Corte di Cassazione, sezione VI penale, sentenza 16 novembre 2016, n. 48544

A seguito della legge n.86 del 1990, l’elemento oggettivo del reato di peculato è costituito esclusivamente dall’appropriazione che si realizza con una condotta del tutto incompatibile con il titolo per il quale si possiede, da cui deriva una estromissione totale del bene dal patrimonio dell’avente diritto con il conseguente incameramento dello stesso da parte dell’agente

 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE VI PENALE

SENTENZA 16 novembre 2016, n. 48544

Ritenuto in fatto

C.S. propone ricorso contro la sentenza della Corte d’appello di Lecce con la quale ha confermato la decisione di primo grado che lo dichiarò responsabile del delitto di peculato, così riqualificata originaria imputazione di abuso d’ufficio. C.S. , presidente del Consiglio comunale di […], accusato di aver pagato a due persone, estranee alla sua amministrazione, una cena presso il ristorante (omissis) per complessivi Euro 173, parte della maggior somma ricevuta con determina del Dirigente affari generali del Comune di […]a titolo di anticipo per spese di viaggio e soggiorno per partecipare, in ragione del suo mandato, a un incontro ‘Borsa internazionale del turismo’, tenutosi a […] nei gg. 13- 16 febbraio 2004, in tal modo impiegando la predetta somma per finalità diverse da quelle istituzionali.

A fonte dei motivi d’appello volti a censurare anzitutto l’integrazione del delitto peculato e poi la legittimità della riqualificazione del fatto, rispetto alla quale il giudice di primo grado, anziché procedere oltre, avrebbe dovuto ex art. 129 c.p.p. dichiarare l’estinzione del delitto abuso di ufficio ab origine contestato, la Corte di merito ha ritenuto manifestamente infondati tali motivi.

In particolare, per entrambi i giudici, l’epilogo processuale stabilito dall’art. 129, comma 1, c.p.p. ha tutt’altra ratio e cioè quella di evitare una inutile prosecuzione del processo là dove il fatto contestato possa essere riqualificato in un diverso delitto per il quale non sia ancora maturato il tempo di prescrizione. Inoltre, si precisa ancora nella sentenza impugnata, vi è stato solo una riqualificazione e non anche un modificazione del fatto storico; riqualificazione della quale l’imputato sarebbe stato del tutto consapevole anzitutto per il rigetto da parte del Tribunale della declaratoria di estinzione per prescrizione del delitto di abuso d’ufficio e poi per la configurazione giuridica, all’esito del giudizio di primo grado, del fatto come peculato; precondizione quest’ultima del diniego della prescrizione dell’abuso d’ufficio.

Rispetto alla eccepita violazione del né bis in idem, il giudice d’appello ha escluso tale violazione in riferimento ai fatti oggetto dell’attuale imputazione, in quanto non vi era stata alcuna pronuncia definitiva, poiché C. era stato condannato per un vicenda analoga relativa ad altra cena in diverso ristorante di […].

Altrettanto infondate, ad avviso del giudice d’appello, le ulteriori questioni poste dalla difesa rispetto alla dedotta inutilizzabilità di quanto riferito dai testi R.M.T. e Ca.Ro. . Per la Corte di merito, anzitutto, entrambe non avevano mai assunto la qualità di indagate o imputate in relazione ai fatti per i quali vi è stata affermazione di responsabilità di C. e, in ogni caso, per fatti connessi, non essendoci stata alcuna iniziativa al riguardo da parte del pubblico ministero. Peraltro, la Corte d’appello precisa che le dichiarazioni dei due funzionari del comune sono state ritenute del tutto irrilevanti, essendo i fatti oggetto dell’imputazione incontestabilmente provati da documenti acquisiti agli atti.

