio patrimoniale che il soggetto attivo procura con i suoi atti a sé stesso o ad altri, ovvero di un ingiusto danno che quei medesimi atti procurano a terzi (Sez. 6, n. 36020 del 24/05/2011, Rossattini, Rv. 250776). È, quindi, necessario che sussista la cosiddetta doppia ingiustizia, nel senso che ingiusta deve essere la condotta, in quanto connotata da violazione di legge, ed ingiusto deve essere l’evento di vantaggio patrimoniale, in quanto non spettante in base al diritto oggettivo regolante la materia. Ne consegue che occorre una duplice distinta valutazione in proposito, non potendosi far discendere l’ingiustizia del vantaggio conseguito dalla illegittimità del mezzo utilizzato e quindi dalla accertata esistenza dell’illegittimità della condotta. (Sez. 6, n. 35381 del 27/06/2006 Rv. 234832 Moro); in particolare, la violazione di legge cui fa riferimento l’art. 323 cod. pen. riguarda non solo la condotta del pubblico ufficiale in contrasto con le norme che regolano l’esercizio del potere, ma anche le condotte che siano dirette alla realizzazione di un interesse collidente con quello per quale il potere è conferito, ponendo in essere un vero e proprio sviamento della funzione (Sez. 6, n. 43789 del 18/10/2012, Contiguglia ed altri, Rv. 254124) rispetto alla quale si configura l’elemento soggettivo del dolo intenzionale, ossia la rappresentazione e la volizione dell’evento come conseguenza diretta e immediata della condotta dell’agente e obiettivo primario da costui perseguito (Sez. 6, n. 35859 del 07/05/2008, Pro, Rv. 241210; Sez. 5, n. 3039 del 03/12/2010, Ma rotta e altri, Rv. 249706).

2. Pertanto, la prova dell’intenzionalità del dolo esige il raggiungimento della certezza che la volontà dell’imputato sta stata orientata proprio a procurare il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto. Tale certezza non può provenire esclusivamente dal comportamento “non iure” osservato dall’agente, ma deve trovare conferma anche in altri elementi sintomatici, quali la specifica competenza professionale dell’agente, l’apparato motivazronale su cui riposa il provvedimento ed i rapporti personali tra l’agente e il soggetto o i soggetti che dal provvedimento ricevono vantaggio patrimoniale o subiscono danno.(Sez. 6, n. 35814 del 27/06/2007, Pacia e altri, Rv. 237916; Sez. 6, n. 21192 del 25/01/2013, Barta e altri, Rv. 255368).

3. Nella specie, mentre la stessa configurazione dell’addebito si incentra sulla arbitrarietà della assegnazione alla società dell’A. operata con la delibera n.250 del 12.6.2002 considerando la precedente cessazione della società assegnataria (a far data dal 7.6.2002) e l’omessa adozione di procedure ad evidenza pubblica, la sentenza impugnata ha affermato fa responsabilità per la illegittimità della delibera n. 250 del 12.6.2002, riconosciuta dallo stesso tribunale amministrativo sulle cui valutazioni ampiamente si poggia, valorizzando – altresì – la determinazione di un canone – fissato dalla determina n. 1288 del 22.8.2002 – notevolmente ridotto rispetto a quello pagato dai precedenti conduttori.

4. Quanto al primo profilo di illegittimità addebitato – come si desume dalla prima sentenza – esso è stato ovviato mediante una semplice delibera (n. 282 del 3.7.2002) di variazione di intestazione della ragione sociale della ditta assegnataria, così rivelandosi un errore formale della precedente delibera di assegnazione che avveniva nelle more della modifica societaria. Quanto al secondo, esso è del tutto indiscusso, avendo anche fatto seguito il giudizio di annullamento amministrativo della delibera incriminata.

5. Osserva la Corte che fa sentenza impugnata – in sintonia con la stessa formulazione dell’accusa, soffermandosi sui sintomi di favoritismo emergenti dalla adozione della procedura illegittima – non ha accertato la ingiustizia della attribuzione all’A. dell’immobile in questione escludendo che il predetto avesse titolo a conseguire la disponibilità dell’immobile per condurre l’attività di ristorazione. In applicazione dell’insegnamento di legittimità ricordato, non può, infatti, esaurirsi il requisito dell’ingiusto vantaggio patrimoniale del reato ex art. 323 cod. pen. nella ingiustizia del mezzo adottato, stabilendo una erronea equivalenza del mezzo con il risultato-evento che la incriminazione richiede per la sua consumazione; né al tema del vantaggio ingiusto pertiene l’aspetto relativo al prezzo praticato, solo successivo alla aggiudicazione e riguardante la controprestazione, soggetta a discrezionali vantazioni economiche. Del resto – a fronte di una ipotesi incentrata esclusivamente sull’indebito vantaggio – la vicenda, che ha visto assolto il beneficiario A. , indugia distonicamente sulla esclusione del precedente gestore dell’immobile, senza – peraltro ed in ogni caso – ascrivere affatto in capo a questo un alternativo diritto alla assegnazione del bene, ma solo – ed al più – una ipotetica incidenza della gara sulla quantificazione del canone.

6. In conclusione, in assenza di un ingiusto vantaggio patrimoniale conseguito dal beneficiario della assegnazione dell’immobile pubblico, deve ritenersi insussistente il fatto di abuso ipotizzato dall’accusa.

7. L’accoglimento dei motivi in ordine alla insussistenza del fatto assorbe ogni altra questione proposta dai ricorrenti.

8. La sentenza deve essere, pertanto, annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste.

 

P.Q.M.

 

Annulla senza rinviò la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste

 

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