Cassazione toga rossa

Suprema Corte di Cassazione

sezione V

sentenza 8 luglio 2015, n. 29093

Ritenuto in fatto

Con sentenza in data 18.4.2013 la Corte di Appello di Milano confermava la sentenza del Tribunale di Como dei 26.4.2012 con la quale C.L., Sindaco dei Comune di Locate Varesino, era stato condannato alla pena di mesi otto di reclusione, per il reato di cui all’art. 615 c.p., per essersi introdotto all’interno dei Castello di Seprio, contro la volontà dei rappresentanti della Onlus, Accademia Concertante d’Archi di Milano- ACAM- che conduceva e gestiva il suddetto immobile. Avverso tale sentenza l’imputato, a mezzo del suo difensore, ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi, con i quali lamenta:
-con il primo motivo, la ricorrenza dei vizi dì cui all’art. 606, primo comma, lett. c) ed e) c.p.p., in relazione allo ius excludendi alios; in particolare- premesso che il Castello Del Seprio era stato ceduto in uso ad ACAM, associazione senza scopo di lucro, in forza di una convenzione stipulata con il Comune di Mozzate, proprietario dell’immobile, che ne disciplinava l’utilizzo unicamente per la realizzazione di progetti culturali ed educativi e tale convenzione prevedeva, peraltro, il coinvolgimento dei Comuni di Locate Varesino e di Carbonate, con cui era stato concordato un protocollo di intesa per la destinazione del castello, considerato “di fatto” bene in comune fra gli Enti, in virtù di pregressi accordi fra le amministrazioni e che era a tutti noto che ACAM utilizzasse il Castello per scopi non conformi alla convenzione, in quanto vi venivano svolti ricevimenti di nozze, come quello dei 3 marzo 2006, a mero fine di lucro- il ricorrente, Sindaco di Locate Varesino, quel giorno si era presentato presso il Castello dei Seprio assieme al Comandante della Polizia Locale di Locate Varesino, in quel momento fuori servizio, citofonando e dopo essersi qualificato, aveva chiesto di accedere al Castello, così ottenendo l’apertura dei cancello pedonale e l’ingresso nel vialetto di ingresso, dove, assieme ai W.W. L.P. e L. C., nel frattempo sopraggiunti, attesero l’arrivo di M.F. (parte civile costituita e rappresentante di ACAM), senza assolutamente accedere all’interno dell’immobile, nel quale era in corso un banchetto nuziale; tanto premesso, la Corte territoriale è caduta in contraddizione, laddove afferma, da un lato, che il Sindaco non aveva alcun diritto di accedere, non essendo proprietario dei bene e non vantando, dunque, alcun potere reale sul bene, per poi affermare che l’imputato era effettivamente coinvolto nella gestione del Castello e, dunque, chiamava gli agenti di Polizia Locale di Locate e Carbonate ai fini di ricevere assistenza e supporto; se il Sindaco C. aveva – come aveva – un concreto interesse al corretto uso del Castello dei Seprio, in quanto il Comune di Locate Varesino era “coinvolto” nella gestione dei medesimo, nell’ambito dei poteri che gli erano propri, ben poteva verificare il rispetto della convenzione e, dunque, controllare che l’immobile – res publicae, da sempre ritenuto (erroneamente) bene di proprietà delle tre Amministrazioni – fosse destinato a raggiungere lo scopo della convenzione; il Castello del Seprio era affidato in custodia ad ACAM in virtù della convenzione indicata, ma mancava, in buona sostanza un contratto di locazione, od altro negozio giuridico, che legittimasse l’esercizio dello ius excludendi alios da parte dei due rappresentanti dell’associazione, B. e F.; la custodia non fa sorgere quello che la Corte ha definito “una licenza di uso esclusivo dell’area”, comportante lo ius excludendi alios, atteso che con la custodia il titolare ha semplicemente il dovere di restituire il bene non appena gli viene richiesto e se il custode non adempie ai suoi obblighi, il proprietario può chiedere l’immediata restituzione del bene stesso (art. 1804 cod. civ.); il giardino – dove ha avuto effettivo accesso l’imputato C. – oltre alle sale al piano terreno erano “aperte al pubblico” ed il Sindaco si è legittimamente fermato lungo il vialetto aperto al pubblico, dove chiunque poteva soffermarsi, in attesa dell’arrivo dei F., con il quale, poi, discuteva;
-con il secondo motivo, il vizio di violazione di legge e di motivazione, in ordine alla ritenuta sussistenza dei delitto di violazione di domicilio (art. 615 c.p.), atteso che nella fattispecie in esame non sussiste un luogo di privata dimora; il Castello del Seprio, luogo aperto al pubblico e destinato allo svolgimento di attività socio-culturale, non può essere ricondotto alla nozione di privata dimora, quale accolta dal legislatore, in quanto manca quella relazione immediata persona-ente che è oggetto di tutela ex artt. 614 e 615 c.p.; inoltre, sulla base della convenzione indicata, il Castello del Seprio viene definito “sede” per l’attuazione dei progetto culturale indicato ed il sindaco C. non ha posto in essere alcuna azione, abusando delle sue funzioni: ha avuto accesso nel vialetto di ingresso, chiedendo spiegazioni su quello che si stava svolgendo, ed a fronte dei sospetto che vi fossero macroscopiche irregolarità, anche in punto di autorizzazione alla somministrazione di cibi e bevande, è stato chiesto l’intervento dei Carabinieri per ogni più opportuno controllo, soprattutto sotto il profilo sanitario.

