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SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE IV

SENTENZA 29 luglio 2014, n. 33413

Ritenuto in fatto

Con sentenza del 9/4/2013, la Corte d’appello di Bologna confermava la sentenza con la quale, all’esito di giudizio abbreviato, in data 22/2/2010, il Tribunale di Piacenza aveva dichiarato C.A. colpevole del reato di furto in abitazione (accertato il (omissis)) allo stesso contestato al capo a) della rubrica, dichiarando invece non doversi procedere nei confronti dello stesso e della coimputata S.S. in ordine all’analogo reato loro ascritto in concorso al capo b) perché estinto per prescrizione. Concesse le attenuanti generiche, ritenute equivalenti alla contestata recidiva reiterata e alla pure contestata aggravante di cui all’art. 625 n. 2 cod. pen., applicata la riduzione per la scelta del rito, lo condannava quindi alla pena di un anno e due mesi di reclusione ed Euro 400,00 di multa (così rideterminata in riduzione rispetto a quella che in primo grado era stata commisurata sulla base del più grave reato sub b – dichiarato prescritto in appello – con l’aumento per il reato sub a, ritenuto in continuazione).

Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione l’imputato, per mezzo del proprio difensore, sulla base di due motivi.

Con il primo deduce violazione di legge in ordine alla qualificazione giuridica del fatto come furto in abitazione, ai sensi dell’art. 624-bis cod. pen. anziché come furto semplice, da dichiararsi improcedibile per difetto di querela.

Sostiene che la fattispecie prevista dalla norma incriminatrice non può essere estesa al punto da ricomprendere anche le ipotesi di furto attuate in locali adibiti esclusivamente all’esercizio di un’attività commerciale, in cui è totalmente assente lo scopo abitativo, e che pertanto erronea deve ritenersi la qualificazione giuridica prospettata nel caso di specie dai giudici di merito.

Con il secondo motivo deduce ancora violazione di legge in ordine alla ritenuta sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 625 n. 2 cod. pen..

Osserva che la condotta posta in essere nel caso di specie non rientra nella fattispecie astratta definita dalla norma, poiché nessun danneggiamento o trasformazione della cosa è stato provocato.

 Considerato in diritto

 
È fondata la doglianza con la quale si censura la qualificazione del reato come furto in abitazione ai sensi dell’art. 624-bis cod. pen..

4.1. Com’è noto tale disposizione, introdotta dall’art. 2 legge 26 marzo 2001, n. 128, innovando rispetto alla previsione contenuta nell’art. 625 n. 1 cod. pen., che indicava quale aggravante del furto la condotta realizzatasi attraverso la introduzione o l’intrattenersi in un edificio destinato ad altrui “abitazione”, prevede – configurandola quale fattispecie autonoma di reato, al fine di sottrarla al giudizio di bilanciamento, e sanzionandola con pena più severa – la condotta dell’impossessamento mediante introduzione in un luogo destinato a “privata dimora” ovvero nelle sue pertinenze.

La locuzione utilizzata ha recepito in parte i risultati della precedente elaborazione giurisprudenziale sulla nozione di “abitazione” presente nel soppresso n. 1 dell’art. 625 cod. pen. ma anche nella rubrica della nuova norma.

Infatti, già nel vigore della previgente previsione, la nozione di abitazione, evocando quella del luogo finalizzato a soddisfare esigenze della vita domestica e familiare, aveva consentito di includervi anche locali che, pur non comunicando direttamente con l’abitazione, sono tuttavia destinati a soddisfare esigenze della vita domestica e familiare (Sez. 5, n. 11077 del 14/10/1992 – dep. 17/11/1992, De Battisti, Rv. 192547), come le autorimesse (Sez. 2, n. 22937 del 29/05/2012 – dep. 12/06/2012, Muffarti e altro, Rv. 253193; Sez. 5, n. 21948 del 02/02/2001 – dep. 31/05/2001, Pinto G, Rv. 219027); i cortili i quali, pur non essendo adibiti a vera e propria abitazione, costituiscono parte integrante del luogo abitato per essere destinati, con carattere di indispensabile strumentalità, all’attuazione delle esigenze della vita abitativa (Sez. 2, n. 6287 del 29/10/1990 – dep. 10/06/1991, Busatta, Rv. 187399); le scale (Sez. 2, n. 5202 del 06/06/1988 – dep. 13/04/1989, Savagni, Rv. 181005); il negozio intercomunicante con alcuni vani adibiti ad abitazione (Sez. 2, n. 3951 del 25/11/1980 – dep. 30/04/1981, Scarano, Rv. 148594); un’area privata di pertinenza dell’abitazione condotta in locazione dallo stesso autore del fatto (Sez. 2, n. 22909 del 22/05/2012 – dep. 12/06/2012, Baldi, Rv. 253191); la stanza d’ospedale destinata all’uso del personale paramedico (Sez. 5, n. 3703 del 02/02/1993 – dep. 16/04/1993, Mangano, Rv. 194349); uno spazio di una abitazione distinto e appartato dalla parte (solo) nella quale l’autore del furto era stato autorizzato ad accedere, essendo necessario distinguere, in funzione del consenso espresso dal soggetto passivo, tra i diversi locali che compongono l’abitazione (Sez. 2, n. 8276 del 16/05/1988 – dep. 09/06/1989, Mattioni, Rv. 181523).

A maggior ragione la rilevanza di luoghi non strettamente riconducibili al concetto di abitazione emerge dalla formulazione della nuova norma, essendo quella di “privata dimora” nozione più ampia e comprensiva di quella di “abitazione” (come è dimostrato anche dalla formulazione dell’art. 614 cod. pen., ove sono entrambi presenti), in essa rientrando tutti quei luoghi non pubblici nei quali le persone si trattengono per compiere, anche in modo transitorio e contingente, atti della loro vita privata ovvero attività di carattere culturale, professionale e politico.

Si è quindi ritenuto che vi rientrano, ad es.: gli studi professionali, gli spazi di esercizi commerciali o di stabilimenti industriali nei quali la persona offesa possa svolgere, anche in modo contingente, atti di vita privata (Sez. 5, n. 30957 del 02/07/2010 – dep. 03/08/2010, Cirlincione, Rv. 247765; Sez. 5, n. 43089 del 18/09/2007 – dep. 22/11/2007, P.G. in proc. Salvadori, Rv. 238493; Sez. 5, n. 43671 del 17/09/2003 – dep. 14/11/2003, Sgaramella, Rv. 226415; Sez. 4, n. 18810 del 26/02/2003 – dep. 18/04/2003, P.M. in proc. Solimano, Rv. 224568), compreso anche un pubblico esercizio, nelle ore di chiusura, utilizzato dal proprietario per lo svolgimento di un’attività lavorativa, sia pure inerente alla gestione del locale stesso (v. Sez. 4, n. 32232 del 10/06/2009 – dep. 06/08/2009, P.G. in proc. Caglioni, Rv. 244432); la portineria di un condominio (Sez. 5, n. 28192 del 25/03/2008 – dep. 09/07/2008, Tagliartela, Rv. 240442); le aree condominiali, anche quando le stesse non siano nella disponibilità esclusiva dei singoli condomini (Sez. 4, n. 4215 del 10/01/2013 – dep. 28/01/2013, B., Rv. 255080); il cortile condominiale, che costituisca pertinenza di una privata dimora (Sez. 7, n. 3959 del 02/10/2012 – dep. 24/01/2013, Romano, Rv. 255100); uno studio odontoiatrico (Sez. 5, n. 10187 del 15/02/2011 – dep. 14/03/2011, Gelasio, Rv. 249850); l’interno di un campo da tennis inserito in un complesso alberghiero (Sez. 5, n. 4569 del 22/12/2010 – dep. 08/02/2011, Bifara, Rv. 249268); una baracca adibita a spogliatoio in un cantiere edile (Sez. 5, n. 32093 del 25/06/2010 – dep. 20/08/2010, Truzzi e altro, Rv. 248356); l’area di uno stabilimento adibita a deposito merci considerato che lo stabilimento rappresenta uno degli snodi fondamentali in cui si svolge la vita privata dell’imprenditore, atteso che i beni prodotti devono essere necessariamente depositati al suo interno al fine di organizzare e stabilire quantità correlate all’andamento prevedibile della domanda nonché cadenze e prezzi di vendita (Sez. 5, n. 33993 del 05/07/2010 – dep. 21/09/2010, Cannavale e altri, Rv. 248421).