La Corte d’appello, in conclusione, ha confermato la condanna per peculato, condividendo l’infondatezza delle questioni dedotte volte a rappresentare che l’incontro con i commensali nel ristorante di Milano rivestiva finalità istituzionali e che, in ogni caso, il danaro per la cena milanese era da considerare spesa di rappresentanza. In realtà, rileva il giudice di appello, si è trattato di una cena tra ‘vecchi amici’ pagata con danaro del comune di Lecce; cena che non aveva nulla a che vedere con ‘spese di rappresentanza’.La Corte d’appello, nel condividere anche su tale profilo la decisione del primo giudice afferma che la somma a disposizione di C. , ‘in ragione del vincolo di destinazione ai fini pubblici non avrebbe potuto essere destinata a fini diversi’.

Condivide, infine, la Corte di merito il diniego delle attenuanti generiche, poiché pur trattandosi di somme modeste, era emersa disinvoltura nell’utilizzo del danaro pubblico nonché ‘l’inserimento dei fatti in una più ampia vicenda fraudolenta’.

La difesa deduce:

– Nullità delle sentenze di primo grado e di appello per violazione della legge penale nonché per vizio di motivazione in relazione agli artt. 129, c.p.p., 314 e 323 c.p..

Tribunale e Corte d’appello hanno erroneamente rigettato la declaratoria di estinzione del delitto di ‘abuso d’ufficio’ per prescrizione, nonostante fosse incontestabilmente decorso il tempo stabilito dalla legge per tale declaratoria: fatti commessi il 22 febbraio 2005, e come tale sicuramente prescritti il 15 maggio 2013. Richiesta, invece, rigettata sull’erroneo presupposto che i fatti avrebbero potuto essere riqualificati come peculato.

Oltre al rilievo che la richiesta rigettata in primo grado, può essere riproposta in appello, il ricorrente deduce ulteriormente che l’art. 129 c.p.p. è diretto a tutelare il diritto dell’imputato al proscioglimento in ossequio al principio del favor rei; norma, pertanto, che non può che essere volta a tutelare, come ritenuto da entrambi i giudici di merito,il principio di obbligatorietà dell’azione penale.

– Nullità delle sentenze di primo grado e di appello per inosservanza e erronea applicazione della legge penale nonché vizio di motivazione in relazione agli artt. 111, commi 1 e 2, della Costituzione e all’art.6 comma 3 lett. a) C.E.D.U., 178 comma 1 lett. e) e 521 c.p.p..

avrebbe dovuto essere dettagliatamente ‘informato della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico’. Secondo la sentenza Drassich, la riqualificazione del fatto è avvenuta senza che l’imputato sia stato informato e messo in condizione di discutere la nuova accusa e di interloquire.

La Corte d’appello ha ritenuto di escludere tale violazione perché il giudice dell’udienza preliminare aveva già rappresentato la possibilità della diversa qualificazione. Ad avviso del ricorrente poiché giudice dell’udienza preliminare, con sentenza 3 novembre 2005, aveva riqualificato il fatto contesto a C. da peculato in abuso d’ufficio, trasmettendo gli atti al pubblico ministero per procedere in ordine a tale reato (atti dai quali ha avuto origine tale processo), C. era stato sin dall’inizio a conoscenza di essere accusato solo del delitto di abuso d’ufficio.

Non avrebbe potuto essere presa in considerazione la sentenza del giudice dell’udienza preliminare, ne tantomeno le sentenze, l’una pronunciata dal Tribunale di Lecce il 22 aprile 2011 che, resa in una fase precedente del presente processo, ebbe a dichiarare C. colpevole del delitto di peculato: tale ultima sentenza è stata annullata dalla Corte d’appello il 12 aprile 2012, per essere stata pronunciata da giudici diversi da quelli che avevano partecipato al dibattimento. La decisione del Tribunale, all’esito dell’annullamento, avrebbe dovuto essere considerata tamquam non esset.

– Nullità delle sentenze di primo grado e di appello per inosservanza di norme processuali stabilite a pena di inutilizzabilità nonché per vizio di motivazione in relazione all’art.63 c.p.p..

