Corte di Cassazione bis

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE V

SENTENZA 4 giugno 2015, n. 23992

Ritenuto in fatto

C. A. è stato rinviato a giudizio per rispondere dei reato-di cui agli artt. 582, 583, primo comma n. 2, e secondo comma n. 1, cod. pen., perché, essendo affetto da epatite cronica da virus C ed avendo consapevolezza della propria malattia e dei relativi metodi di trasmissione, consumando senza alcuna precauzione plurimi e ripetuti rapporti sessuali con S. M., alla quale taceva le proprie condizioni di salute nonché le conseguenze a lui note derivanti da tali rapporti, cagionava alla stessa lesioni personali (infezione in atto da virus C) dalla quale derivava una malattia del corpo probabilmente insanabile e, comunque, l’indebolimento permanente del fegato, organo emuntore unico (tra l’ottobre 2008 e l’aprile 2009).

Con sentenza deliberata in data 19/01/2012, il Giudice dell’udienza preliminare dei Tribunale di Piacenza, all’esito del giudizio abbreviato, dichiarava C. A. colpevole dei reato di cui agli artt. 583 e 590 cod. pen., così riqualificata l’originaria imputazione, e condannava l’imputato alla pena di giustizia e al risarcimento dei danni, da liquidarsi dinanzi al giudice civile, in favore della parte civile, alla quale veniva concessa una provvisionale.

Investita degli appelli dell’imputato, del P.M. e della parte civile, la Corte di appello di Bologna, con sentenza deliberata il 28/11/2013, ha riqualificato il fatto ai sensi degli artt. 582, 583, primo comma n. 2, e secondo comma n. 1, cod. pen. e ha applicato all’imputato le circostanze attenuanti generiche equivalenti alle ritenute circostante aggravanti.

Avverso l’indicata sentenza della Corte di appello di Bologna ha proposto ricorso per cassazione C. A., attraverso il difensore avv. G. B., articolando due motivi di seguito enunciati nei limiti di cui all’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.

2.1. Vizi di motivazione e violazione e/o erronea applicazione degli artt. 192 e 194 cod. proc. pen., nonché degli artt. 40 cod. pen., 530, 533 cod. proc. pen.

La Corte di appello assume l’attendibilità intrinseca delle dichiarazioni della persona offesa in quanto supportate dalle dichiarazioni di E. B., che ha riferito di essere a conoscenza della relazione tra l’imputato e la persona offesa, avendo appreso tale circostanza in quanto di dominio pubblico ed in forma di pettegolezzo. Erroneamente la sentenza impugnata ha fatto riferimento all’art. 192, comma 2, cod. proc. pen., avendo in realtà violato l’art. 194 cod. proc. pen.

Con riguardo alla prova dei nesso causale tra i rapporti sessuali e l’infezione da epatite C dalla quale risulta affetta la persona offesa, la Corte di appello si è basata sulla consulenza dei P.M., ma ha omesso di esplicitare le ragioni per le quali ha collocato l’insorgenza della malattia il 22/03/2009, disattendendo la circostanza che in data 11/08/2009 la persona offesa risultava negativa al test qualitativo sull’epatite C. La sentenza impugnata ipotizza l’avvenuta trasmissione per via sessuale e, dunque, il nesso causale assumendo, in modo dei tutto apodittico, che l’imputato rientri nella categoria di persone che hanno multipli partner occasionali. La Corte di appello afferma in via ipotetica che le ragioni del mancato contagio della moglie dell’imputato possono essere rappresentate dalla mancanza di rapporti sessuali o dal fatto che questi siano stati ‘protetti’, richiamando il verbale dell’udienza presidenziale del 23/07/2009 relativo alla separazione personale dei coniugi, ma omettendo di rilevare come dallo stesso verbale si evinca la nascita dal matrimonio di due figli in epoca posteriore all’insorgenza nell’imputato dell’epatite C.

2.2. Vizi di motivazione e violazione e/o erronea applicazione degli artt. 42, 42, 61, primo comma, n. 3, 582, 590 cod. pen., 530, 533 cod. proc. pen.

Nel ritenere la natura dolosa del fatto, la Corte di appello ha disatteso i più recenti indirizzi della giurisprudenza di legittimità in ordine ai rapporti tra dolo eventuale e colpa cosciente, affermando, inoltre, la sussistenza dei dolo eventuale per essersi l’imputato rappresentato il concreto rischio del verificarsi dell’evento consistito nella trasmissione del virus, laddove l’evento del reato di lesione deve essere la malattia. La sentenza impugnata non fornisce motivazione circa la coesistenza e il concorso di lesioni gravi e di lesioni gravissime e non rende ragione dell’iter argomentativo che ha condotto la Corte di appello a negare che A., considerati la negatività della moglie e il suo stato di soggetto affetto da epatite C da circa venti anni ma senza alcun reale problema di salute ad essa riconducibile, nonché la limitata trasmissibilità attraverso rapporti sessuali dei virus HCV, non solo potesse dubitare che da sporadici rapporti in un lasso di tempo limitato potesse conseguire la trasmissione dei virus, ma anzi potesse ragionevolmente escludere che ‘quell`evento-malattia potesse concretamente verificarsi e non si sia certo ‘determinato anche a costo di cagionarlo’.

