Suprema Corte di Cassazione

sezione V

sentenza del 24 aprile 2012, n. 15715

1. Il Giudice di pace di Sant’Elpidio a Mare, con la sentenza del 18 novembre 2010, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di R.C.L. per i reati di minacce e percosse in danno di D.R. per essere i reati estinti per intervenuta remissione di querela, accettata espressamente dall’imputato.

2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Ancona, il quale lamenta, quale unico motivo, la violazione di legge quanto al capo a) dell’imputazione (minacce) a cagione dell’esistenza degli estremi del più grave reato di violenza privata, almeno nella forma tentata, con la consequenziale competenza del Tribunale di Fermo, Sezione Distaccata di Sant’Elpidio a Mare.

3. Risulta, altresì, pervenuta memoria nell’interesse dell’imputato.

MOTIVI

1. Il ricorso è da rigettare dovendosene, peraltro, affermare una certa genericità posto che il ricorrente Procuratore Generale dopo aver evidenziato i principi giuridici nella materia non ha, in concreto, evidenziato in fatto te ragioni per cui la fattispecie ascritta all’imputato rientrasse nel più grave reato di competenza del Tribunale.

2. In diritto, si afferma pacificamente come il delitto di violenza privata sia un reato complesso, vale a dire che suo elemento costitutivo sia una condotta che, isolatamente considerata, costituirebbe l’elemento materiale di un altro reato (v. Cass. Sez. V 17 ottobre 2008 n. 43219).

L’agente, infatti, ai sensi dell’art. 610 cod. pen., può utilizzare, alternativamente o congiuntamente, violenza e minaccia per raggiungere il suo scopo, coartando fisicamente o psicologicamente la vittima.

Conseguentemente, quando in un unico contesto, vengano posti in essere comportamenti violenti oppure minacciosi, ed entrambe queste condotte siano finalizzate a imporre alla vittima un tacere o un pati non è dubbio che resti integrata la ipotesi di violenza privata, se l’agente raggiunge il suo scopo ovvero quella dei tentativo del predetto reato, se lo scopo non è raggiunto (v. Cass. Sez. 5 26 gennaio 2006 n. 7214 e da ultimo Sez. 2 18 gennaio 2011 n. 3609).

3. In punto di fatto, questa volta, si osserva come dall’esame del capo d’imputazione ascritto all’imputato non si evinca affatto l’esistenza di una condotta finalizzata all’Imposizione al destinatario delle minacce di un determinato comportamento.

Le espressioni adoperate rientrano, senza dubbio alcuno, nel contestato delitto di minacce, in quanto si risolvono nella prospettazione del mero male ingiusto evidenziato dalle frasi relative alla morte ovvero all’incendio dell’abitazione della parte offesa, mentre l’ulteriore accenno al mancato ritorno insieme all’autore della minaccia non può essere indice della volontà di richiedere nel destinatario un determinato comportamento ma ha soltanto effetto rafforzativo del male ingiusto minacciato.

4. In conclusione il ricorso deve essere rigettato.

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso del Procuratore Generale.

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