Le dichiarazioni dei testi R. e Ca. sono, ad avviso del ricorrente, inutilizzabili ex art. 63 comma 2 c.p.p., perché sono state rese da persone che avrebbero sin dall’inizio dovuto essere sentite in qualità di imputate o indagate.

Il ricorrente riproduce integralmente quanto al riguardo dedotto con i motivi d’appello, sottolineando che le predette testimoni, a differenza di quanto sostenuto dal giudice di primo grado, sono state sentite nel corso delle indagini.

Per tal motivo, ad avviso del ricorrente, al momento del loro esame a carico dei due testi emergevano elementi che comportavano un auto-ammissione di responsabilità per culpa in vigilando. Il ricorrente ritiene la risposta dei giudici di merito del tutto incomprensibile.

– Nullità delle sentenze di primo grado e di appello per violazione di legge penale nonché per vizio di motivazione in relazione all’art. 521 c.p.p..

Il ricorrente sottolinea che il reato contestato a C. sin dall’inizio del procedimento è stato il delitto di abuso d’ufficio, fattispecie del tutto diversa rispetto al peculato. Ne discende un radicale mutamento del fatto ascritto all’imputato che avrebbe dovuto comportare la restituzione degli atti al pubblico ministero ex art. 521, comma 2, c.p.p..

La Corte d’appello ha trascurato di considerare che la riqualificazione richiede il rispetto del criterio di continenza; criterio non esistente tra peculato e abuso d’ufficio.

Non è un caso che le due sentenze pongono l’accento sulla natura della condotta posta in essere da C. ; condotta senz’altro di ‘distrazione’ e non di ‘appropriazione’.

La Corte d’appello, nel condividere la decisione del primo giudice afferma che la somma a disposizione di C. , ‘in ragione del vincolo di destinazione ai fini pubblici non avrebbe potuto essere destinata a fini diversi’.

– Nullità delle sentenze di primo grado e di appello per vizio di motivazione, in relazione alla ritenuta responsabilità di C. nonostante che la cena presso il ristorante (OMISSIS) avesse una finalità istituzionale ed il costo della stessa rientrasse nella definizione di spese di rappresentanza.

La Corte d’appello motiva su tale punto per relationem, disattendendo il motivo d’appello senza una specifica e autonoma motivazione, riportandosi alle assertive argomentazioni del Tribunale. Non è contestabile che nel corso della cena i commensali parlarono dei cc.dd. ‘contatti di quartiere’ riferibili a un bando sulla riqualificazione delle periferie urbane del comune di […]. Non vi è motivazione sulle ragioni per le quali il giudice d’appello abbia ritenuto che quanto dianzi riportato sia un mero espediente difensivo, nonostante non sia stato rilevato alcun profilo di inattendibilità dei due testi G. e S. . Ad avviso del ricorrente, è privo di fondamento il rilievo che l’imputato ‘non aveva ricevuto alcun incarico in tal senso’, poiché C. – all’epoca Presidente del Consiglio comunale nonché della conferenza Regionale pugliese dei Presidenti dei Consigli comunali – avrebbe potuto farsi promotore di tale iniziativa non essendoci alcuna norma che lo vietasse. Inoltre, nessuna risposta era stata resa sull’incontro casuale all’aeroporto di […] e sull’impegno assunto di parlare di tale argomento, approfittando dell’incontro a […] per iniziare il discorso su temi dianzi indicati, ancorché sulla circostanza che la scelta del ristorante […] era dovuta al fatto che a quell’ora risultava essere l’unico ristorante aperto.

Non vi è, infine, riferimento alcuno nella decisione della Corte d’appello all’urgenza delle questioni da trattare, nonostante sia stato espressamente dedotta tale circostanza. Peraltro, non è stato considerato che l’attuale vicenda è del tutto distinta rispetto l’altra, giudicata in diverso procedimento.

– Nullità della sentenza per vizio di motivazione in relazione al diniego delle attenuanti generiche.