 Considerato in diritto

Il ricorso deve essere accolto nei limiti di seguito indicati.

Il primo motivo è, nel complesso, infondato.

Come chiarito dalle Sezioni unite di questa Corte, le regole dettate dall’art. 192, comma 3, cod. proc. pen. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca dei suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone, mentre nel caso in cui la persona offesa si sia costituita parte civile, può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi (Sez. U, n. 41461 dei 19/07/2012 – dep. 24/10/2012, Bell’Arte ed altri, Rv. 253214). Nella ricostruzione dei rapporti tra l’imputato e la persona offesa, i giudici di merito hanno fatto buon governo dei principio di diritto richiamato, valorizzando le dichiarazioni, ritenute intrinsecamente attendibili, della persona offesa, il cui racconto è stato confermato da ulteriori elementi, rappresentati non solo dalle dichiarazioni di E. B. (amico dell’imputato), ma anche dai dati probatori attestanti i pernottamenti dei due presso l’Hotel D.C. in almeno due occasioni – il 26/12/2008 e il 09/02/2009 – (pernottamenti sui quali l’imputato, come specificato dalla sentenza di primo grado, non ha fornito alcuna spiegazione alternativa), rispetto ai quali il ricorso omette il necessario confronto critico, sicché, sotto questo profilo, le doglianze dei ricorrenti sono carenti della necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione (Sez. 4, n. 18826 dei 09/02/2012 – dep. 16/05/2012, Pezzo, Rv. 253849).

Quanto al nesso di causalità, la sentenza di primo grado ha richiamato l’insegnamento delle Sezioni unite di questa Corte, secondo cui coefficienti medio-bassi di probabilità c.d. frequentista per tipi di evento impongono verifiche attente e puntuali sia della fondatezza scientifica che della specifica applicabilità nella fattispecie concreta, ma nulla esclude che anch’essi, se corroborati dal positivo riscontro probatorio circa la sicura non incidenza nel caso di specie di altri fattori interagenti in via alternativa, «possano essere utilizzati per il riconoscimento giudiziale dei necessario nesso di condizionamento» (Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002 – dep. 11/09/2002, Franzese). In questo quadro, le concordi – sul punto – determinazioni dei giudici di primo e di secondo grado fanno leva sulla valutazione coordinata di una pluralità di convergenti elementi (tratti, in particolare, dalla consulenza del pubblico ministero). Prima dell’inizio della relazione con l’imputato (durante la quale i rapporti sessuali non sono mai stati accompagnati da presidi di protezione o di prevenzione volti ad evitare il contagio), la persona offesa (mai informata dei rischio infettivo cui era esposta attraverso i rapporti sessuali con l’imputato) non soffriva di epatite C, come comprovato dalla documentazione clinica anteriore al ricovero del marzo del 2009, che attesta l’assenza di agenti biochimici e clinici da infezione da virus C: è certo, in particolare, che S. M. non aveva l’epatite C alla data de1.15/09/200,8 (quando-si era sottoposta a controlli a causa dell’epilessia di cui soffriva). L’epatite si è manifestata il 22/03/2009, ossia dopo che la persona offesa aveva avuto diversi rapporti sessuali con l’imputato, portatore dell’infezione; l’anamnesi svolta in occasione del ricovero del 01/04/2009 dava atto della presenza degli indici sintomatici della malattia da circa un mese. I periodi di incubazione del virus C) coincidono con la durata della relazione: come osservato dalla consulenza dei P.M., il periodo di incubazione dell’infezione è variabile da due a ventisei settimane dopo il contagio, con un picco a sette – otto settimane. Il genotipo virale dal quale sono affetti l’imputato e la persona offesa risulta lo -stesso, il che, nella valutazione dei consulente tecnico dei P.M., è idoneo a tradurre in termini non solo di elevata probabilità, ma di relativa certezza la sussistenza del nesso di causalità tra l’infezione da virus C contratta dalla persona offesa e la sua relazione con l’imputato. Nel quadro degli elementi appena sintetizzati vanno poi collocati due ulteriori rilievi dei giudici di merito; per un verso, la sentenza di primo grado, ha rimarcato come, nel caso concreto, non sia emerso alcun altro possibile fattore di contagio della persona offesa, mentre, per altro verso, la Corte di appello ha messo in luce come il giudizio di ‘improbabilità’ prospettato dai consulenti dell’imputato risulti fondato su premesse ipotetiche e parzialmente smentite in fatto.

