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Suprema Corte di Cassazione

sezione VI

ordinanza  6 novembre 2013, n. 24885

Fatto e diritto

Rilevato che il consigliere designato ha depositato, in data 18 febbraio 2013, la seguente proposta di definizione, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c.: “Con atto di citazione del 27.01.1999, la sig.ra S.D. conveniva in giudizio, innanzi il Tribunale civile di Roma, i germani S.F. , V.M. , G. e M. , chiedendo lo scioglimento della comunione ereditaria dell’immobile sito in (omissis) , pervenuto per successione legittima del “de cuius” S.P. . L’attrice chiedeva che il convenuto S.V.M. le corrispondesse un’indennità in ragione del godimento esclusivo dell’immobile, oltre ad interessi e rivalutazione. Si costituiva il sig. S.V.M. , respingendo le pretese di parte attrice ed eccependo l’avvenuta usucapione della quota spettante alla sorella D. . Il Tribunale, con sentenza del 27 giugno 2002, rigettava la richiesta di usucapione e disponeva la divisione per quote dell’immobile, condannando il sig. V.M. al pagamento di una somma, a titolo di indennizzo.
Con citazione notificata in data 19.03.2004 S.V.M. proponeva appello avverso tale sentenza.
Si costituiva la sig.ra S.D. , contestando il gravame proposto, chiedendone il rigetto; proponeva, altresì, appello incidentale.
Rimanevano contumaci le sigg.re S.F. , S.M. e S.G. .
Con sentenza n. 3084 del 2011, depositata il 12 luglio e notificata il 10 marzo 2012, la Corte d’Appello di Roma dichiarava l’appello inammissibile e condannava l’appellante, in accoglimento dell’appello incidentale, a versare alla sig.ra S.D. , la somma di Euro 50.105,03, quale sua quota per il canone di locazione.
Avverso tale sentenza il sig. S. proponeva ricorso per cassazione, notificato l’8 maggio 2012 e depositato il 25 maggio 2012, deducendo tre motivi.
Si costituiva con controricorso S.D. , la quale proponeva, altresì, ricorso incidentale, sulla base di due motivi.
Con il primo complesso motivo il ricorrente in via principale ha denunciato, in relazione all’art. 360 n. 3 e 5 c.p.c., la violazione dell’art. 244 e seguenti c.p.c. e la violazione dei principi regolatori del giusto processo ex art. 111 Cost, nonché l’omessa motivazione su un punto decisivo della causa, in virtù della mancata assunzione della prova testimoniale asseritamente richiesta per provare l’avvenuto acquisto per usucapione della proprietà dell’immobile oggetto della causa.
Con il secondo motivo, il sig. S.V.M. ha lamentato la violazione dell’art. 358 c.p.c., in riferimento all’art. 360, n. 3, c.p.c., asserendo che l’appello non poteva essere dichiarato inammissibile, difettando i presupposti prescritti dal citato art. 358 c.p.c..
Con il terzo motivo, lo stesso ricorrente principale ha dedotto la violazione dell’art. 1102 c.c., in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., nella parte in cui, con la sentenza impugnata, egli era stato condannato alla restituzione dei frutti goduti.
La prima doglianza appare, all’evidenza, inammissibile.
Infatti, il costante insegnamento della Suprema Corte, pone a carico della parte che denuncia, in sede di legittimità, il difetto di motivazione su un’istanza di ammissione di un mezzo istruttorio, l’onere di indicare specificamente le circostanze oggetto della prova, provvedendo a richiamarle specificamente, al fine di consentire il controllo della decisività dei fatti da provare e, quindi, delle prove stesse, dal momento che tale controllo, per il principio di necessaria specificità del ricorso per cassazione, deve poter essere compiuto dalla Corte di cassazione sulla base delle deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non è consentito sopperire con indagini integrative (cfr. Cass. n. 28336 del 2011; Cass. n. 17915 del 2010; Cass. n. 4201 del 2010; v., anche, Cass. n. 6440 del 2007 secondo cui, “é privo di autosufficienza il ricorso fondato su un motivo con il quale viene denunciato vizio di motivazione in ordine all’assunta prova testimoniale, omettendo di indicare nel ricorso i capitoli di prova non ammessi ed asseritamente concludenti e decisivi al fine di pervenire a soluzioni diverse da quelle raggiunte nell’impugnata sentenza”; cfr., pure, Cass. n. 5479 de 2006, alla stregua della quale “ove trattasi di una prova per testi, è onere del ricorrente, in virtù del principio del ricorso per cassazione, indicare specificamente le circostanze che formavano oggetto della prova, quale ne fosse la rilevanza, ed a quale titolo i soggetti chiamati a rispondere su di esse potessero esserne a conoscenza”).
Nel caso di specie, il richiamato principio di necessaria specificità non risulta rispettato, essendo evidente che il ricorrente non ha provveduto a richiamare i capitoli di prova non ammessi ed asseritamente considerati decisivi, né ha indicato i testimoni e il titolo sulla base del quale questi avrebbero potuto essere a conoscenza delle circostanze dedotte. Anche la seconda doglianza dedotta con il ricorso principale appare inammissibile, poiché la sentenza di secondo grado risulta perfettamente coerente sia con il dettato normativo dell’art. 342 c.p.c., che prescrive che l’atto di appello debba contenere i “motivi specifici dell’impugnazione” (nel caso di specie omessi dal ricorrente con la proposizione dell’atto di appello, per quanto puntualizzato nella stessa sentenza impugnata), che con l’orientamento costante della giurisprudenza di questa Corte secondo il quale “nell’atto di appello, ossia nell’atto che, fissando i limiti della controversia in sede di gravame consuma il diritto potestativo di impugnazione, deve sempre accompagnarsi, a pena di inammissibilità del gravame rilevabile di ufficio, una parte argomentativa che contrasti le ragioni addotte dal primo giudice” (cfr. Cass. n. 12984 del 2006; Cass. n. 23299 del 2011).
Peraltro, il motivo in questione risulta del tutto sprovvisto dell’indicazione del requisito prescritto dall’art. 366, comma 1, n. 4), c.p.c., dal momento che, con esso, il S.V.M. si è limitato a dedurre genericamente la violazione dell’art. 358 c.p.c., in base alla mera argomentazione che di tale norma non ricorresse alcun presupposto.