Considerato in diritto

II ricorso è inammissibile, siccome manifestamente infondato.
1. Con il primo motivo il ricorrente svolge, sotto il versante della violazione di legge e dei vizio motivazionale plurime censure in merito alla configurabilità dei reato ascrittogli, che non si presentano in alcun modo idonee ad inficiare le corrette argomentazioni svolte dalla Corte territoriale. Lo stesso ricorrente, innanzitutto, evidenzia che la proprietà del Castello del Seprio, nel quale egli si è introdotto, è dei Comune di Mozzate e non del Comune di Locate Varesino, nel quale all’epoca dei fatti rivestiva la carica di Sindaco, sebbene la convenzione con la ACAM per la gestione del bene sia stata sottoscritta da tre comuni, ivi compreso il Comune di Locate Varesino.
2.In dipendenza del predetto accordo, dunque, la ACAM deteneva legittimamente il Castello al momento dei fatti e dei tutto inconferente si presenta in proposito la deduzione dei ricorrente circa l’ assenza di un contratto di locazione con la p.o., atteso che il titolo giuridico che può determinare la legittima detenzione di un bene immobile non è circoscrivibile alla sola locazione. Nella fattispecie in esame la “concessione in gestione” dei Castello, pare debba inquadrarsi in un comodato per uso determinato, ai sensi dell’art. 1803 e ss. c.c., in considerazione del contenuto della convenzione riportata testualmente nel ricorso (“concedono in gestione ..l’immobile…per l’attuazione del progetto culturale…” ‘, “l’immobile, gli impianti e vengono consegnati in custodia”), contratto nell’ambito dei quale l’attività di custodia del bene costituisce proprio una delle obbligazioni del comodatario. In capo a quest’ultimo, invero, deve ritenersi pienamente sussistente lo ius exciudendi alios, stante la legittima detenzione del bene attuata mediante la sua consegna e l’utilizzo esclusivo dei bene dal contratto derivante.
3. Manifestamente infondate si presentano le altre doglianze circa l’insussistenza nella fattispecie in esame di un luogo di privata dimora, ulteriore elemento richiesto per la configurabilità del reato di violazione di domicilio commesso da un pubblico ufficiale, dei diritto di vigilanza incombente in capo al ricorrente e dei luogo di sosta in cui è stato manifestato lo ius exciudendi.
3.1.Per quanto concerne il luogo di privata dimora, in risposta anche alle doglianze di cui al secondo motivo di ricorso è sufficiente richiamare in proposito i principi più volte espressi da questa Corte, secondo i quali ai fini della configurazione dei reato di violazione di domicilio, il concetto di privata dimora è più ampio di quello di casa d’abitazione, comprendendo ogni altro luogo che, pur non essendo destinato a casa di abitazione, venga usato, anche in modo transitorio e contingente, per lo svolgimento di una attività personale rientrante nella larga accezione di libertà domestica (Sez. F, n. 41646 del 27/08/2013), ossia tutti quei luoghi che, oltre all’abitazione, assolvano alla funzione di proteggere la vita privata e che siano perciò destinati al riposo, all’alimentazione, alle occupazioni professionali e all’attività di svago. Nella specie un luogo destinato ad attività culturale presuppone un soggiorno che, per quanto breve, ha comunque una certa durata, tale da far ritenere apprezzabile l’esplicazione di vita privata che vi si svolge, pienamente rientrante nella fattispecie in esame.
3.2.Per quanto concerne, poi, il punto esatto in cui l’imputato si è trattenuto invito domino, ebbene le sentenze di merito- da leggersi congiuntamente- danno atto che il C., una volta entrato raggiunse l’edificio, nonostante la contraria intimazione delle p.o., come si evince dalle fotografie scattate per documentare l’uso improprio del castello. Anche le aree adiacenti ed esterne al Castello non possono che avere le medesime caratteristiche di esplicazione della vita privata e, quindi, rientrano pienamente nel disposto di cui all’art. 615 c.p.; peraltro, a prescindere dallo svolgimento di attività private all’interno dei Castello, l’accesso ad esse non era libero, ma chiuso da un cancello regolamentato da un citofono, sicchè non potrebbe comunque farsi questione di un luogo “pubblico” accessibile a chiunque.
3.3.Infíne, per quanto concerne la doglianza relativa allo svolgimento da parte dei ricorrente di un’attività rientrante nel munus publicum da lui rivestito, come correttamente osservato dalla Corte territoriale, il C. si trovava al di fuori della sua area di competenza amministrativa, essendo il castello ubicato a Mozzate e non avendo alcun potere di vigilanza su di esso, in un contesto in cui i testi hanno riferito che gli imputati “millantavano che stavano agendo in funzione di Polizia”, con la conseguenza che risulta evidente da parte dell’imputato l’abuso dei poteri inerenti alla sua funzione di Sindaco di un comune dei tutto estraneo alla zona di intervento.
3. Alla declaratoria di inammissibilità segue per legge la condanna dei ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché, trattandosi di causa di inammissibilità riconducibile a colpa del ricorrente (Corte Costituzionale n. 186 del 7-13 giugno 2000), al versamento, a favore della cassa delle ammende, di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in Euro 1000,00, ai sensi dell’art. 616 c.p.p..

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1000,00 in favore della cassa delle ammende.

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