Il compendio probatorio posto a sostegno della ritenuta sussistenza dei nesso dì causalità non è inficiato dalle censure del ricorrente. Infondata è la censura incentrata sul mancato contagio della moglie dell’imputato: sul punto, la Corte di appello ha rilevato che la non elevata percentuale di rischio (indicata dal consulente del P.M. nel 12%, con alcune casistiche che lo indicano anche nel 30%, laddove i consulenti della difesa riportano la percentuale del 3%) fa sì che il mancato contagio della moglie dell’imputato non escluda la derivabilità del contagio della persona offesa dai rapporti con A., rilievo, questo, in linea con i dati probatori richiamati ed immune da cadute di conseguenzialità logica (e, del resto, neppure oggetto di specifiche e puntuali censure del ricorrente). Le doglianze relative all’epoca di insorgenza della malattia, oltre che non sorrette da deduzioni in grado di disarticolare il ragionamento delineato dalla sentenza impugnata (così come quella relativa alla riconducibilità dell’imputato nella categoria di persone che hanno multipli partner occasionali), sono, prima ancora, infondate in fatto, posto che, come si è visto, il 22/03/2009 è indicato dai giudici di merito come epoca della manifestazione della malattia, laddove la sua insorgenza è stata individuata sulla base della anamnesi svolta dai sanitari. Il rilievo circa il test negativo dell’11/08/2009 risulta svincolato dall’indicazione del dato probatorio sul quale fa leva e, comunque, non è idoneo ad inficiare la motivazione della sentenza impugnata posto che la malattia contratta dalla persona offesa non risulta contestata. Nel suo complesso, dunque, l’iter motivazionale seguito dai giudici di merito in ordine alla sussistenza del nesso di causalità, non risulta, ad avviso del Collegio, compromesso, sul piano della tenuta logico-argomentativa, dalle doglianze del ricorrente.

Il secondo motivo, invece, è fondato nei termini di seguito indicati.

3.1. In premessa, rileva il Collegio che la motivazione della sentenza impugnata deve essere valutata al lume della recente pronuncia delle Sezioni unite (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014 – dep. 18/09/2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri) intervenuta proprio sul tema dei rapporti tra dolo eventuale e colpa cosciente, rimarcando la centralità, nel primo, della dimensione volitiva dell’elemento soggettivo del reato. Infatti, hanno affermato le Sezioni unite (par. 43.2.) che «se la previsione è elemento anche della colpa cosciente, è sul piano della volizione che va ricercata la distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente», laddove «la colpevolezza per accettazione del rischio non consentito corrisponde alla colpevolezza propria del reato colposo, non alla più grave colpevolezza che caratterizza il reato doloso»; ai fini della configurabilità del dolo eventuale, pertanto, non basta «la previsione del possibile verificarsi dell’evento; è necessario anche – e soprattutto – che l’evento sia considerato come prezzo (eventuale) da pagare per il raggiungimento di un determinato risultato»; nel dolo eventuale, infatti, «oltre all’accettazione dei rischio o dei pericolo vi è l’accettazione, sia pure in forma eventuale, del danno, della lesione, in quanto essa rappresenta il possibile prezzo di un risultato desiderato». Nella prospettiva tracciata dalle Sezioni unite (par. 50), dirimente, ai fini della configurabilità del dolo eventuale, è «un atteggiamento psichico che indichi una qualche adesione all’evento per il caso che esso si verifichi quale conseguenza non direttamente voluta della propria condotta», sicché riveste decisivo rilievo che «si faccia riferimento ad un reale atteggiamento psichico che, sulla base di una chiara visione delle cose e delle prospettive della propria condotta, esprima una scelta razionale; e, soprattutto, che esso sia rapportato allo specifico evento lesivo ed implichi ponderata, consapevole adesione ad esso, per il caso che abbia a realizzarsi».