Infine, risulta inammissibile anche il terzo ed ultimo motivo, evidenziandosi come non siano stati offerti motivi tali da comportare il mutamento dell’orientamento della giurisprudenza di questa Corte, così come imposto dall’art. 360 bis, n. 1), c.p.c.. Infatti, per confutare quanto esposto dal ricorrente (il quale, senza indicare alcun orientamento giurisprudenziale a supporto della propria tesi, si è limitato ad eccepire che “egli non ha mai impedito il godimento pro quota da parte degli altri condividenti”), è sufficiente riportare quanto affermato in Cass., n. 12260 del 2002, secondo la quale, “il singolo coerede può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri coeredi solo attraverso l’estensione del possesso medesimo in termini di esclusività (o per come ritenuto alcune volte mediante atti di “interversio”); sicché a tal fine non è sufficiente che gli altri partecipanti si siano astenuti dall’uso della cosa, occorrendo altresì che il coerede ne abbia goduto in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui e tale da evidenziare una inequivoca volontà di possedere “uti dominus” e non più “uti condominus”; poiché, peraltro, tale volontà non può desumersi dal fatto che il coerede abbia utilizzato e amministrato il bene ereditario, provvedendo fra l’altro al pagamento delle imposte e alla manutenzione, il coerede che invochi l’usucapione ha l’onere di provare che il rapporto materiale con il bene si è verificato in modo da escludere, con palese manifestazione del volere, gli altri coeredi dalla possibilità di instaurare analogo rapporto con il medesimo bene ereditario” (v., nello stesso senso, anche Cass. n. 9903 del 2006 e Cass. n. 19478 del 2007).
Nel caso di specie è, peraltro, lo stesso ricorrente principale – per quanto desumibile dallo svolgimento della stessa doglianza in esame – a negare la sua volontà di possedere uti dominus esclusivo, ammettendo di aver posseduto l’immobile garantendo e riconoscendo agli altri condividenti (ivi compresa la controricorrente) la possibilità di godere “pro quota” dell’immobile dedotto in controversia.
Inoltre, la deduzione del ricorrente circa la determinazione dei frutti, che sarebbero dovuti solo dal giorno della domanda giudiziale e andrebbero determinati in base ai parametri della legge sull’equo canone, è agevolmente ricavabile dall’osservazione che la Corte di Appello ha semplicemente applicato principi assolutamente pacifici in giurisprudenza (cfr. fra le tante, Cass. n. 21013 del 2011; Cass. n. 7881 del 2011; Cass. 12818 del 2004; Cass. n. 9659 del 2000; Cass. n. 7716 del 1990).
Per quanto concerne, invece, il ricorso incidentale proposto da S.D. , con il primo motivo è stata dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 820, comma terzo, 821, comma terzo, e 832 c.c., in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c..
La sig.ra S. aveva chiesto, in sede di precisazioni delle conclusioni, che S.V.M. fosse condannato al pagamento dei frutti civili, oltre agli interessi e alla rivalutazione, dalla data di apertura della prima delle successioni che avevano determinato l’acquisto della comproprietà dei beni in capo agli eredi.
Tale doglianza appare, all’evidenza, fondata.
Infatti, la Corte romana, dopo aver correttamente applicato i principi in materia di ripartizione dei frutti civili dei beni in comunione, per averne S.V.M. goduto in via esclusiva in pendenza dello stato di indivisione, è incorsa nella violazione del diritto della sig.ra S.D. alla percezione dei frutti civili, relativi all’appartamento attribuitole in proprietà esclusiva dalla sentenza di divisione.
In particolare, la Corte territoriale ha individuato, in capo al ricorrente principale, l’obbligo di restituzione dei frutti percepiti solo sino alla pubblicazione della sentenza di appello e non già, come chiesto in sede di gravame, “fino all’integrale soddisfo”, violando, in tal modo, il diritto della sig.ra S. alla restituzione dei frutti civili maturati nel periodo intercorrente tra la data di deposito della sentenza d’appello e la data di effettivo conseguimento del possesso dell’appartamento, assegnatole in proprietà esclusiva e dalla stessa non goduti a seguito del mancato rilascio dell’immobile da parte del sig. S.V.M. (sul diritto alla restituzione cfr. Cass. n. 6586 del 1997; Cass. n. 10296 del 1990; Cass. 4779 del 1988).