La Corte d’appello ha condiviso il diniego delle attenuanti generiche e nonostante sia stata articolata una puntuale censura, per far rilevare che il giudice per l’udienza preliminare aveva applicato le attenuanti generiche. Al riguardo, la Corte d’appello ha negato ogni profilo di contraddittorietà, rilevando che il ‘precedente giudice non poteva tenere conto della presente vicenda non ancora definita con sentenza irrevocabile’ Per la difesa l’affermazione è oscura e pare in ogni caso manifestare la medesima contraddittorietà della sentenza di primo grado.

Tale è la sintesi dei motivi di ricorso enunciati nei limiti stabiliti dall’art.173, comma 1, disp. att. c.p.p..

Considerato in diritto

Il ricorso è infondato.

1.1. Quanto al primo profilo della violazione dell’art. 129, comma 1, c.p.p. la soluzione seguita dal giudice d’appello è corretta e adeguatamente giustificata.

Il giudice di primo grado ha legittimamente operato la diversa qualificazione giuridica del fatto e non accolto la richiesta di declaratoria di estinzione del reato per intervenuta prescrizione.

Deve, infatti, riaffermarsi che il potere-dovere del giudice di merito di dare al fatto una diversa qualificazione giuridica, senza incorrere nella violazione dell’obbligo della correlazione tra ‘accusa e sentenza’ è subordinato alla condizione che ‘il fatto storico addebitato rimanga identico, in relazione al triplice elemento della condotta, dell’evento e dell’elemento psicologico dell’autore’.

Ne discende che giudice di primo grado ha legittimamente operato la riqualificazione giuridica del fatto, a norma dell’art. 521, comma 1, c.p.p.. che subordina la diversa configurazione del titolo di reato alla sola condizione che essa non imponga una declaratoria di incompetenza per materia o di difetto di giurisdizione o di attribuzione per eccesso.

Tale condizione è stata verificata e argomentata dal giudice d’appello (cfr. pp3 e 4 della sentenza impugnata).

Altrettanto corretta la giuridica impostazione di entrambi giudici di merito, nel senso che il fatto-reato può essere diversamente riqualificato giuridicamente rispetto all’imputazione contenuta nel decreto di citazione, senza che si debba verificare preventivamente l’operatività della regola iuris prevista dall’art. 129, comma 1, c.p.p. che impone la immediata declaratoria di estinzione del reato per prescrizione.

Questa Corte si è così pronunciata in una analoga situazione processuale in cui il giudice d’appello, dopo la riqualificazione del delitto di abuso in quello di peculato – anziché pronunciare declaratoria di estinzione del reato e, in ogni caso, rifiutare la diversa qualificazione giuridica del fatto – ha proseguito il giudizio in ordine alla nuova riqualificazione del fatto.

La Corte di legittimità ha affermato che l’imputato avrebbe dovuto essere posto in condizione di contestare la diversa qualificazione giudica nel giudizio di merito, annullando la sentenza impugnata con rinvio al giudice di merito per il contraddittorio sulla diversa riqualificazione del fatto e nuovo giudizio (Sez. V I, 19 febbraio 2010, n.20500).

Nel caso in esame, al contrario non vi è stata alcuna violazione della regola del contradditorio, poiché la riqualificazione del delitto di ‘abuso d’ufficio’ in quello di ‘peculato’ è stata effettuata nel giudizio di primo grado, in tal modo garantendo all’imputato – per vero già edotto del diverso epilogo dell’imputazione in tale grado – ampio contraddittorio.

1.2. Rispetto a tale ulteriore censura, va rilevato che più volte questa Corte si è pronunciata nel senso che ‘in tema di correlazione tra accusa e sentenza, il rispetto della regola del contraddittorio – che deve essere assicurato all’imputato, anche in ordine alla diversa definizione giuridica del fatto, conformemente all’art. 111 Cost., comma 2, integrato dall’art. 6 Convenzione Europea, come interpretato dalla Corte EDU – impone esclusivamente che detta diversa qualificazione giuridica non avvenga ‘a sorpresa’ e cioè nei confronti dell’imputato che, per la prima volta e, quindi, senza mai avere la possibilità di interloquire sul punto, si trovi di fronte ad un fatto storico radicalmente trasformato in sentenza nei suoi elementi essenziali rispetto all’originaria imputazione, di cui rappresenti uno sviluppo inaspettato.

