Palazzo-Spada

Consiglio di Stato

sezione IV

sentenza 29 maggio 2015, n. 2688

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL CONSIGLIO DI STATO

IN SEDE GIURISDIZIONALE

SEZIONE QUARTA

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 8693 del 2014, proposto da:

An.Ma., Da.Pr., rappresentati e difesi dall’avv. Al.Mi., con domicilio eletto presso Gi.Pe. in Roma, Via (…);

contro

Comune di Trepuzzi ed altri (…);

per la riforma

della sentenza del T.A.R. Puglia – Sez. Staccata di Lecce: Sezione III n. 01351/2014, resa tra le parti, concernente silenzio serbato dall’amministrazione sull’istanza per la realizzazione di una strada pubblica – risarcimento danni;

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Trepuzzi;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 28 aprile 2015 il cons. Giuseppe Castiglia e uditi per le parti gli avvocati Fe. ed altri (…);

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

I signori An.Ma. e Da.Pr. sono proprietari di un’area nel territorio del Comune di Trepuzzi. Su una porzione dell’area sorge una villetta, mentre altra porzione, insieme con terreni appartenenti a diversi soggetti, è destinata – secondo il piano particolareggiato del 1987, confermato dal piano urbanistico generale – P.U.G. del 2004 – alla realizzazione di una via pubblica.

Sul presupposto che tale viabilità non sia mai stata completata, con conseguente decadenza dei vincoli espropriativi, con una serie di atti (l’ultimo dei quali risale al 2 dicembre 2012) hanno diffidato l’Amministrazione a provvedere.

Nella mancata risposta del Comune, hanno proposto ricorso per sentir dichiarare l’illegittimità del silenzio e per ottenere il risarcimento del danno sia per l’inosservanza del termine di conclusione del procedimento, sia per le conseguenze negative derivanti dall’aver progettato e realizzato l’abitazione secondo le previsioni urbanistiche all’epoca vigenti.

Con sentenza 4 giugno 2014, n. 1351, il T.A.R. per la Puglia – Lecce ha respinto il ricorso.

Il Tribunale territoriale ha ritenuto che:

non sussistesse alcun obbligo dell’Amministrazione di fornire una risposta alla richiesta di reiterazione del vincolo, sia per l’amplissima discrezionalità riservata all’ente locale in tema di scelte urbanistiche, sia per il carattere sostanzialmente anomalo del fenomeno della reiterazione;

anche a voler ritenere l’istanza di riqualificazione dell’area ricompresa nell’atto di diffida, tale contenuto non sarebbe presente nei precedenti atti extragiudiziali, cosicché mancherebbe l’atto di impulso procedimentale;

su tali premesse, non sarebbe configurabile alcun danno da ritardo;

la domanda di risarcimento del danno prodotto dalla mancata realizzazione della strada sarebbe estranea all’ambito del giudizio sul silenzio.

I signori Ma. e Pr. hanno interposto appello contro la sentenza.

Gli appellanti sostengono che, avendo presentato un progetto edilizio e ottenuto il titolo relativo sulla scorta delle previsioni urbanistiche comunali, sarebbero titolari di un’aspettativa particolarmente qualificata a che venga realizzata la strada in questione. Il comportamento inerte del Comune violerebbe i “diritti acquisiti” dei privati – riconosciuti per l’area in questione dall’art. 19 delle N.T.A. al P.U.G., in relazione al precedente piano particolareggiato del 1987 – e contrasterebbe con le norme procedimentali poste a garanzia del buon andamento della P.A. e a tutela del cittadino.

Di fronte a una richiesta di ripianificazione di un’area soggetta a vincolo ormai decaduto, il Comune sarebbe tenuto ad adottare una decisione, positiva o negativa, proponendo un nuovo piano attuativo per la parte non attuata o, previa motivazione circa la permanenza dell’interesse pubblico, reiterando il vincolo.

La decisione di primo grado sarebbe inoltre errata nella parte in cui ha ritenuto l’atto di diffida inidoneo a supportare la domanda, non contenendo una richiesta di riqualificazione dell’area, non altrimenti desumibile da precedenti atti extragiudiziali. La diffida sarebbe in realtà un valido atto di impulso procedimentale e ne seguirebbero anche gli elementi di fatto e di diritto per chiedere il risarcimento accordato dall’art. 2 bis della legge 7 agosto 1990, n. 241.