Con il secondo motivo ha denunciato la violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360, comma primo, n. 4 c.p.c., avendo la Corte d’Appello omesso di pronunciare sulla domanda di restituzione dei frutti civili, con riferimento al periodo successivo al deposito della sentenza di gravame.
Anche tale doglianza appare, ad avviso del relatore, manifestamente fondata.
La violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato è evidente: infatti, la ricorrente in via incidentale aveva espressamente richiesto, fin dalla sua prima difesa in grado di appello, la restituzione dei frutti civili fino al soddisfo, anche con riferimento a quelli maturati successivamente alla sentenza impugnata. La stessa domanda è stata poi ritualmente riproposta in sede di precisazione delle conclusioni.
Tuttavia, la legittima proposizione di detta richiesta, la Corte territoriale non si è pronunciata su tale domanda, avendo disposto esclusivamente la restituzione pro quota dei frutti civili maturati manente comunione, senza minimamente considerare il periodo successivo allo scioglimento della comunione.
L’omessa pronuncia su un capo della domanda, costituisce un vizio denunciabile ai sensi dell’art. 112 c.p.c., come ribadito dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui “il vizio di omessa pronuncia, in quanto incidente sulla sentenza pronunciata dal giudice del gravame, è deducibile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360, n. 4 c.p.c. e, risolvendosi nella violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, integra un error in procedendo, in relazione al quale la Suprema Corte è anche giudice di fatto ed ha il potere-dovere di esaminare direttamente gli atti in causa e, in particolare, le istanze e le deduzioni delle parti” (cfr., ad es., Cass. n. 375 del 2005 e Cass. n. 978 del 2007).
In definitiva, si riconferma che, nel caso di specie, sembrano sussistere i presupposti per la definizione del ricorso nelle forme del procedimento camerale ex. art. 380 bis c.p.c., potendosi ravvisare l’inammissibilità dei motivi del ricorso principale, in relazione all’ipotesi prevista dall’art. 375 n. 1 c.p.c., e la manifesta fondatezza dei motivi del ricorso incidentale, avuto riguardo all’art. 375 n. 5 c.p.c.”.
Considerato che il Collegio condivide argomenti e proposte contenuti nella relazione di cui sopra, avverso la quale la memoria difensiva, depositata dal ricorrente principale ai sensi dell’art. 380 bis, comma 2, c.p.c. (con la quale, peraltro, lo stesso risulta aver rinunciato al primo motivo di ricorso proposto), non contrappone ulteriori argomentazioni idonee a confutare la relazione stessa e senza che dalla discussione orale dei difensori siano emersi nuovi elementi di valutazione;
rilevato, altresì, che la sopravvenuta costituzione nel presente giudizio di legittimità delle altre intimate S.M. , S.G. e S.F. , a mezzo dell’Avv. S.M.V. , deve ritenersi inammissibile sia perché realizzata a titolo di intervento sia perché avvenuta con il conferimento della procura speciale al predetto difensore apposta in calce ad una memoria e, quindi, al di fuori dei casi previsti dall’art. 83, comma 3, c.p.c., risultando, invece, necessario – ai fini di una valida costituzione – il rilascio della procura nelle forme stabilite dallo stesso art. 83, al comma 2;
ritenuto che, pertanto, il ricorso principale (considerata anche l’intervenuta rinuncia alla prima censura formulata) deve essere rigettato, mentre quello incidentale deve essere accolto, con la conseguenza cassazione, in relazione a quest’ultimo ricorso, della sentenza impugnata ed il rinvio della causa ad altra Sezione della Corte di appello di Roma, che, oltre ad attenersi ai principi di diritto sopra enunciati, provvedere anche sulle spese della presente fase di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale ed accoglie il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso accolto e rinvia, anche per le spese della presente fase di legittimità, ad altra Sezione della Corte di appello di Roma.

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