Né si richiede che, per poter esser ritenuto “destinato a privata dimora”, il luogo dal quale siano sottratte le cose sia munito di particolari accorgimenti per impedire l’ingresso del pubblico, essendo sufficiente che si tratti di area distinta e appartata e come tale facilmente riconoscibile, o per la sua effettiva utilizzazione o per le modalità della sua sistemazione (per esempio l’arredamento) da cui sia desumibile lo scopo abitativo o comunque la destinazione a privata occupazione (cfr. Sez. 2, n. 23402 del 18/05/2005 – dep. 21/06/2005, Pangallo, Rv. 231885; Sez. 4, n. 40245 del 30/09/2008 – dep. 28/10/2008, P.M. in proc. Aljmi, Rv. 241331, che ha ritenuto privata dimora, ai fini del disposto dell’art. 624-bis c.p., la sagrestia, in quanto funzionale allo svolgimento di attività complementari a quelle di culto, servente non solo edificio sacro, ma alla stessa casa canonica; nonché, Sez. 4, n. 20022 del 16/04/2008 – dep. 19/05/2008, Castri, Rv. 239980, che, parimenti, ha ritenuto corretta la qualificazione ex art. 624-bis c.p. del furto commesso all’interno di un palazzo di giustizia, in un locale adibito a spogliatoi degli avvocati: trattavasi, infatti, di luogo in cui gli avvocati si trattenevano, seppure soltanto temporaneamente, per compiere atti della propria vita quotidiana, e che non poteva definirsi come pubblico o aperto al pubblico per il solo fatto che fosse accessibile a più di un avvocato; sez. 5, n. 22725 del 05/05/2010 – dep. 14/06/2010, P.G. in proc. Dunca, Rv. 247969, che ha qualificato nei detti termini un locale destinato a ripostiglio posto all’interno di esercizio commerciale, ancorché non munito di particolari accorgimenti per impedire l’ingresso del pubblico; Sez. 4, n. 37908 del 25/06/2009 – dep. 25/09/2009, Apprezzo, Rv. 244980, che ha ritenuto costituire privata dimora agli effetti della norma citata il locale di servizio posto nel retro di una farmacia, la cui porta era rimasta socchiusa, durante l’orario di apertura; Sez. 5, n. 4569 del 22/12/2010 – dep. 08/02/2011, Bifara, Rv. 249268, che ha ritenuto integrare il delitto di furto in abitazione la condotta di colui che commetta il furto all’interno di un campo di tennis inserito in un complesso alberghiero, considerato che esso costituisce pertinenza dell’albergo e luogo nel quale i soggetti che ivi si intrattengono, anche solo per svolgere attività ludica, pongono in essere atti relativi alla propria sfera privata).

Pur in relazione a tale più ampio campo semantico rilevante ai fini della identificazione del concetto di “privata dimora” non appare dubbio tuttavia che, al fine di individuare una linea di discrimine tra la più grave fattispecie sanzionata dall’art. 624-bis cod. pen. e quella di cui all’art. 624 cod. pen., occorre pur sempre – pena altrimenti una tendenziale e arbitraria sovrapposizione delle due ipotesi – che il luogo nel quale è perpetrato il furto abbia per sua struttura o per l’uso che ne è fatto in concreto una destinazione legata e riservata alla esplicazione di attività proprie della vita privata della persona offesa, ancorché non necessariamente coincidenti con quelle propriamente domestiche o familiari ma identificabili anche con attività produttiva, professionale, culturale, politica.

Deve cioè trattarsi di luoghi deputati allo svolgimento di attività che richiedano una qualche apprezzabile permanenza, ancorché transitoria e contingente, della persona offesa, per taluna delle finalità predette.

Ciò del resto conformemente alla ratio della previsione che è quella della tutela della sicurezza fisica della vittima che si trovi all’interno di luoghi nei quali essa soggiorni sia pure per breve tempo per attività privata, essendo inoltre tale tipo di condotta sintomatico di una maggiore audacia e pericolosità dell’agente e, quindi, determinante un maggiore allarme sociale.

