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Suprema Corte di Cassazione

sezione V

sentenza 24 marzo 2014, n. 13832

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza in data 18 luglio 2012 la Corte d’Appello di Torino, in ciò parzialmente confermando la decisione assunta dal Tribunale di Biella (invece riformata in ordine ad altri reati), ha riconosciuto D.G. responsabile del delitto di furto in abitazione per essersi impossessato di un computer portatile, detenuto da G.G. all’interno del suo ufficio nell’agenzia della S.A.R.A. Assicurazioni s.p.a.. Il fatto era stato così riqualificato già in prime cure, a fronte dell’originaria imputazione di tentato furto.
1.1. Ha ritenuto il giudice di merito che il D. , visto dal contitolare dell’agenzia assicurativa mentre usciva dai locali tenendo sotto braccio l’unità hardware di un computer da scrivania, avesse già acquisito in quel momento la materiale disponibilità del bene prelevato; e che il locale nel quale aveva eseguito la sottrazione, essendo l’ufficio personale del G. , costituisse un luogo di privata dimora nel quale si esplicava l’attività professionale del derubato.
2. Ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, per il tramite del difensore, affidandolo a due motivi.
2.1. Col primo motivo il ricorrente contrasta la qualificazione giuridica del fatto ex art. 624-bis cod. pen. sostenendo che i locali dell’agenzia assicurativa, essendo funzionalmente connessi a quelli dell’Automobile Club, devono considerarsi pubblici al pari di questi.
2.2. Col secondo motivo ripropone la tesi del mero tentativo di furto sotto un duplice profilo: per un verso in considerazione dell’attività di monitoraggio svolta nei confronti dell’autore del fatto, sia pur nella fase finale del suo svolgimento; per altro verso in considerazione delle modalità di asporto del computer, tenuto sotto il braccio e, quindi, nemmeno occultato.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è inammissibile in quanto manifestamente infondato.
1.1. Ed invero, per quanto si riferisce al primo motivo, va rimarcato che la Corte di Appello si è correttamente attenuta al costante insegnamento giurisprudenziale secondo cui l’art. 624-bis, comma primo, del codice penale, nel porre quale elemento costitutivo del furto ivi descritto l’introduzione “in un edificio o in altro luogo destinato in tutto o in parte a privata dimora”, si riferisce a qualsiasi luogo nel quale le persone si trattengano per compiere, anche in modo transitorio e contingente, atti della loro vita privata (Sez. 5, n. 10187 del 15/02/2011, Gelasio, Rv. 249850; Sez. 5, n. 30957 del 02/07/2010, Cirlincione, Rv. 247765); ciò in base alla considerazione per cui la nozione di “privata dimora” è più ampia di quella di “abitazione”, ricomprendendo ogni luogo non pubblico che serva all’esplicazione di attività culturali, professionali e politiche (Sez. 5, n. 32093 del 25/06/2010, Truzzi, Rv. 248356); bene, perciò, ha operato il giudice di merito nel ritenere integrata la fattispecie criminosa in esame nel caso della sottrazione di un bene custodito nell’ufficio personale di uno dei titolari dell’agenzia assicurativa, nel quale egli abitualmente esplicava la propria attività professionale.
A tale linea argomentativa, totalmente immune da vizi logici e giuridici, il ricorrente ha contrapposto irrilevanti considerazioni circa l’attiguità spaziale tra gli uffici pubblici dell’Automobile Club e l’agenzia della S.A.R.A. Assicurazioni: il che si traduce in una censura manifestamente infondata, essendo di tutta evidenza come l’apertura al pubblico degli uffici dell’A.C.I. non possa intendersi estesa ai separati locali nei quali è insediata una compagnia di assicurazione, sia pur collegatavi funzionalmente da un rapporto di collaborazione: e meno ancora possa intendersi estesa all’ufficio privato di uno dei titolari dell’agenzia.
1.2. Quanto al secondo motivo, l’assunto a tenore del quale non potrebbe considerarsi consumato il furto del computer portatile ambisce a fondarsi su una duplicità di ragioni, entrambe prive di qualsiasi valenza logico-giuridica. Sotto il primo profilo, invero, non ha alcuna giustificazione la tesi secondo cui l’asportazione del bene potrebbe dirsi “monitorata”, sebbene l’azione furtiva sia stata percepita solo al momento in cui il D. stava uscendo dai locali dell’agenzia con la refurtiva sotto braccio; sotto il secondo profilo non ha alcun pregio – alla stregua del dettato normativo – la tesi secondo cui non potrebbe ritenersi realizzato lo spossessa mento del detentore, se non nel caso di occultamento del bene sottratto.
2. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso conseguono le statuizioni di cui all’art. 616 cod. proc. pen..

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

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