Ne consegue che non sussiste la violazione dell’art. 521, comma 1, c.p.p., qualora la diversa qualificazione giuridica del fatto appaia come uno dei possibili epiloghi decisori del giudizio, secondo uno sviluppo interpretativo assolutamente prevedibile e l’imputato ed il suo difensore abbiano avuto nella fase di merito la possibilità di interloquire in ordine al contenuto dell’imputazione, anche attraverso l’ordinario rimedio dell’impugnazione, nella specie proposta avverso la sentenza di primo grado contenente la diversa qualificazione giuridica del fatto(Sez. V, 24 settembre 2012, dep.19 febbraio 2013, n. 7984).

Il rigore descrittivo e argomentativo della sentenza impugnata rende evidente che la condotta di C.S. non è tale da configurare il delitto di abuso di ufficio, bensì quello di peculato.

A seguito della legge n.86 del 1990 l’elemento oggettivo del reato di peculato è, in ogni caso, costituito esclusivamente dall’appropriazione che si realizza con una condotta del tutto incompatibile con il titolo per il quale si possiede, da cui deriva una estromissione totale del bene dal patrimonio dell’avente diritto con il conseguente incameramento dello stesso da parte dell’agente.

Dopo lo novella del 1990 si affermò che per aversi appropriazione fosse necessaria una condotta che non risultasse giustificata o giustificabile come pertinente all’azione della pubblica amministrazione; e che pertanto fosse configurabile la distrazione quando in presenza di pagamenti indebiti in favore di terzi, operati pur sempre in nome e per conto della pubblica amministrazione e, dunque, senza negare l’appartenenza pubblica del danaro, utilizzato nell’apparente rispetto di finalità istituzionali.

Su queste premesse, è da ritenere che si sia verificata un’appropriazione di danaro pubblico, poiché C. , quale presidente del Consiglio comunale di Lecce, si è ‘appropriato’ di tale danaro per effettuare pagamenti di spesa non rientranti nelle erogazioni stabilite per la trasferta a […].

Le ulteriori censure relative alle diverse ragioni della spesa – giustificate quali spese di rappresentanza dovute a un incontro con gli amici commensali – nonché all’attendibilità o meno dei contenuti delle conversazioni non sono annoverabili, al pari del diniego delle attenuanti generiche, tra quelle ammissibili nel giudizio di legittimità, poiché attengono alla ricostruzione dei fatti e sono state già analiticamente e correttamente esaminate dalla Corte d’appello (cfr. pp.5 e 6 sentenza impugnata).

Il ragionamento probatorio della Corte d’appello è articolato – come esposto in sintesi e nei punti significativi in narrativa – con rigore argomentativo dapprima sulle ragioni per le quali la situazione riferita non potesse essere ricostruita nel senso indicato dall’imputato e poi sulle risposte ai punti critici della ricostruzione operata dal giudice di primo grado.

Motivazione caratterizzata da uno sviluppo argomentativo completo e coerente con quanto acquisito agli atti processuali e non annoverabile tra quelle – pur legittime là dove svolte nel ragionato adeguamento alla precedente – per relationem.

In tale contesto, si inserisce anche la dedotta inutilizzabilità delle testimonianze resa dalle due funzionarie, a dire della difesa ‘responsabili di omessa vigilanza’. Senza affrontare la ipotizzabilità di tale tipologia di ‘compartecipazione dolosa’ al delitto di peculato, il dato dirimente è quello posto in rilievo dalla Corte d’appello della assoluta ‘inutilità’ di tali testimonianze, poiché la prova dei fatti oggetto dell’imputazione è documentale.

Il ricorso è, dunque, infondato e, a norma dell’art. 616 c.p.p., il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *