Cassazione toga rossa

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE V

SENTENZA 25 luglio 2014, n. 33197

Ritenuto in fatto

  1. La Corte di Appello di Cagliari, con sentenza dell’8 novembre 2013, ha confermato la sentenza del Tribunale di Cagliari del 10 giugno 2010 che aveva condannato P.C. per i delitti, unificati dal vincolo della continuazione, di tentata diffamazione a mezzo stampa e diffamazione consumata, per aver compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco ad offendere col mezzo della stampa la reputazione di D.A. nel corso di una conferenza stampa, alla quale non seguiva pubblicazione alcuna da parte dei giornalisti presenti, nonché per aver offeso la reputazione del suddetto pronunziando nella medesima occasione le seguenti espressioni: ‘denuncio qui il Tenente D. , il Comandante dei Carabinieri di (…), per i documenti che ho in mano, è peggio di un assassino. Il Pubblico Ministero ha ordinato espressamente ai Carabinieri, al Comandante di (…), di sentire a sommarie informazioni l’indagato e gli ho citato anche l’articolo e non l’ha sentito…poi vi dico perché non l’ha sentito’.
  2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per Cassazione l’imputato, a mezzo del proprio difensore, il quale lamenta:
  3. a) una violazione della legge processuale e una motivazione illogica, per essere stata emessa la sentenza nonostante operasse la sospensione del procedimento per l’avvenuta proposizione del ricorso per cassazione avverso l’ordinanza con la quale la Corte di Appello Civile aveva dichiarato l’inammissibilità dell’istanza di ricusazione del Presidente del Collegio della Corte di Appello Penale;
  4. b) una violazione di legge e una motivazione illogica in merito alla mancata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale;
  5. c) una violazione di legge e una motivazione illogica, con riferimento all’appello proposto dall’imputato personalmente e disatteso per non pertinenza con il fatto ascritto e per disorganicità delle doglianze nonché per l’insussistenza dell’ascritto reato;
  6. d) una violazione di legge sostanziale e processuale nonché una motivazione illogica, con riferimento all’appello proposto dalla difesa dell’imputato in merito alla continenza delle espressioni adoperate.
  7. Risulta, altresì, proposto ricorso dall’imputato personalmente contenente una ‘premessa irrinunciabile’ (da pagina 1 a pagina 3), con la quale si formula l’auspicio che questa Corte, tenendo presente l’atto di appello, ‘si sobbarchi l’onere dell’esame anche del presente ricorso’; una breve nota storica dei fatti (da pagina 4 a pagina 5); l’esame della sentenza impugnata (da pagina 6 a pagina 130) con il quale si confutano tutte le parole scritte in essa, nonché si evidenziano riferimenti alle motivazioni contenute nella sentenza di primo grado e si riproducono atti processuali relativi anche ad altri procedimenti penali.
  8. Risulta pervenuta memoria, redatta personalmente dall’imputato, con la quale si propongono motivi aggiunti attinenti ad un fatto del quale il ricorrente era venuto a conoscenza soltanto di recente e cioè di un procedimento iscritto presso dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma (da pagina 5 a pagina 17 della memoria) nonché all’udienza celebratasi il 24 ottobre 2013 presso la Corte territoriale impugnata (v. da pagina 18 a 21), con particolare riferimento all’istanza di rinvio per la pendenza del termine per il ricorso per cassazione avverso il provvedimento di rigetto dell’istanza di ricusazione del Collegio giudicante.
  9. Risulta, infine, depositata in data odierna e quindi inammissibilmente ulteriore memoria difensiva da parte dell’imputato, relativa all’invio di un fascicolo contenente documenti del processo celebratosi avanti la Corte territoriale.

 Considerato in diritto

  1. Il ricorso, nella duplice formulazione ad opera dell’imputato e del suo difensore, non è meritevole di accoglimento.
  2. In via preliminare deve tenersi ben presente, a cagione della pletora delle doglianze proposte, il dettato dell’articolo 173, comma 1 delle norme di attuazione del codice di procedura che afferma che ‘i motivi del ricorso sono enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione’.

Giova, altresì, premettere come al Giudice di legittimità resti tuttora preclusa, in sede di controllo della motivazione, la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal Giudice del merito perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa: un tale modo di procedere trasformerebbe, infatti, la Corte nell’ennesimo Giudice del fatto.

Pertanto la Corte, anche nel quadro nella nuova disciplina, è e resta Giudice della motivazione.

Nel caso di specie, va anche ricordato che ci si trova dinanzi ad una ‘doppia conforme’ e cioè ad una doppia pronuncia di eguale segno, per cui il vizio di travisamento della prova può essere rilevato in sede di legittimità solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che l’argomento probatorio asseritamente travisato sia stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado.

Invero, sebbene in tema di giudizio di Cassazione, in forza della novella dell’articolo 606 cod.proc.pen., comma 1, lett. e), introdotta dalla L. n. 46 del 2006, sia ora sindacabile il vizio di travisamento della prova, che si ha quando nella motivazione si fa uso di un’informazione rilevante che non esiste nel processo, o quando si omette la valutazione di una prova decisiva, esso può essere fatto valere nell’ipotesi in cui l’impugnata decisione abbia riformato quella di primo grado, non potendo, nel caso di c.d. doppia conforme, superarsi il limite del ‘devolutum’ con recuperi in sede di legittimità, salvo il caso in cui il Giudice d’appello, per rispondere alla critiche dei motivi di gravame, abbia richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo Giudice (v. Cass. Sez. IV 3 febbraio 2009 n. 19710).

Nel caso di specie, invece, il Giudice di appello ha riesaminato lo stesso materiale probatorio già sottoposto al Tribunale e, dopo avere preso atto delle censure degli appellanti, è giunto alla medesima conclusione della responsabilità dell’imputato.

  1. Passando all’esame dei motivi procedurali di doglianza sollevati dalla difesa dell’imputato deve affermarsene l’infondatezza in quanto, ai sensi dell’articolo 37 comma 2 cod.proc.pen., il Giudice ricusato non può pronunziare sentenza prima che sia intervenuta l’ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta la ricusazione.

Nella specie, non è controverso che, all’atto della pronuncia testé impugnata e cioè l’8 novembre 2013 fosse stata già emessa il 21 ottobre 2013 ordinanza d’inammissibilità della proposta ricusazione (v. pagina 4 del ricorso avv. Stara).

Il divieto, per il Giudice ricusato, di pronunciare sentenza ex articolo 37 comma secondo, cod.proc.pen., opera sino alla pronuncia di inammissibilità o di rigetto, anche non definitiva, dell’organo competente a decidere sulla ricusazione, essendo, tuttavia, la successiva decisione del Giudice ricusato, affetta da nullità qualora la pronuncia di inammissibilità o di rigetto sia annullata dalla Corte di Cassazione e il difetto di imparzialità accertato dalla stessa Corte o nell’eventuale giudizio di rinvio (v. Cass. Sez. Un. 27 gennaio 2011 n. 23122).

Nella specie il ricorrente non ha prodotto, in ossequio ai principi in tema di autosufficienza del ricorso per cassazione, la eventuale decisione di questa Corte relativa all’affermata inammissibilità della ricusazione, per cui non v’è dimostrazione, neppure eccepita, della indicata nullità.

  1. Del pari, infondato è il secondo motivo di doglianza in rito.

Invero, in diritto, si osserva come l’articolo 507 cod.proc.pen. conferisca al Giudice un potere e non un dovere di integrazione probatoria; l’esercizio di tale potere presuppone, poi, la sussistenza dell’assoluta necessità del nuovo mezzo di prova e postula l’apprezzamento e la valutazione al riguardo da parte del Giudice, il quale, ove non eserciti tale potere, non è tenuto a darne espressamente conto, evincendosi implicitamente dall’effettuata valutazione, adeguata e logica, delle risultanze probatorie già acquisite la superfluità di una eventuale integrazione istruttoria (v. Cass. Sez.VI 16 febbraio 2010 n. 24430); l’iniziativa deve essere, pertanto, ‘assolutamente necessaria’ (sia l’articolo 507 che il 603 del codice di rito per l’appello usano questa espressione) e la prova deve avere carattere di decisività (altrimenti non sarebbe ‘assolutamente necessaria’), diversamente da quanto avviene nell’esercizio ordinario del potere dispositivo delle parti in cui si richiede soltanto che le prove siano ammissibili e rilevanti; nella specie, in fatto questa volta, la Corte territoriale, di fronte alla richiesta contenuta nell’appello dell’imputato, ha chiaramente motivato non solo il diniego dell’ammissione della prova ma, altresì, il suo carattere di non pertinenza (rectius: decisività), sulla base del suo riferimento alla pretesa illegittimità delle condotte di altri soggetti diversi dall’imputato (v. pagina 10 della motivazione).

  1. Il quarto motivo del ricorso della difesa è infondato perché giunge a contestare la ritenuta incontinenza, ai fini della configurazione degli ascritti reati di diffamazione, delle espressioni di cui al capo d’imputazione.

Il motivo del ricorso, a sua volta, è articolato esclusivamente in fatto e sottopone a questa Corte una inammissibile rivisitazione degli atti di causa, sostenendo che di essi poteva darsi diversa lettura.

Le doglianze così prospettate sono dunque del tutto infondate, atteso che le conformi decisioni dei Giudici di merito risultano più che adeguatamente argomentate.

Né risulta dedotto alcun reale ‘travisamento’ della prova, dovendo, nel rispetto della funzione del Giudice di legittimità, ritenersi tale solamente l’errore revocatorio (sul significante) e soltanto esso.

Sicché nonostante la modifica dell’articolo 606 cod.proc.pen., lett. e) non può non essere ancora inammissibile ogni censura che risulti rivolta non già a sottoporre alla Giudice di legittimità l’esistenza di un errore sull’esistenza di prove decisive (sui significanti assunti per la dimostrazione del thema probandum) bensì a sollecitare una diversa valutazione del risultato probatorio (del significato della prove complessivamente esaminate, estrapolando da esse singoli atti o passaggi che si assumono capaci di supportare una diversa interpretazione della vicenda) e dunque un impossibile sindacato di legittimità sul fatto (v. Cass. Sez. VI 24 marzo 2006 n. 14054 e Sez. V 17 ottobre 2006 n. 38932).

È appena il caso di ricordare, poi, che il limite della continenza nel diritto di critica è superato in presenza di espressioni che, in quanto gravemente infamanti e inutilmente umilianti, trasmodino in una mera aggressione verbale del soggetto criticato (v. Cass. Sez. V 4 maggio 2010 n. 29730 e 23 febbraio 2011 n. 15060).

In questa prospettiva, il contesto nel quale la condotta si colloca può essere valutato ai limitati fini del giudizio di stretta riferibilità delle espressioni potenzialmente diffamatorie al comportamento del soggetto passivo oggetto di critica; ma non può in alcun modo scriminare l’uso di espressioni che si risolvano nella denigrazione della persona di quest’ultimo in quanto tale.

Il riconoscimento del diritto di critica tollera, in altre parole, giudizi anche aspri sull’operato del destinatario delle espressioni, purché gli stessi colpiscano quest’ultimo con riguardo a modalità di condotta manifestate nelle circostanze a cui la critica si riferisce; ma non consente che, prendendo spunto da dette circostanze, si trascenda in attacchi a qualità o modi di essere della persona che finiscano per prescindere dalla vicenda concreta, assumendo le connotazioni di una valutazione di discredito in termini generali della persona criticata.

Orbene, come è stato osservato da questa stessa Sezione (v. Cass. Sez. V 27 ottobre 2010 n. 3356): ‘continenza significa proporzione, misura e non continenti sono quei termini che non hanno equivalenti e non sono sproporzionati rispetto ai fini del concetto da esprimere e alla controllata forza emotiva suscitata della polemica su cui si vuole instaurare un lecito rapporto dialogico e dialettico. La continenza formale non equivale a obbligo di utilizzare un linguaggio grigio e anodino, ma consente il ricorso a parole sferzanti, nella misura in cui siano correlate al livello della polemica, ai fatti narrati e rievocati’.

Il limite insuperabile, anche in tal caso, è quello del rispetto dei valori fondamentali, allorché la persona pubblica, oltre al ludibrio della sua immagine pubblica, sia esposta al disprezzo (v. Cass. Sez. V 20 ottobre 1998 n. 13563 e di recente Sez. V 23 maggio 2013 n. 37706).

Tutto ciò premesso in diritto si osserva, questa volta in fatto secondo quanto accertato dalla Corte territoriale con motivazione immune da vizi logici, come le espressioni fossero sicuramente non continenti.

In genere, dare dell’assassino al quivis de populo è già indice di gratuito attacco ad personam allorquando difetti ugualmente la verità del fatto.

A maggior ragione deve ritenersi non continente l’utilizzazione di tale espressione nei confronti di un appartenente alle Forze dell’ordine che, di regola, combatte ed accerta la sussistenza di criminalità omicidiaria.

  1. Il terzo motivo del ricorso dell’avv. Stara nonché il ricorso personale dell’imputato non meritano miglior sorte dei motivi dianzi indicati.

Quanto all’unico elaborato motivo del ricorso personale dell’imputato, avverso la sentenza della Corte territoriale, va preliminarmente osservato che il ricorso appare del tutto incomprensibile rispetto ai fatti del processo ove lo si legga dopo aver letto soltanto la sentenza impugnata.

Diventa allora indispensabile far precedere alla lettura dei motivi di questo ricorso per Cassazione, non solo, come è ovvio, la lettura della sentenza d’appello, ma anche di quella di primo grado e dei motivi d’appello, per rendere comprensibili i riferimenti ad altri processi, ad altri imputati, nonché alcune delle riletture delle dichiarazioni rese dai soggetti processuali, in aggiunta ai passaggi nei quali non è dato comprendere con immediatezza se ci si riferisca a questo processo o ad altri di cui pure si affermi, in tesi, la rilevanza.