Il Comune di Trepuzzi si è costituito in giudizio per resistere all’appello, sostenendo che le controparti non potrebbero vantare alcun legittimo affidamento al completamento del tracciato stradale. Gli stessi appellanti avrebbero contraddetto il progetto iniziale, richiedendo un permesso in sanatoria per la costruzione di un garage con apertura su una via diversa da quella da realizzarsi, e la loro iniziativa non sarebbe condivisa dagli altri comproprietari dei terreni interessati, che con comportamenti concludenti e inequivoci (edificazione di un muro sull’area destinata al prolungamento della strada) avrebbero mostrato di non voler far propria l’iniziativa dei vicini e di accettare la situazione attuale dei luoghi. Il Comune, comunque non vincolato all’originario progetto viario (i c.d. “diritti acquisiti” avrebbero solo il valore di “obiettivi di qualità” ex art. 4 delle N.T.A.), non potrebbe limitarsi a rinnovare i vincoli decaduti, ma dovrebbe adottare un nuovo piano attuativo, dunque a esercitare un potere che è espressione di amplissima discrezionalità tecnico-amministrativa.

Con successiva memoria, il Comune ribadisce la tesi che, mancando in capo agli appellanti un interesse concreto e attuale alla realizzazione di un diverso disegno viario (la loro proprietà si affaccerebbe su una strada larga e ben collegata), esso non avrebbe alcun obbligo di provvedere e la sua mancata risposta non potrebbe essere censurata.

Gli appellanti hanno replicato con memoria.

Alla camera di consiglio del 28 aprile 2015, l’appello è stato chiamato e trattenuto in decisione.

DIRITTO

1. In via preliminare, la Sezione ritiene di sottolineare come la ricostruzione in fatto, come sopra riportata e ripetitiva di quella operata dal giudice di prime cure, non sia stata contestata dalle parti costituite per cui, vigendo la preclusione posta dall’art. 64, comma 2, c.p.a., deve considerarsi idonea alla prova dei fatti oggetto di giudizio.

2. Nel merito della vicenda, l’Amministrazione – sia nell’atto di costituzione, sia nella memoria del 31 marzo scorso – contesta che gli appellanti siano titolari di un interesse concreto e attuale alla realizzazione della strada, tale da renderne differenziata la posizione rispetto a quello del comune cittadino. Ne discenderebbe l’inammissibilità e la palese infondatezza dell’atto di diffida e dell’appello (e prima ancora, si dovrebbe aggiungere, dello stesso ricorso introduttivo).

Questa tesi non merita di essere seguita.

In linea di massima, infatti, l’obbligo giuridico di provvedere – ai sensi dell’art. 2 della legge n. 241 del 1990, come modificato dall’art. 7 della legge 18 giugno 2009, n. 69 – sussiste in tutte quelle fattispecie particolari nelle quali ragioni di giustizia e di equità impongano l’adozione di un provvedimento e quindi, tutte quelle volte in cui, in relazione al dovere di correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica, sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni (qualunque esse siano) dell’Amministrazione (cfr. Cons. Stato, sez. V, 3 giugno 2010, n. 3487; Id., sez. IV, 24 aprile 2012, n. 2468).

L’obbligo di provvedere, e prima ancora procedere, sussiste non solo nei casi previsti dalla legge, ma anche nelle ipotesi che discendono da principi generali, ovvero dalla peculiarità della fattispecie, per la quale ragioni di giustizia ovvero rapporti esistenti tra amministrazioni ed amministrati impongono l’adozione di un provvedimento (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 20 maggio 2014, n. 2545; Id., sez. V, 9 marzo 2015, n. 1182).

Nel caso di specie, è incontestato che:

l’area in questione appartenga agli appellanti;

l’originaria previsione di piano, poi confermata, la destinasse alla realizzazione di una via pubblica;

tale previsione non abbia avuto esecuzione;

il vincolo preordinato all’esproprio sia decaduto per l’inutile decorso del termine di legge.

Il Collegio ritiene evidente che – alla luce degli elementi ora riassunti – fra il Comune e gli appellanti sussista una relazione specifica e differenziata, per effetto della quale l’ente aveva un potenziale obbligo di esprimersi formalmente sulla diffida che gli era stata rivolta. Le circostanze di fatto (quale la decisione degli appellanti di dotarsi di un garage affacciato su di un’altra via pubblica o i diversi comportamenti di altri proprietari dei suoli coinvolti) non modificano il dato giuridico di fondo circa l’astratta fondatezza della pretesa dei privati all’adozione di un provvedimento espresso.

3. Questa astratta fondatezza va saggiata al metro di giudizio della concreta vicenda. E, infatti, la sentenza impugnata non ha negato l’interesse al ricorso, ma lo ha respinto nel merito in relazione al contenuto dell’atto di diffida da cui la causa prende avvio: da un lato, la reiterazione del vincolo sarebbe nell’amplissima discrezionalità dell’Amministrazione; dall’altro, la ritipizzazione dell’area, anche ad ammettere che la richiesta fosse racchiusa nella diffida, non sarebbe presente in precedenti atti extragiudiziali, cosicché, mancando l’atto di impulso, non potrebbe configurarsi alcun inadempimento del Comune.

Quest’affermazione merita di essere condivisa, sebbene con alcune precisazioni.