Nell’ipotesi in esame tale requisito non può ritenersi motivatamente accertato: si tratta, infatti, di furto di mercé (scarpe) custodita dentro un furgone parcheggiato all’interno di un capannone di proprietà della persona offesa e si ha pertanto riferimento a un luogo del quale non può ritenersi autoevidente l’ipotizzata destinazione a “privata dimora” sia pure nei sensi predetti, in mancanza, in particolare, di alcuna emergenza in ordine alla effettiva destinazione del capannone medesimo.
È invece inammissibile, per difetto di specificità, il secondo motivo.

Sul punto, invero, il ricorrente si limita all’affermazione del tutto apodittica secondo cui, nel caso di specie, “nessun danneggiamento o trasformazione della cosa è stato provocato”.

Con ogni evidenza, tale affermazione si risolve nella mera generica prospettazione di una ricostruzione del fatto contraria a quella cui è giunto il giudice del merito, in assenza di alcun rilievo o argomento critico idoneo a evidenziare vizio di mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione sul punto adottata.

Su tali basi, l’affermazione secondo cui il giudice sarebbe incorso in violazione di legge per aver ritenuto sussistente l’aggravante di cui all’art. 625 n. 2 cod. pen. si appalesa manifestamente infondata ovvero, in realtà, inammissibilmente volta a richiedere una surrettizia rivalutazione del fatto, certamente non consentita in questa sede.
Ne discende anche l’infondatezza dell’assunto del ricorrente secondo cui il reato avrebbe dovuto dichiararsi improcedibile per difetto di querela. Pur nella accolta diversa qualificazione del fatto, infatti, la riconosciuta sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 625 n. 2 cod. proc. pen. rende il reato perseguibile d’ufficio, non ostandovi il giudizio di equivalenza con le pur riconosciute attenuanti generiche, questo infatti incidendo solo sul trattamento sanzionatorio ma non privando l’aggravante degli altri connessi effetti penali, tra i quali quello di rendere il reato base procedibile ex officio (v. ex aliis Sez. 4, n. 1045 del 15/12/2006 – dep. 17/01/2007, Terlimbacco, Rv. 236019).
La diversa qualificazione del fatto cui necessariamente conducono le considerazioni sopra esposte (par. 4) comporta, però, la necessità di considerare un diverso termine prescrizionale che, alla data della presente decisione, deve ritenersi maturato.

Trattandosi infatti di fatto anteriore all’entrata in vigore della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (c.d. legge ex Cirielli) ma essendo stata la sentenza di primo grado pronunciata in epoca successiva (22/2/2010), in forza delle disposizioni transitorie contenute nell’art. 10, commi 2 e 3, L. cit., occorre aver riguardo, ai fini dell’individuazione del regime prescrizionale applicabile, alla disciplina in concreto più favorevole.

In ragione di tale criterio, nella specie deve trovare applicazione il termine prescrizionale previsto dall’art. 157 cod. pen. nella formulazione antecedente alle modifiche introdotte dalla citata legge. A tal fine, in forza di tale previsione, essendo state nella specie concesse le attenuanti generiche ritenute equivalenti alla recidiva e alla ulteriore contestata aggravante di cui all’art. 625 n. 2 cod. pen., deve aversi riguardo alla pena detentiva prevista per il furto semplice (da sei mesi a tre anni), discendendone che il termine prescrizionale deve ritenersi pari ad anni cinque, prolungato della metà per effetto degli atti interruttivi ai sensi dell’art. 160, comma terzo, cod. pen. nella previgente formulazione, per un totale dunque di sette anni e mezzo.

Ne discende che, alla data della odierna decisione – anche tenendosi conto della sospensione derivante dal rinvio dell’udienza del 18/12/2009 a quella successiva del 25/1/2010, disposto su richiesta della difesa “per consentire all’imputato di rendere spontanee dichiarazioni” – la prescrizione deve ritenersi ad oggi già maturata e, segnatamente, alla data del 27/8/2011.

In ragione delle considerazioni che precedono, deve dunque pronunciarsi l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, per essere anche il residuo reato ascritto al ricorrente sub lett. a) della rubrica, estinto per prescrizione.

 P.Q.M.

Annulla nei confronti di C.A. la sentenza impugnata senza rinvio perché estinto per prescrizione il reato di cui all’art. 624 e 625, primo comma, n. 2 c.p. così qualificato il fatto di cui al capo A) di imputazione, con la già riconosciuta equivalenza tra le concesse attenuanti generiche e le aggravanti.

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