Nella consapevolezza della complessità dell’accertamento giudiziale dell’elemento soggettivo del reato, le Sezioni unite hanno indicato alcuni indizi o indicatori del dolo eventuale: nella sintesi offertane dalla massima (Rv. 261105), le Sezioni unite hanno affermato che per la configurabilità dei dolo eventuale, anche ai fini della distinzione rispetto alla colpa cosciente, occorre la rigorosa dimostrazione che l’agente si sia confrontato con la specifica categoria di evento che si è verificata nella fattispecie concreta aderendo psicologicamente ad essa e a tal fine l’indagine giudiziaria, volta a ricostruire l’iter e l’esito del processa decisionale, può fondarsi su una serie di indicatori quali: a) la lontananza della condotta tenuta da quella doverosa; b) la personalità e le pregresse esperienze dell’agente; c) la durata e la ripetizione dell’azione; d) il comportamento successivo al fatto; e) il fine della condotta e la compatibilità con esso delle conseguenze collaterali; f) la probabilità di verificazione dell’evento; g) le conseguenze negative anche per l’autore in caso di sua verificazione; h) il contesto lecito o illecito in cui si è svolta l’azione nonché la possibilità di ritenere, alla stregua delle concrete acquisizioni probatorie, che l’agente non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell’evento (cd. prima formula di Frank).

3.2. La definizione dei rapporti tra dolo eventuale e colpa cosciente operata dalla sentenza n. 38343/14 delle Sezioni unite rende ragione della sussistenza, nei termini di seguito indicati, del vizio motivazionale della sentenza impugnata.

La Corte di appello ha motivato la riforma sul punto della pronuncia di primo grado rilevando come dal quadro probatorio emerga che, pur consapevole della propria malattia, l’imputato non solo non ha avvisato la persona offesa della situazione, ma ha anche avuto ripetutamente rapporti sessuali con la stessa pur consapevole della concreta possibilità di un contagio e ne ha accettato il rischio, a nulla rilevando la ‘speranza’ o il ‘desiderio’ che ciò non accadesse: l’imputato si è rappresentato il concreto rischio dell’evento e lo ha anche accettato, nel senso che si è determinato ad agire (ossia, ad avere rapporti sessuali non protetti) anche a costo di cagionarlo. Prive di consistenza sono le censure incentrate sul riferimento alla trasmissione del virus (espressione, questa, univocamente indicativa dell’infezione dalla quale è risultata affetta la persona offesa) e alle lesioni gravi e gravissime (volto ad offrire una puntuale descrizione dei fatti oggetto di imputazione e della sussumibilità delle conseguenze della contrazione dell’infezione nelle due fattispecie circostanziali). Inoltre, con riferimento al profilo rappresentativo dell’elemento soggettivo, ossia alla previsione del possibile verificarsi dell’evento, la sentenza di appello – in linea con quella di primo grado – ha fatto riferimento alla sicura conoscenza in capo all’imputato della possibilità di trasmissione della malattia attraverso rapporti sessuali non protetti, conclusione, questa, argomentata principalmente sulla base della documentazione del 12/03/2008 (una comunicazione della USL Emilia Romagna) che detta possibilità espressamente indicava: sul punto, la motivazione risulta immune da cadute di conseguenzialità logica e, comunque, non è stata oggetto di specifiche critiche da parte del ricorso.

E’, invece, con riguardo al profilo volitivo dell’elemento psicologico che la sentenza impugnata presenta il vizio motivazionale denunciato, sicché deve essere annullata: esaurendosi nel riferimento all’accettazione dei rischio da parte di A. del verificarsi dell’evento, la Corte di appello non ha dato atto della riconoscibilità, in capo all’imputato, di «un atteggiamento psichico che indichi una qualche adesione all’evento per il caso che esso si verifichi quale conseguenza non direttamente voluta della propria condotta» (Sez. U, n. 38343 del 2014 cit.). La sussistenza del vizio si apprezza anche alla luce degli indicatori del dolo eventuale individuati dalle Sezioni unite e, in particolare, di quelli desumibili dalle pregresse esperienze dell’agente: sotto questo profilo, l’epoca alla quale risale la malattia dell’imputato (15 – 20 anni, secondo quanto evidenziato dalla sentenza impugnata) e la circostanza che il coniuge non ha contratto la medesima malattia (in un arco temporale di cui, dalla sentenza impugnata, non risulta la coincidenza con la crisi matrimoniale richiamata, tra gli altri rilievi, dalla Corte di appello a proposito dei nesso di causalità) rappresentano dati che richiedono un adeguato approfondimento da parte del giudice di merito. Più in generale, la configurabilità del dolo eventuale in luogo della colpa cosciente richiede un puntuale confronto con gli indici rivelatori desumibili dal fatto e dalla vicenda nella quale si inserisce, confronto che dovrà essere svolto dal giudice del rinvio alla luce dei princìpi affermati dalla pronuncia delle Sezioni unite sopra richiamata. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell’art. 52 d.lgs. n. 196 del 2003.

 P.Q.M.

 Annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello dì Bologna per nuovo esame. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell’art. 52 d.lgs. 196/03 in quanto disposto d’ufficio.

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