L’atto di parte del 2 dicembre 2012, benché si autoqualifichi in modo generico “Istanza di riqualificazione. Atto di diffida e messa in mora”, specificamente invita e diffida il Comune “a riapprovare lo strumento urbanistico al fine di dare definitiva e completa attuazione al P.P., ovvero per realizzare la pubblica strada denominata Montale …”. Le diffide precedenti, riportate nel fascicolo processuale, non divergono sotto il profilo in questione.

In altri termini i privati, lungi dal chiedere solo – come sarebbe loro diritto – la ritipizzazione dell’area una volta scaduto il vincolo, esigono dal Comune l’esercizio di poteri che, nell’an e nel quomodo, appartengono alla sfera esclusiva della sua discrezionalità.

Vero è che sia il ricorso introduttivo, sia l’appello chiedono la condanna dell’Amministrazione “a provvedere all’attribuzione all’area de qua di una specifica ed appropriata destinazione urbanistica”. Questa richiesta tuttavia, di per sé – si ripete – legittima, è estranea al procedimento avviato con l’atto di diffida e non è possibile tenerne conto in questa sede.

Deve allora rimanere fermo il principio che l’obbligo di provvedere alla rideterminazione urbanistica di un’area, in relazione alla quale siano decaduti i vincoli espropriativi precedentemente in vigore (o i vincoli a quelli assimilati), non comporta che essa riceva una destinazione urbanistica nel senso voluto dal privato, essendo in ogni caso rimessa al potere discrezionale dell’Amministrazione comunale la verifica e la scelta della destinazione che, in coerenza con la più generale disciplina urbanistica del territorio, risulti più idonea e più adeguata in relazione all’interesse pubblico al corretto e armonico utilizzo del territorio, potendo anche ammettersi la reiterazione degli stessi vincoli scaduti, ma solo nei limiti di una congrua e specifica motivazione sulla perdurante attualità della previsione, comparata con gli interessi privati (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 7 giugno 2012, n. 3365; Id., sez. IV, 25 settembre 2012, n. 5088).

4. Nei giudizi su silenzio, come è noto, il giudice amministrativo non di regola può andare oltre la declaratoria di illegittimità dell’inerzia e l’ordine di provvedere; gli resta precluso il potere di accertare direttamente la fondatezza della pretesa fatta valere dal richiedente, sostituendosi all’Amministrazione stessa. Le disposizioni relative, ove interpretate diversamente, attribuirebbero illegittimamente, in modo indiscriminato, una giurisdizione di merito (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 24 maggio 2010, n. 3270).

Tuttavia, nell’ambito del giudizio sul silenzio, il giudice potrà conoscere dell’accoglibilità dell’istanza:

a) nelle ipotesi di manifesta fondatezza, allorché siano richiesti provvedimenti amministrativi dovuti o vincolati in cui non c’è da compiere alcuna scelta discrezionale che potrebbe sfociare in diverse soluzioni e fermo restando il limite della impossibilità di sostituirsi all’Amministrazione;

b) nell’ipotesi in cui l’istanza sia manifestamente infondata, sicché risulti del tutto diseconomico obbligare l’Amministrazione a provvedere laddove l’atto espresso non potrebbe che essere di rigetto (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12 marzo 2010, n. 1468; Id., sez. IV, 12 febbraio 2015, n. 741 e n. 742).

Per quanto sopra si è detto, quest’ultimo è precisamente il caso di specie.

5. Dalle considerazioni che precedono discende che l’appello in tema di silenzio è infondato e va perciò respinto, come pure va respinta la domanda di risarcimento del danno da ritardo sia per l’assenza, alla luce dei rilievi sopra svolti, dell’elemento soggettivo in capo all’Amministrazione, sia per la mancata prova del danno subito, invece necessaria anche in casi in cui, come quello presente, il privato reclami dall’Amministrazione il risarcimento del danno prodotto dal mancato rispetto del termine di conclusione del procedimento (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 22 dicembre 2014, n. 6263).

Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante: ex plurimis, per le affermazioni più risalenti, Cass. civ., sez. II, 22 marzo 1995, n. 3260, e, per quelle più recenti, Cass. civ., sez. V, 16 maggio 2012, n. 7663). Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a condurre a una conclusione di segno diverso.

Il comportamento del Comune appellato riguardo alla mancata realizzazione degli obiettivi previsti dagli strumenti urbanistici locali giustifica la compensazione fra le parti delle spese di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale – Sezione Quarta – definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata.

Compensa fra le parti le spese di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 28 aprile 2015 con l’intervento dei magistrati:

Riccardo Virgilio – Presidente

Fabio Taormina – Consigliere

Diego Sabatino – Consigliere

Andrea Migliozzi – Consigliere

Giuseppe Castiglia – Consigliere, Estensore

Depositata in Segreteria il 29 maggio 2015.

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