La lettura di tali atti è certamente una esigenza consueta e, spesso, del tutto doverosa in relazione ai motivi di ricorso che denuncino una mancata risposta argomentativa a motivi d’appello rilevanti o vizi logici della motivazione di primo grado recepita per relationem in quella di appello, ma in questo caso la fisiologia di questo doveroso modo di procedere è alterata dalla constatazione che occorre fare il cammino a ritroso non per verificare la fondatezza dei motivi di ricorso, ma semplicemente per comprenderne il significato ed individuare i capi delle decisioni precedenti, tra loro integratesi, sui quali potrebbe appuntarsi la censura.

Va allora richiamato, il principio di diritto, insegnamento costante di questa Corte, secondo cui la mancanza di specificità del motivo deve essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del Giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità, che potrebbe condurre, a mente dell’articolo 591, co. 1, lett. C) cod.proc.pen., alla inammissibilità (v. Cass. Sez. IV 3 maggio 2000 n. 5191, Sez. I 30 settembre 2004 n. 39598 e da ultimo, Sez. V 15 febbraio 2013 n. 28011).

In particolare, il requisito della specificità implica, per la parte impugnante, l’onere non solo di indicare con esattezza i punti oggetto di gravame, ma di spiegare anche le ragioni per le quali si ritiene ingiusta o contra legem la decisione, all’uopo evidenziando, in modo preciso e completo, anche se succintamente, gli elementi che si pongono a fondamento delle censure.

Valga, per tutte, Cass. Sez. V 3 marzo 1999 n. 2896 ove si afferma che in tema di ricorso per Cassazione, i relativi motivi non possono limitarsi al semplice richiamo ‘per relationem’ ai motivi di appello, allo scopo di dedurre, con riferimento ad essi, la mancanza di motivazione della sentenza che sì intende impugnare.

Requisito, infatti, dei motivi di impugnazione è la loro specificità1, consistente nella precisa e determinata indicazione dei punti di fatto e delle questioni di diritto da sottoporre al Giudice del gravame.

Conseguentemente, la mancanza di tali requisiti rende l’atto di impugnazione inidoneo a fondare un giudizio di fondatezza.

E non vale osservare che qui si è in presenza di un complesso ed articolato motivo che, assunto nella sua apparenza ponderale, sembra tutt’altro che un rinvio per relationem ad atti precedenti.

Quello che rileva è la totale mancanza della specifica indicazione degli elementi di cui alle lettere a) e c) dell’articolo 581 cod.proc.pen., che non può certo dirsi sanata dalla constatazione abbastanza ovvia che, in realtà, trattandosi, a dire del ricorrente, di processo fondato su accertamenti contenuti in altri procedimenti penali, lo scopo del ricorso sarebbe quello di rimettere totalmente in discussione il precedente esercizio della giurisdizione.

Molto più semplicemente, ma non semplicisticamente, il presente giudizio ha ad oggetto soltanto la portata diffamatoria o meno delle espressioni adoperate dall’odierno ricorrente nell’occasione della conferenza stampa del 3 febbraio 2007 e questo Collegio, per quanto dianzi esposto, non può che concordare con quanto affermato da entrambi i Giudici dei precedenti gradi di giudizio.

Il terzo motivo del ricorso dell’avv. Stara, direttamente collegato al ricorso personale dell’imputato, non attribuisce patente di fondatezza a quest’ultimo in quanto giudica immotivato in quanto meramente assertivo nonché erroneo e contraddittorio il percorso motivazionale dell’impugnata sentenza di cui alle pagine 7 ed 8 che, di converso, per quanto dianzi espresso questa Corte pienamente condivide.

  1. Quanto ai motivi aggiunti, presentati dall’imputato, può osservarsi come di nessun rilievo ai fini del presente giudizio sarebbero gli atti relativi ad altro procedimento penale pendente avanti la Procura della Repubblica di Roma (indagato il medesimo odierno ricorrente per reati in danno di altra persona offesa, v. pagina 5 della memoria).

Quanto al motivo inerente l’udienza del 24 ottobre 2013 celebratasi presso la Corte di appello di Cagliari valgono le considerazioni dianzi esposte sub n. 3).

  1. Il ricorso va, in conclusione, rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione delle spese sostenute nel presente giudizio dalla parte civile, liquidate come da dispositivo.

 P.Q.M.

 La Corte, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al ristoro delle spese sostenute in questo grado di giudizio dalla costituita PC, che liquida in complessivi Euro 1500, oltre accessori come per legge.

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